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Inside the NBA #7: Victor Oladipo

Da Indiana a Indiana. Un ritratto di Victor Oladipo. Tutto il meglio della recente intervista con Adrian Wojnarowski, celebre Insider e firma di ESPN

Settimo appuntamento con “Inside the NBA”. Sette come le curiosità già sviscerate su Victor Oladipo, ospite del Woj Pod. Abbiamo selezionato per voi i contenuti migliori della chiacchierata.

  • Di solito Woj ha un notebook con tutti gli aneddoti più interessanti e fil rouge dell’intervista, ma la carriera di Victor l’ha seguita sin dagli esordi. Stavolta, dunque, si va “a braccio”.
  • Aneddoto #1: Oladipo era pronto all’anno da freshman a Indiana. Woj all’epoca portava il figlio Ben al basket camp di Tom Crean, capo-programma e conoscente di lunga data. Una sera quest’ultimo chiese a Victor di guidare Woj e il ragazzo in un tour all’interno della facility di allenamento. «In quell’occasione giocasti a H-O-R-S-E con lui – ricorda Woj con orgoglio – , salvo poi puntualizzare che «lui era piccolo, ricordo che lo lasciasti tirare un mattone per poi chiudere i giochi con un tiro in sospensione dalla media».
  • Oladipo ripercorre le fasi di reclutamento una volta uscito da DeMatha High School con una punta di amarezza: «Tornando a pensarci é stata dura. Non ho mai capito davvero perché le Georgetown, le Maryland [di questo mondo],  le scuole della Big East e ACC non mi abbiano davvero cercato».
  • Indiana University, unico ateneo di un certo livello a essersi messo davvero sulle sue tracce, avrà per questo un posto speciale nel suo cuore: «Coach Crean venne a vedermi una volta e dopo poco mi fece un’offerta. […] Erano in rebuilding, come lo chiamereste voi, ma lui credette in me e mi diede la possibilità di giocare. Era l’unica cosa che mi interessava fare».
  • Pur avendo giocato a DeMatha HS, uno dei programmi d’élite di sempre a livello nazionale, è passato stranamente sotto silenzio. Oladipo rivive il tutto con estrema lucidità: «Forse io ero un buon complemento per ottimi giocatori. Venendo da DeMatha, ero circondato da grandi giocatori che— onestamente— all’epoca avevano un talento superiore al mio. Sapevano giocare meglio. Sì, io ero energico, atletico, potevo correre, saltare, difendere, ma questo era quanto. Giocai da ‘4’ in quel contesto. Ero undersized per il ruolo e non ho giocato da titolare sino all’anno da senior. Gli allenatori di college mi consideravano un 4 di 190cm e non poteva funzionare a quel livello».
  • Torna d’attualità la figura di Tom Crean: «Seppi che mi aveva scelto per bocca di Mike Jones [allenatore a De Matha, ndr]. Non so cosa [avesse visto in me], dovresti chiederglielo personalmente».
  • Oladipo ripensa a quella partita sotto i riflettori: «Vero, in realtà segnai un paio di jumpers, giocai semplicemente duro. Per qualche ragione lui vide qualcosa che sfuggì a tutti gli altri e tutto andò per il meglio. Sono semplicemente grato a lui per aver notato qualsiasi cosa [l’abbia colpito]».
  • Woj cita il talento dei Pacers tra i “fiori sbocciati tardi” e gli chiede: «La consideri una fortuna»?
  • Piccolo intermezzo di Woj: «LeBron —asserisce il giornalista— è stato il migliore dall’età di 14/15 anni, e ciò rende il suo percorso e i suoi traguardi rimarchevoli perché deve esserci qualcosa in te [per mantenere quella fame]».
  • Tornando all’interrogativo di cui sopra, Oladipo mostra il proprio lato fatalista: «Sento che se la mia vita si è sviluppata così c’è una ragione».
