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Curiosità

Intervista al vincitore di “Commissioner for a day”

Abbiamo fatto due chiacchiere con Marcello Natalini, vincitore del contest Commissioner for a Day

Visto il grande successo del progetto “Commissioner for a day”, abbiamo pensato di fare una chiacchierata-intervista con il vincitore riguardo agli spunti nati durante l’elaborazione del progetto. Nel caso vi foste persi di cosa si tratta: la nostra presentazione e il sito ufficiale del concorso.

Dopo la fine di questa prima edizione del contest, l’obiettivo degli organizzatori è stato quello di mettere in contatto i partecipanti tra di loro per creare una rete giovane e fresca, che potesse confrontarsi e condividere le proprie idee. Il vincitore è stato scelto da una giuria d’eccezione in base all’equilibrio tra originalità e fattibilità del progetto e ha ottenuto la possibilità di partecipare a un’esperienza negli USA (tra Las Vegas e New York) durante il prossimo luglio.

A confrontarsi nella chiacchierata: Marcello Natalini (appunto, vincitore della prima edizione del contest) e i “nostri” Jacopo Gramegna (menzione ad honorem tra i partecipanti) ed Elena Zoppè (tra i 10 finalisti del concorso).

Prima di tutto: le presentazioni.

  • Marcello Natalini: 24 anni, di Bologna. Sono all’ultimo anno di Ingegneria Edile-Architettura presso l’Università di Bologna. Lo scorso anno ho avuto la fortuna di vincere il bando Overseas di UNIBO e sono stato Exchange student alla University of Oklahoma (quella di Blake Griffin, Buddy Hield e Trae Young, per capirci).

https://twitter.com/commishforaday/status/1002116491045752832

  • Jacopo Gramegna: 22 anni, di Ruvo di Puglia (paese piccolo, ma da cui sono passati tanti nomi della pallacanestro italiana). Studio Giurisprudenza d’Impresa all’Università di Bari e sono al quarto anno.

https://twitter.com/commishforaday/status/1002280910702743552

  • Elena Zoppè: 20 anni, di Treviso. Studio Lingue e Culture per il Turismo e il Commercio Internazionale a Verona e sono al primo anno.

 

Quando (e come/da dove) è nata la passione per il basket?

  • Marcello: Ho conosciuto il basket andando al campo estivo qui vicino a casa mia. Mi hanno portato a fare la prova e mi è piaciuto. Ho continuato sempre nello stesso settore giovanile (PGS Corticella di Bologna) e ho smesso di giocare solo per questioni di studio; ho ripreso, poi, quest’anno in promozione nella stessa società.
  • Jacopo: Il mio primo approccio con il basket è stato all’età di 5 anni, quando mia madre mi ha portato a fare la prova nel club seguito da Biagio Di Gioia, allenatore da cui passano tutti quelli che diventano qualcuno nel basket qui (come dico sempre, a Philadelphia hanno Sonny Hill, a Ruvo c’è lui). Ho smesso per un po’ e alle scuole medie ho ripreso a giocare e ho continuato fino all’U19, ottenendo anche ottimi piazzamenti. Dopo una breve pausa per motivi di tempo, nei primi anni di Università ho partecipato alla Coppa Open e l’anno successivo ho giocato in Promozione. Poi, ho iniziato a scrivere (prima tanto storytelling, ora soprattutto analisi) inizialmente per un piccolo blog con sede in Sicilia, ora per NBAReligion.com. L’anno scorso ho avuto la fortuna di far parte dell’organizzazione dell’evento per il ritiro di Gianluca Basile, in cui abbiamo portato personaggi del calibro di Rubio e Navarro in un paesino di 25000 persone in provincia di Bari (una grande soddisfazione).
    Da quest’anno faccio anche il telecronista per gare di serie C e U20 nazionale.
  • Elena: La mia storia è molto più corta perché non ho mai giocato! Ho avuto la fortuna di nascere in una città in cui lo sport ha grande rilevanza… Mio papà gioca da una vita ed è sempre stato un grande appassionato, quindi vado al palazzetto da quando sono piccolina. C’erano due possibilità: o iniziavo a odiare il basket, o mi appassionavo, ed è andata nel modo migliore.
    La passione è cresciuta soprattutto quando Treviso è dovuta ripartire da zero ed è tornata in A2. In quel periodo ho cominciato ad avvicinarmi anche all’NBA, che seguivo poco prima, e da un anno e mezzo anch’io scrivo per NbaReligion.com.

 

Come avete conosciuto il contest e perché avete partecipato?

