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Houston Rockets

Daryl Morey, Chris Paul e la finestra di Houston

Dopo un’altra eliminazione dai playoff per mano di Golden State, Daryl Morey e gli Houston Rockets devono farsi più di qualche domanda.

Devo ammetterlo, il mio unico pensiero è battere Golden State. E’ ciò a cui penso quando mi sveglio la mattina, è ciò che provo a raggiungere con il mio lavoro durante il giorno, è ciò a cui penso la sera prima di addormentarmi.

Queste parole sono state pronunciate poco più di un anno fa da Daryl Morey, General Manager degli Houston Rockets e ideatore della cosiddetta Moreyball, termine ripreso dal film “Moneyball” con protagonisti Brad Pitt e Jonah Hill che racconta di un nuovo tipo di approccio all’analisi e pianificazione sportiva, in quel caso applicato al baseball, basato più di ogni altra cosa su analytics ed efficienza. Approccio largamente incorporato dagli Houston Rockets, che dell’efficienza hanno fatto il proprio mantra nella rincorsa ai giganti della Baia.

E’ passato, come detto, poco più di un anno, e dopo essere andati a un infortunio di Chris Paul e uno 0/27 da 3 all’interno di Gara 7 da eliminarli nelle finali di conference 2018, gli Houston Rockets si trovano a dover nuovamente affrontare l’eliminazione dai Playoff per mano dei Golden State Warriors.
La serie è stata diversa da quella dell’anno scorso, fino alla sesta e decisiva partita nessuna delle due squadre aveva ancora vinto fuori casa, e mentre lo scorso anno a 2 quarti dalla fine della serie tutto era ancora in equilibrio, nella rivincita del 2019 c’è probabilmente stato un turning point ben preciso, di cui avevo scritto pochi giorni fa.

Nel momento in cui il miglior Kevin Durant della carriera subisce un infortunio ed è costretto ad abbandonare il campo (e poi il resto della serie), non capitalizzare e soccombere di fronte alle eruzioni di uno Steph Curry fino a quel momento non particolarmente positivo nei playoff ha lasciato una traccia forse indelebile nella testa degli Houston Rockets; in gara 6 Harden e compagni sono sembrati più volte in procinto di poter prendere il largo e portare a casa la partita, guadagnandosi di nuovo Gara 7. Così non è stato, un tempo a testa degli Splash Brothers, prima Klay e poi Steph con collaborazione dei sontuosi Green e Iguodala, ha di nuovo spento ogni sogno dei texani, che adesso si trovano davanti a più di qualche punto interrogativo per l’estate in arrivo.

Quello che più rischia di togliere il sonno a Daryl Morey, anche più della continua ossessione di battere Golden State, potrebbe però rivelarsi un altro.

Lo scorso Luglio Chris Paul ha firmato un nuovo contratto con gli Houston Rockets, un contratto che è partito quest’anno e andrà a salire fino alla stagione 2021/22, quando la point guard percepirà 44 milioni di dollari a 37 anni. Quattro anni, 160 milioni totali circa.

Nessuno ha mai messo in dubbio le capacità di CP3.

Uno dei pochissimi playmaker nel vero senso della parola ancora presenti in NBA, una guardia di una completezza tecnica a tratti disarmante e che è riuscita a trarre vantaggio anche da una caratteristica sulla carta negativa come non raggiungere il metro e ottantacinque di altezza. Una volta ritirato, The PointGod sarà ricordato tra i migliori interpreti del ruolo che abbiano mai calcato un parquet NBA, ha un posto già prenotato nella Hall Of Fame e in questo momento occupa il settimo posto nella classifica dei giocatori con più assist nella storia della lega.

Mai come in questa stagione, però, abbiamo visto un Chris Paul in tremenda difficoltà dal punto di vista fisico.

In regular season le partite saltate dall’ex giocatore dei Clippers sono state 24, le stesse della stagione 2017/18; durante questi playoff, però, in certi momenti delle due serie contro Utah e Golden State Paul è sembrato rallentato rispetto anche solo alla scorsa stagione, meno aggressivo sia in 1 vs 1 nell’attaccare gli avversari che arrivando al ferro. Non abbiamo praticamente più visto quella che era diventata una sorta di signature move del #3, capace di arrivare in area contro avversari decisamente più grossi e rimbalzare loro addosso, riuscendo comunque a concludere verso il canestro e tendenzialmente portando via (almeno) due punti.

Il tiro – fino a questo momento – più importante della carriera di Paul, una conclusione del tipo appena descritto che servì per vincere questa gara 7 contro gli Spurs, nel 2015.

Era un CP3 profondamente diverso rispetto a quello che conosciamo ora, giocatore franchigia e superstar piuttosto che secondo violino di un (potenziale) due volte MVP. Era un giocatore profondamente spinto dal desiderio di vittoria, ma su cui ancora non aleggiava il peso di chiudere la carriera senza un singolo anello di campione NBA.

La situazione per Houston adesso non è ancora disperata.

