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Primo Piano

Un anno di NBA

Diamo l’addio al 2017 rivivendo i migliori momenti dell’anno NBA. Dal dominio degli Warriors, a Westbrookzilla; passando per LeBron, Isaiah, generazioni di nuovi fenomeni e anche addii strappa-lacrime. E Buon Anno a tutti quanti!

Uno dei più bei regali che il 2017 ha fatto alla NBA è stato quello di veder tornare i Boston Celtics ai vertici della competizione. Dopo una passata (buonissima) stagione, l’all-in estivo in sede di mercato sembra aver funzionato e adesso Beantown è di nuovo una Conteder. Certo, avere un genio come allenatore aiuta parecchio, ma come sempre i meriti vanno divisi in più per persone.

The Green Light ― di Marco Munno

Quando il GM Danny Ainge nel 2013 annunciò che la rinascita dei Celtics non sarebbe passata dal tanking in molti non gli diedero credito, visti i saluti in serie di Ray Allen, Kevin Garnett e Paul Pierce e la conseguente fine di un’era. Ma Ainge ha smentito tutti, riportando Boston ai piani alti della NBA in tempi brevissimi. Complice l’ingaggio di Brad Stevens l’escalation è stata rapidissima: dalla mancata qualificazione ai playoff del 2013-1014, al raggiungimento prima in extremis della post season col settimo seed nel 2014/2015, quindi il quinto posto nella Eastern Conference nel 2015/2016 e infine, nella scorsa stagione, primo posto ad Est nella regular season con raggiungimento della finale di Conference e addirittura una partita strappata ai Cavaliers di King James. In sostanza in ogni stagione i Celtics hanno raggiunto il livello successivo. Il tutto, senza stelle conclamate che occupassero il cap space, ma con un parallelo accumulo di asset da ottimizzare nel momento giusto. Marcus Smart, Terry Rozier, Jae Crowder, Jonas Jerebko, Aron Baynes: ragazzi dalle basse aspettative in sede di draft (i primi due) oppure dal posto nella lega quali semplici specialisti, finché non siano passati sotto le cure di coach Brad che ne ha innalzato tantissimo valore e rendimento. Massima espressione tuttavia di questa filosofia abbracciata dai Celtics resta Isaiah Thomas, il piccolo grande uomo trasformato da scorer da panchina a All Star NBA.

Il 2017 sinora è stato l’anno solare in cui a Boston hanno finalmente intravisto i massimi traguardi e l’auspicata fine del percorso di crescita, Nonostante la sconfitta netta nella serie con Cleveland, i tempi erano ormai diventati maturi e Ainge ha deciso di andare è andare all-in durante l’estate. In free agency i Celtics hanno portato a casa Gordon Hayward, mentre al draft – dopo l’ormai noto trade down con Philadelphia – Boston ha scelto Tatum, e col senno di poi non una brutta presa. Per poter assicurare lo spazio salariale appropriato si sono resi necessari alcuni sacrifici, tradotti nelle partenze di Avery Bradley (in scadenza nell’estate 2018, scambiato con Detroit in cambio di Marcus Morris) e Olynyk (free agent poi accasatosi a Miami). Ma Ainge non si è fermato qui: l’estate 2018 avrebbe significato free agency anche per Thomas, con conseguenti scelte economiche difficili. I Celtics hanno preso la palla a balzo quando Kyrie Irving ha dichiarato di voler lasciare i Cavs per poter splendere di luce propria, piazzando il colpo. Risultato: Thomas, Crowder e Zizic (oltre alla scelta del 2018 dei Brooklyn Nets) alla corte del Re e Mr Tiro Decisivo Delle Finals 2016 alla corte di Brad Stevens.

Ma il destino si sa, è un’amante difficile. Pronti via e la caviglia di Hayward fa crack dopo nemmeno 5 minuti della prima partita, un terribile infortunio che lo terrà fuori tutta la stagione. Non certo un bel segnale viste le incertezze affiorate sulla vera convenienza delle mosse effettuate nell’off-season, ma anche stavolta i dubbi vengono spazzati via subito. I Celtics inanellano sedici vittorie consecutive e si ri-affermano quale prima forza ad Est. Tatum e Brown si rivelano da subito giovani dal futuro strabiliante, riempiendo al meglio i vuoti lasciati da Hayward, Horford continua a fungere da collante con il suo gioco a tutto tondo, Rozier e Smart si dimostrano sempre meno segrete come armi “underrated” a disposizione del coach, mentre Kyrie Irving si esprime a livelli da MVP.