  • M: L’ho scoperto grazie alle storie di Matteo Marchi (fotografo NBA con base a New York) e così ho iniziato a interessarmi. Ho partecipato per mettermi in gioco, perché c’era questa opportunità e, considerando sia il premio, sia la struttura il contest, mi è subito sembrato interessante. In questo periodo sono molto preso anche da altri concorsi – soprattutto di Architettura qui all’Università – e mi sembrava un’ottima occasione per arricchire il mio portfolio, la lista dei miei progetti. È un po’ scontato da dire, ma non mi aspettavo andasse a finire così.
  • J: Ho conosciuto il contest parlando direttamente con Manuel Riccio perché avevo intervistato da poco Cecilia Zandalasini e mi aveva accennato del progetto, perché gli interessava che arrivasse ai lettori di NbaReligion.com. Poi, vista la fascia d’età e l’interesse nel far parte di un contenitore di idee che aggiungessero valore alla nostra pallacanestro, ho deciso di partecipare.
  • E: Io per questa volta sono stata dalla parte dei lettori, e sono venuta a conoscenza del progetto principalmente grazie ai vari pezzi scritti dal “nostro” Nicolò (che non ha partecipato, malissimo!) (categoria: digital, media and broadcasting, event management, analytics e marketing). Mi sembrava un’opportunità pazzesca, oltre che per il premio, per approfondire la situazione del basket italiano, che vedo, “vivo”, ma non ho mai analizzato sotto certi aspetti.

 

Di cosa tratta il vostro progetto? E da dove avete trovato l’ispirazione?

  • M: Volevo un’idea che fosse un po’ mia (perché l’ho vissuta in prima persona) e che mettesse in contatto le persone. Quindi, ho pensato al tailgate: una sorta di festa che si organizza prima delle partite di football in America (io l’ho vissuto a livello collegiale in Oklahoma). Mi sembrava potesse essere interessante provare ad applicarla al basket italiano e provare a vedere cosa sarebbe successo. E meglio di così non poteva andare! Mi ha fatto piacere partecipare e vedere che 40 ragazzi, oltre a me, hanno portato le proprie idee, molto diverse tra di loro. Sicuramente è stata una gran bella esperienza.
  • J: A me è venuto in mente un concetto che, pur prendendo spunto da altre realtà, nella strutturazione è totalmente personale. La mia idea, in poche parole, è partire dalla recente riforma per la valorizzazione dei vivai italiani, che prevede il 5+5 o il 6+6 a livello di roster (o 5 formati in Italia e 5 stranieri, o 6 formati e 6 stranieri, con una “penale” di 40000 euro).
    Analizzando questa riforma, vicina a quella tedesca di qualche anno fa, ho pensato a un sistema in grado di favorire le squadre “meno ricche” e che generalmente investono di più nei giovani italiani. Si tratta di un sistema statistico per inquadrare l’andamento dei giocatori di formazione italiana e vedere retribuiti i team che hanno puntato su questi attraverso un fondo che si viene a creare con le tasse aggiuntive. Il sistema è molto complesso, ma punta a incoraggiare lo sviluppo dei giocatori italiani, senza forzare troppo le squadre che hanno bisogno di un roster di un certo tipo per poter gareggiare in coppe europee.
  • E: La mia proposta, invece, è una settimana di seminari e incontri per i giovani che puntano a diventare i futuri manager, dirigenti, ecc. di domani nelle società italiane. In queste giornate i ragazzi hanno l’opportunità di mettersi in contatto e conoscere i punti di vista di personalità di alto livello nel mondo del basket o di professori provenienti da alcune università dello sport europee. L’obiettivo è quello di far capire ai giovani l’importanza dello staff che sta dietro a un atleta o una squadra.
  • M: Per quanto riguarda l’ispirazione, come avevo accennato, sono stato in Oklahoma come Exchange student. Vivevo, tra l’altro, in una delle residenze universitarie vicino all’Arena, dove abitavano anche molti atleti dell’Università (sono stato “sfortunato”, perché sono capitato nell’anno subito dopo Buddy Hield e subito prima di Trae Young). La OU ha un programma sportivo di altissimo livello e, quando sono arrivato, per me, era quasi assurdo (lo stadio da football, per esempio, tiene più di 80000 persone). Sono molto attaccati al college football perché in Oklahoma non ci sono squadre di NFL e anche il basket è molto molto seguito (tra college e i vicini Thunder, a mezz’oretta da lì). L’idea del tailgate è nata perché mi ha particolarmente colpito l’importanza che danno a questo evento gli americani. Se la partita comincia, per dire, alle 12, loro dalle 8 di mattina piantano la tenda, pronti a fare il loro barbecue. Si tratta di numeri pazzeschi già all’Università, quindi immaginate cosa accade nei mega impianti che hanno a disposizione per l’NFL.
    Io avevo una host family (vivevo da solo, ma loro mi hanno coinvolto e fatto integrare al meglio) che partecipava a questi tailgate da anni; ormai era una tradizione.
    Sono rimasto colpito dall’attaccamento all’evento, dai legami che si vanno a creare e dal modo in cui nasce un vero e proprio “neighborhood delle tende”. Ho visto, così, unirsi anche tante culture (veniva con noi, per esempio, anche il mio coinquilino giapponese che, in altre situazioni, era invece molto chiuso).
    Come ultima cosa, infine, volevo puntare sul cibo della tradizione italiana; creare, quindi, la possibilità per varie società di ristorazione di prendere parte, con i propri stand, al tailgate stesso.
  • J: Essendo il mio lavoro molto originale, per me si è trattato di un percorso tra i sistemi di varie nazioni. Ho visto che la riforma italiana era molto simile a quella tedesca e ho cercato un modo per effettuare il passaggio dalla strutturazione del roster alla retribuzione. Ho avuto principalmente 2 punti di riferimento. Il primo è un articolo sul basket in Australia, dove viene utilizzato un coefficiente per calcolare il valore di un giocatore all’interno della lega e in base a quello viene organizzato una sorta di salary cap relativo a ogni squadra. Cercando un modo per valutare gli atleti su base statistica, ho trovato il mio secondo “modello”: su stampo americano, ho pensato al fondo con cui premiare le squadre che hanno la pazienza di utilizzare un numero maggiore di giovani italiani.
    La mia idea è evitare che si accumuli talento in panchina e riequilibrare l’efficienza dei giocatori italiani. Ho avuto quindi vari spunti, ma nessun vero modello.
  • E: In quest’ultimo anno e mezzo ho seguito molto il sito della LSU (Università dello Sport di Kaunas in Lituania) perché mi piacerebbe fare un master in ambito sportivo.
    I corsi proposti dalla LSU, appunto, mi sono sembrati subito molto validi e, dando un’occhiata in giro, mi sono resa conto che l’edizione di quest’anno della cosiddetta International Week (evento da cui prende ispirazione il mio progetto) aveva attirato a Kaunas professionisti e “spettatori” da davvero tutto il mondo. Mi sembrava, perciò, una bella idea, anche se molto più semplice delle vostre.