James Harden è nel pieno del proprio prime, e a 30 anni ha ancora tutto il tempo per inseguire il titolo e restare il giocatore franchigia della squadra ancora a lungo.
Quel che sembra appurato, però, è che ai Rockets manchi qualcosa per arrivare davvero fino in fondo, che l’ultimo ostacolo si chiami Golden State o no; come migliorare però uno squadra che già in questa situazione ha l’ottavo monte ingaggi più alto della lega e nessun free agent che liberi spazio in estate a eccezione di Danuel House (che per rifirmare tenderà a chiedere più dei $248.000 garantiti quest’anno)?

Quando un roster raggiunge il proprio limite la dirigenza rischia di farsi fuorviare nel processo per arrivare al titolo, lasciando l’inerzia alla fretta e cercando di fare qualche grande mossa per poter elevare il livello della squadra. Se Harden però resta ovviamente il pezzo su cui tutta Houston si basa, per diversi motivi neanche lo stesso Paul può essere preso in considerazione per un eventuale cambio di rotta: abbiamo sottolineato come si parli senza dubbio di uno dei giocatori più importanti della storia della lega, ma chi sarebbe disposto ad accollarsinaltri 3 anni a circa 40 milioni di media per una point guard in netta ascesa fisica e che non sembra poter più impattare il gioco come faceva anche solo 12 mesi fa?

Clint Capela è stato un altro enorme punto interrogativo per Mike D’Antoni durante la serie contro Golden State, il centro svizzero non è mai riuscito a impattare il gioco in nessuna delle due metà campo, e dati alla mano in diverse occasioni la sua presenza sul parquet è stata un punto debole per la squadra texana.

Anche Capela però ha rinnovato lo scorso anno, firmando un contratto da 90 milioni in 5 anni per la verità vantaggioso sulla carta, almeno in quel momento dopo la grande breakout season disputata dal centro svizzero, ancora solo 24enne, lo scorso anno. E’ improbabile quindi, che nonostante i problemi incontrati in questi playoff, Morey decida di usarlo come pedina di scambio per provare ad arrivare a pezzi più pregiati.

Torniamo quindi alla questione principale, ossia che forse i Rockets avrebbero bisogno di un ulteriore miglioramento del roster per provare ad arrivare alle Finals e vincere il primo titolo della squadra dal 1995, ma che il principale motivo per cui non possono farlo si chiami Chris Paul, e che lo stesso Chris Paul, e il suo fisico in particolare, siano il principale ostacolo per la conquista del primo anello della sua carriera.

La soluzione che Houston adotterà, indizi attuali alla mano, sarà cercare di fare qualche altro accorgimento al roster e presentarsi ai blocchi di partenza del 2019/20 volenterosa di fare un nuovo tentativo.
Anche se gli Warriors non dovessero più essere quelli che conosciamo ora (leggi “Kevin Durant, free agency”), però, Houston potrebbe comunque non trovarsi da favorita, né della sola Western Conference né tantomeno dell’intera lega.

E il roster con cui si presenterà ai blocchi di partenza, con ogni probabilità, avrà ancora per forza di cose in Chris Paul il secondo giocatore più importante. Una guardia che nel 2020 compirà 35 anni, sempre meno in grado di impattare il gioco e con un contratto non scambiabile.
Quando hanno raggiunto l’accordo per il suddetto contratto la scorsa estate, Morey e Paul erano convinti di aver fatto l’uno il bene dell’altro: il GM era riuscito a trattenere la sua nuova stella dopo aver scambiato letteralmente metà del roster per ottenerla, e l’ex Clippers aveva ottenuto l’ultimo grande contratto della carriera in una squadra che poteva offrirgli la miglior occasione mai avuta per provare ad infilarsi quel benedetto anello.

Gridare al fuoco prima ancora che arrivano le scintille rischia sempre di essere deleterio, anche in una lega in continua evoluzione come la NBA ma che in alcune occasioni ha dato prova di premiare la continuità e offrire nuove possibilità anche a squadre che sembravano arrivate alla fine di un ciclo (vedi Portland, quest’anno).
Il paragone con Damian Lillard e i Trail Blazers, però, può reggere fino a un certo punto: nonostante un monte ingaggi più alto anche di quello di Houston, Portland non è mai stata una vera e propria contender, e l’obiettivo principale era addirittura diventato superare anche solo il primo turno dei playoff, specie dopo la terribile uscita per 4-0 lo scorso anno contro i New Orleans Pelicans.
Houston può affidarsi alla strada della continuità e cercare un nuovo assalto alle Finals il prossimo anno, ma oltre alle contendenti già affrontate in questa stagione rischia di trovare, nella Western Conference, le due squadre di LA in netta crescita, dopo l’estate da protagoniste che le aspetta.
Se la tattica sarà quella di provare a vincere con questo gruppo, e le cose andranno male come ancora non sembra probabile, ma qualche indizio può suggerire, essere andato fino in fondo con Chris Paul potrebbe portare Daryl Morey a sprecare i migliori anni della carriera di James Harden.

Quanto fatto la scorsa estate, al momento della firma del contratto, rischia di segnare in modo indelebile la legacy di tutti e tre.

 

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