Sospinti da una difesa asfissiante, la migliore della lega, quale marchio di fabbrica, i Celtics continuano a vincere, anche attraverso svariate rimonte portate a segno in situazioni anche di estremo svantaggio di uomini oppure di punteggio, dimostrandosi una Contender fatta e finita. Boston ha già ottenuto vittorie illustri, come contro Golden State, San Antonio, OKC e Houston, dimostrando un Pride più fiero che mai e sembra attrezzata per potersela quantomeno giocare già da quest’anno con la corazzata Cleveland, al netto dell’infortunio del loro secondo/terzo miglior giocatore (Hayward). Che il 2018 si dimostri ancor più luminoso del radioso 2017?

Isaiah Thomas ha contribuito forse più di tutti gli altri nel rimettere i Celtics nel gotha della NBA. Riviviamo allora i suoi straordinari playoff, all’interno della sua straordinaria scorsa stagione. 

 

Pick Me Last Again ― di Paolo Stradaioli 

Isaiah Thomas. Un giocatore talmente indecifrabile di cui non ci ha capito niente nessuno, da chi lo ha passato fino alla sessantesima scelta al draft, ai GM di Kings e Suns troppo impegnati a rifondare per prestare attenzione al piccoletto (Little Guy uno dei suoi soprannomi), fino a Danny Ainge che prima se lo porta a Boston e poi lo sacrifica sull’altare di Kyrie Irving. La trade ha un suo senso, il prodotto di Duke sta giocando una stagione fenomenale, ma dopo il 2017 disputato da Isaiah Thomas era chiaro anche per un neofita dell’NBA che il ragazzo era nato per essere un Celtic.

La stagione di Thomas con il trifoglio drappeggiato addosso è esemplare: terzo per punti a partita nella lega, quarto per punti nel quarto quarto (King of the Fourth un altro soprannome), secondo quintetto All-NBA, seed #1 per i Celtics, un rendimento che per una sessantesima scelta non è concepibile. Non arriva al metro e ottanta, non è un tiratore mortifero. Come fa? Lo si capisce alla prima partita dei playoff contro i Bulls.

Credits to wbur.org

Il giorno prima della palla a due lo raggiunge una telefonata. Gli comunicano che sua sorella Chyna è rimasta vittima di un incidente stradale. Morta sul colpo. Il ragazzo di Tacoma il giorno successivo indossa la divisa da gioco, si allaccia gli scarpini con dedica alla sorella, e scrive 33 a referto. Gioca anche Gara-2, poi vola dai parenti ma si ripresenta a Chicago per Gara-3. “Tutta la mia vita è stato un continuo andare avanti e tenere duro”. Una delle tante frasi che regala al pubblica poi nel suo “libro” per The Player’s Tribune.

Quello che fa contro Washington al secondo turno è, se possibile, ancora più disruptivo per chi guarda. In Gara-1 spara un trentello abbondante, in Gara-2 si ferma ad un centimetro dal record di Havlicek per punti segnati da un Celtic in una gara di playoff. 54 a 53. Gioca al gatto con il topo per tutta la partita, sfrontato come chi si è lasciato tutto alle spalle e non ha niente da perdere. Quel giorno sarebbe stato il compleanno di Chyna. Tutto questo dopo aver subito non una ma due operazioni alla bocca per colpa di una botta subita in uno scontro che gli ha fatto saltare due denti.

I Cavs di King James sono un ostacolo troppo alto per i Celtics e, soprattutto dopo che Thomas, vittima di un riacutizzarsi del problema all’anca che tutt’ora lo tiene lontano dal parquet, è costretto ad abbandonare la contesa dopo le prime due gare. I Cavs neanche faticano ma a Boston si respira la sensazione che si stia costruendo qualcosa di importante, destinato a durare. Lo sport professionistico però può essere emozione per chi guarda ma è un gigantesco business per chi lavora all’interno. Lo sa Isaiah Thomas, lo sa Danny Ainge, ma quando arriva la notizia fa comunque un rumore particolare. Non quello della grande bomba di mercato ma quello della grande bomba che esplode, si porta via ogni cosa, e lascia il diretto interessato a guardare nel vuoto senza avere parole nel vocabolario per esprimere un sentimento che nemmeno chi scrive saprebbe descrivere.

Isaiah Thomas andrà ai Cleveland Cavaliers, parte di uno scambio per portare Irving in Massachusetts. Il velo di maya si squarcia davanti agli occhi del ragazzo, convinto di aver trovato il suo angolo di mondo e catapultato in un universo che, volente o nolente, non si preoccupa del fatto che i figli stanno per iniziare la scuola, che la città si identifica con quel giocatore, che Thomas era diventato un’estensione stessa della città di Boston. Più avanti il ragazzo di Tacoma dirà che potrebbe non perdonare mai Ainge e il suo 2017 finisce più o meno così, con l’idea che Boston rimane e rimarrà sempre un posto per il quale vale la pena dilaniarsi l’anima. Provate voi a dire che adesso gioca nella miglior squadra ad Est, provate voi a considerarlo uno uguale agli altri. Non è cosa, e la Nike ha centrato perfettamente quello che Isaiah esprime ogni volta che calca un parquet NBA.