Chi è la persona che vi ha aiutato di più e in cosa?

  • M: Mi sono fatto dare alcuni consigli per gli ambiti di cui non sapevo nulla/sapevo poco. Per esempio, un mio amico mi ha aiutato con la parte economica perché, per dare un valore al tailgate, ho pensato a un sistema di sconti e interazione tra l’evento e le società. Calcolando i costi medi degli abbonamenti nei vari palazzetti italiani e i vari sconti che a questi vengono applicati, ho deciso di puntare su 3 categorie: le famiglie, i fan e le compagnie di food e beverage che si vanno a inserire all’interno del tailgate.
    Un altro amico mi ha aiutato per il video (e questa storia fa davvero ridere). Avevo in mente di farlo in un campetto vicino a casa nostra. In una bella giornata allora andiamo lì e troviamo aperto. Iniziando a registrare, però, capiamo che era aperto perché c’erano i giardinieri che dovevano tagliare alcuni alberi. Quindi, girando il video (che doveva durare 2 minuti), giusto quando mancavano 30 secondi, 1 minuto o comunque poco, generalmente iniziavano a troncare un albero o passava il treno dietro di me. È stata un’impresa.
    Infine, mi sono confrontato più volte con altro ragazzo con cui collaboro spesso e con cui giocavo a basket.
  • J: In realtà io ho poco da dire perché sostanzialmente non mi ha aiutato nessuno.
    Una mia costante quando scrivo è farlo da solo. Ho fatto una revisione dello scritto con mia madre perché, dopo averlo letto un sacco di volte, volevo la conferma che non ci fossero errori, ma niente di che.
    È una cosa che un po’ mi pesa perché il bello di questo progetto è appunto condividere, conoscere e approfondire argomenti che non si conoscono, ma alla fine ci ho lavorato da solo.
  • E: Io, come al solito quando si parla di basket, ho chiesto l’“approvazione” di mio papà. Appena ho visto il concorso ho pensato alla LSU, di cui avevo già parlato spesso con lui e confrontandoci ho pensato a cosa potesse davvero dare qualcosa in più alla pallacanestro italiana.
    Si è trattato di un semplice confronto con lui e alla fine mia mamma e alcune mie amiche (pur non capendo tanto di cosa stavo parlando perché non seguono il basket) mi hanno aiutato nella revisione dal punto di vista della lingua.
  • E: Grazie a Marcello e Jacopo della chiacchierata e a Manuel Riccio che ci ha messi in contatto ed è stato molto disponibile. È stato un piacere conoscervi e auguro buon viaggio negli USA a Marcello (ma non ho dubbi sul fatto che andrà benissimo)!

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