  • Segue una breve rassegna di quanto accaduto fino a oggi: «Mentre crescevo, mio padre non era un grande tifoso di basket, non era così coinvolto ed era [tutta una questione] di automotivazione. Volevo giocare e imparare in continuazione  e sentivo che più il tempo passava, passava, passava e passava e la gente mi diceva che non ero abbastanza bravo. E ogni volta io continuavo a lavorare più duro e più duro ancora. Poi andai al liceo, dopo al college. E sbocciai tardi anche lì. A quel punto, arrivare nella NBA significò dirsi ‘Ok, forse ora la gente pensa che io sia bravo abbastanza’. Poi vieni scambiato due volte in tre/quattro anni. E ti sembra di essere tornato al punto di partenza».
  • «Non c’è niente di paragonabile alla sensazione che provi quando la gente crede in te e investe su di te».
  • Chiuso il secondo anno a Indiana University [First Team All-American, Big Ten Player of The Year, squadra #1 nella nazione, ndr] Oladipo si dichiarò eleggibile per il Draft NBA. Su richiesta di Tom Crean, Woj diede a Dipo alcuni consigli su come affrontare il variegato e mutevole universo NBA: «Ti dico solo —rispose a suo tempo Woj— che tra il tuo anno da freshman e questo ero fuori da IU e chiesi ad addetti ai lavori cosa pensassero di te e delle tue prospettive in vista di giugno: ‘Forse inizio secondo giro, in fondo al primo’, dissero. Ti rividi di lì a qualche mese da 2ª scelta assoluta ed esclamai: “Qualsiasi cosa tu abbia fatto da un anno a questa parte, falla ancora”». Suggerimento vincente.
  • Victor descrive i primi anni a Orlando come «davvero duri». L’ambiente non era certo dei migliori: «Tanti giovani cercavano di mettersi alla prova, dimostrando di essere QUEL giocatore . È stata dura. Era come sentirsi in battaglia  tra noi mentre giocavamo, invece di lavorare assieme per cercare di vincere [partite]. È stata dura, ma ho imparato tanto, a giocare con ragazzi giovani, [a conoscere] il business della NBA».
  • “In fin dei conti —prosegue— non puoi sentirti troppo comodo o soddisfatto della situazione in cui ti trovi. Così come ti viene concessa, [l’opportunità] può esserti sottratta alla stessa velocità. Quei due anni a Orlando sono stati una grande esperienza di apprendimento, ovviamente è stato divertente anche per me.
  • «Poi, dopo un anno a Oklahoma [City], è stato nuovamente il momento di cambiare. Esperienza difficile:  svegliarsi in un giorno qualunque, essere su un aereo, andare dovunque [tu debba andare a finire] e poi, quando atterri, [vedere] il tuo telefono [pieno di menzioni alla trade], così, senza preavviso. […] In entrambe le occasioni è stato difficile accettare la situazione, in egual misura. Ho imparato molto dai vari contesti e ciò mi ha plasmato e preparato a essere dove sono oggi».
  • Cinque allenatori in altrettante stagioni in NBA: «Significa 5 visioni diverse, 5 stili e schemi differenti, 5 modi diversi di allenare, devi imparare un sistema tutto nuovo per cinque anni, 5 volte. Uno di loro potrebbe riporre piena fiducia in te, poi se ne va e chi viene dopo potrebbe non pensarla come te, non ritenerti al livello che credi di aver raggiunto. Adattarsi è la chiave. Ho imparato ad affrontare alti e bassi. Grazie al mio pregresso sono pronto a ogni situazione: mi fa apprezzare di più ciò che sto vivendo ora e aumenta la mia “fame” sportiva».
  • «Non c’è niente che ti possa preparare ad affrontare una sessione di allenamento con Russell Westbrook». 
  • Un aneddoto a riguardo? «Dovrei davvero pensarci— temporeggia Victor. Cita la prima volta in palestra assieme, come fosse ieri: «Vado, credo di essere in anticipo, in orario e… lui sta già tirando. Io entro e lui, con il tono di voce più alto possibile, mi fa: ‘No, sei in ritardo’. Guardo l’ora e ribatto». Nulla da fare.

Dev’essere andata più o meno così.