Credits to Twitter.com

Una squadra ad aver dovuto fare i conti con la post-season di Thomas come detto è stata Chicago. La redazione di NbaReligion si è stretta in cordoglio e dopo avervi fatto versare lacrime amare su quello che poteva essere/è stato Derrick Rose, ha deciso di premiare i Bulls anche con la coccarda di squadra peggiore del 2017. I motivi sono abbastanza noti…

 

Vento di rebuilding: ricostruire Windy City ― di Francesco Mecucci

Non basta aver spaventato un pochino i Boston Celtics nel primo turno degli scorsi playoff o l’aver inanellato alcune vittorie consecutive a dicembre: i Chicago Bulls restano comunque la squadra-delusione del 2017. Non tanto per i risultati sul campo, perché fin dall’inizio già si sapeva che non sarebbero stati entusiasmanti, quanto per la disfunzionalità di una franchigia che soltanto ora, per forza di cose, sembra aver imboccato la strada della definitiva ricostruzione a due anni di distanza dalla fine dell’era Thibodeau.

La turbolenta stagione 2016-17, caratterizzata da profondi malcontenti e problemi di spogliatoio si era conclusa in maniera insperata: grazie a uno sprint di 7 vittorie nelle ultime 9 partite di regular season i Bulls di coach Fred Hoiberg si guadagnano l’ottava posizione (41-41 il record, pari merito con Miami che però resta fuori) nella non irresistibile Eastern Conference, con la conseguente partecipazione ai playoff. La serie contro la prima seed Boston va 0-2 in direzione Chicago, ma si tratta di un fuoco di paglia: i Celtics ci mettono poco a ritrovare fiducia e vince con margini di sicurezza le successive quattro partite, tre delle quali sul parquet dello United Center. Emblematici i boooh di disapprovazione del pur affezionato pubblico dei Bulls al termine del disarmante 83-105 con cui i verdi di coach Stevens eliminano Butler e compagni in Gara-6.

Dopo una stagione così burrascosa, l’estate ha portato all’inevitabile smantellamento del trio Butler-Wade-Rondo, quello che doveva ravvivare le velleità di successo nella Windy City e che invece si è rivelato in assoluto uno dei peggiori tentativi di costruire un nucleo di Big Three, mai così mal assortiti e finiti presto in rapporti conflittuali (ricordate i My vets di Rondo?). Per contro, la sempre più contestata coppia manageriale composta da Gar Forman e John Paxson, una volta liquidati quei tre, decide di prolungare la fiducia a coach Hoiberg dandogli forse per la prima volta la possibilità di costruire una squadra più adatta alla sua filosofia gioco impostata sul Pace & Space.

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Circolazione di palla e tripla a segno di Denzel Valentine.

Il picco più basso in senso di approvazione i Bulls l’hanno toccato la notte del Draft, quella che ha visto concludersi la trade per Butler, spedito in Minnesota dal suo mentore Thibodeau in cambio del pacchetto contenente l’acerbo Dunn, l’infortunato LaVine e la settima scelta al draft, poi convertita in Lauri Markkanen, finora la nota più lieta della stagione 2017-18. I pronostici sono impietosi per i Bulls e il clima continua a essere vulcanico con la scazzottata alla vigilia del primo giorno di scuola tra Nikola Mirotic e Bobby Portis (frattura al volto per l’uno e otto gare di sospensione per l’altro). Ne consegue un record iniziale di 3-20, con una difesa paurosamente ballerina e un attacco di assoluta imprecisione, fino al “miracolo” dell’8 dicembre, giorno da cui la squadra si mette a giocare come si deve, ritrova Mirotic e Portis, vince 7 gare di seguito (prima di cedere onorevolmente ai Cavs).

All’ombra della Sears Tower non si respira certo aria da playoff, la squadra ha tuttora grossi limiti, ma non è detto che il sano lavoro di Hoiberg e un gruppo che in ogni caso sta esprimendo alcune qualità interessanti, tra l’altro in attesa del rientro di LaVine, non possano, nei prossimi tre mesi, aprire nuovi scenari e concludere qualcosa di positivo.

L’unica certezza è che i Bulls hanno definitivamente archiviato l’era appartenuta a Derrick Rose prima e a Jimmy Butler poi, per ripartire oggi verso lidi ancora imprecisati. E dopo aver perso almeno due stagioni a inseguire una competitività ormai lontana, non ci sono scuse che tengano: nella città che visse l’epopea Jordan, il successo viene misurato soltanto in pezzi di oreficeria infilati alle dita.

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