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NBA, Dwane Casey e la lettera emozionante sul caso Floyd

L’allenatore dei Pistons ha voluto scrivere i suoi pensieri sul caso George Floyd che sta sconvolgendo il paese

L’America intera è ancora sconvolta dalla morte senza senso di George Floyd. Nelle principali città statunitensi, in queste ore, si registrano numerose proteste con gente in strada pronta a rivendicare il loro diritto alla vita e la loro totale contrarietà e indignazione per l’omicidio commesso nei confronti dello stesso Floyd. Numerosi giocatori NBA stanno prendendo parte in maniera attiva alle proteste di Atlanta (Malcolm Brogdon & Jaylen Brown), Los Angeles (JR Smith tra tutti) e Chicago.

Anche Dwane Casey, coach dei Detroit Pistons, ha voluto toccare il delicato argomento e l’ha fatto con una lettera pubblicata sul sito ufficiale della franchigia del Michigan. Casey, lo ricordiamo, ha vissuto a Minneapolis – luogo in cui tutto è partito – per un paio d’anni durante la sua prima esperienza di head coach in NBA:

Cinquantaquattro anni fa ero un ragazzino di otto anni che viveva nel Kentucky, quando venne posto fine alla segregazione razziale nelle scuole. Entrai in una scuola di bianchi dove era evidente che non mi volessero, dove non ero il benvenuto. Al tempo non c’erano cellulari che potessero testimoniare il trattamento che subii, non c’erano le news in tv 24 ore al giorno per 7 giorni alla settimana,  non c’erano i social media a registrare quanto accadeva e offrire sia supporto che condanna. Però io mi ricordo esattamente come mi sentivo, a otto anni. Mi sentivo indifeso. Mi sentivo come se nessuno mi vedesse, mi sentisse o mi capisse. Così, mentre guardo gli eventi seguiti all’omicidio di George Floyd a Minneapolis, una città dove ho allenato e che ho chiamato casa, continuo a vedere nelle persone quelle stesse sensazioni — gente indifesa, frustrata, invisibile agli occhi di tutti, arrabbiata. Capisco questa rabbia, perché la lista continua ad allungarsi: Ahmaud Arbery, Breonna Taylor, George Floyd. L’ingiustizia continua ad aumentare, niente sembra cambiare. Cinquantaquattro anni dopo mio figlio oggi ha otto anni e se io guardo al mondo in cui sta crescendo mi chiedo: ‘Quanto è veramente cambiato? Quante volte viene giudicato dal suo aspetto? Sta crescendo in un mondo in cui può essere visto, ascoltato e capito? Si sente anche lui indifeso? Verrà trattato anche lui come George Floyd or Ahmaud Abrey? Cos’abbiamo fatto davvero in questi 54 anni per rendere il mondo un posto migliore di quello in cui sono cresciuto io? Dobbiamo essere migliori, dobbiamo comportarci meglio. Dobbiamo cambiare il modo in cui guardiamo noi stessi e gli altri. Dobbiamo lavorare assieme per trovare soluzioni che rendano giusto il sistema giudiziario. Neri, bianchi, gente di colore: dobbiamo tutti lavorare assieme per trovare le risposte. L’unico modo in cui possiamo fermare questi problemi sistemici che la gente di colore ha dovuto affrontare per tutta la vita è attraverso l’onestà e la trasparenza. Dobbiamo capire perché oggi la gente è al limite della sopportazione. Ci vuole empatia, nella sua forma più autentica. Ci vuole uno scarto culturale, un cambiamento: ci vogliono fatti, azioni. Mettiamo fine all’ingiustizia, ora. Non permettiamo che un’altra generazione debba continuare a vivere in un mondo dov’è trattata in maniera inuguale. Il momento di cambiare davvero tutto questo è adesso.”

 

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