  • Il segreto del successo del #0? Il lavoro costante: «È senza dubbio un futuro Hall of Famer».
  • OKC, anno I post- Durant: «Si è sentito un po’ il cambio. Kevin ha significato tanto per quell’organizzazione e quella città. Ha avuto un grande impatto ed è rimasto lì per 9/10 anni della sua carriera. È andato via come tutti sanno e al suo ritorno a OKC per giocare contro di noi,  potevi percepire dall’ambiente  quanto la cosa li avesse feriti.
  • «Penso che ciò che è successo abbia reso Russell un giocatore migliore. Ha avuto ovviamente un anno incredibile subito dopo la sua partenza, probabilmente una delle migliori stagioni singole di una carriera nella storia NBA. e Kevin sta facendo bene a Golden State. Ci sarà sempre qualcosa di fondo, ma credo che entrambe le parti siano andate avanti oltre. La ferita potrebbe essere ancora un po’ fresca».
  • Cresciuto nel Maryland guardando a KD [the guy, ndr], ha instaurato con lui un rapporto particolare: «È diventato come un fratello maggiore per me. La sua famiglia è come se fosse la mia famiglia. È stato piuttosto bello poter contare su uno come lui».
  • Non si è intromesso nella “Decision” del #35 di unirsi a Golden State: «Gli dissi sostanzialmente che giocare al suo fianco sarebbe stato un onore per me, ma lui scelse il meglio per sé, la sua famiglia, la sua carriera».
  • Non si sentirebbe un potenziale All-Star senza l’anno di passaggio a OKC [Not a chance, risponde categorico].
  • «Sento che il mio corso per arrivare a questo punto è stato strategico in un certo senso. Ogni anno che ho passato aveva una ragione di fondo e ho imparato sempre qualcosa. Quell’anno a OKC […] sono diventato un miglior tiratore, ho visto giocare una pallacanestro vincente. […] Le mie abitudini sono migliorate, sono diventante vincenti e ho assistito alla miglior stagione singola di sempre da parte di un giocatore. […] No distrazioni dentro e fuori dal campo. [Westbrook] era semplicemente sul parquet, non si interessava al resto. Questa è la mia mentalità, io vado».
  • La svolta è arrivata in estate: “Ho capito di dover curare aspetto fisico e mentale con la stessa attenzione che riservavo al mio gioco. […] Lo dico onestamente: ciò ha salvato la mia carriera perché ho realizzato che sì, il gioco è al 20% fisico, ma per 80% è una questione mentale. Ho ancora molto margine di miglioramento e crescita —prosegue— e il mio focus è sull’essere IL migliore».
  • Il biennio a Orlando, pure complicato, gli ha insegnato molte cose: “Ho imparato a gestire molti aspetti [collaterali]: critiche social, pressione e attese su tutti”.
  • L’obiettivo primario dei genitori era mandarlo al college e offrirgli la possibilità della laurea per avere una carriera professionale: «Non c’era alcun accenno all’aspetto atletico, sportivo. I miei genitori sono entrambi immigrati dalla Nigeria […] Hanno instillato in me l’importanza del sacrificio e del lavoro. Sono venuti qui in America senza niente per le mani. Mio padre doveva fare 3/4 lavori. La mia passione per il gioco è genuina».
  • Abbassa la voce e sospira raccontando le vicissitudini di Kendra, una delle sorelle. La ragazza perse progressivamente l’udito in seconda elementare: “In un batter d’occhio tutto sembrava svanito […]. La vicenda l’ha toccato da vicino aiutandolo a mettere le gli alti e bassi a livello sportivo nella giusta prospettiva: «Penso a lei e a come ha stravolto la sua vita […]. L’ho sempre vista sorridere. Ora studia per diventare regista: «È un miracolo vivente».
  • Il ritorno a Indiana al “piano di sopra”: «È pazzesco a pensarci […] la tifoseria mi ha sempre accolto, come se non fossi mai andato via. Anche da avversario, in trasferta a Indy, c’era sempre qualcuno che urlava il mio nome. Guarda a volte il destino…»
  • La relazione con il già più volte citato coach Crean è molto stretta: «È come un padre per me, c’è sempre. Sarà sempre il mio coach, diglielo».
  • Woj si congeda con un augurio: “Forse ci vedremo a L.A. per l’All-Star Game”.
  • Woj, togli il “forse”.

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