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Un anno di NBA

Diamo l’addio al 2017 rivivendo i migliori momenti dell’anno NBA. Dal dominio degli Warriors, a Westbrookzilla; passando per LeBron, Isaiah, generazioni di nuovi fenomeni e anche addii strappa-lacrime. E Buon Anno a tutti quanti!

L’Impero Warriors colpisce ancora ― di Alberto Mapelli

Anno Domini 2017: l’anno in cui la ribellione è stata estirpata e l’Impero dei Golden State Warriors ha colpito ancora. L’arrivo di un ex-ribelle ha trasformato quella che sembrava un’armata con pochissimi punti deboli (sfruttabili solo dall’élite della lega) in una Morte Nera invincibile. Anche se tutti i pronostici li davano come vincenti già da inizio anno in pochissimi se li aspettavano al livello tenuto nella scorsa stagione: regular season dominata, playoff praticamente perfetti (16-1) e titolo. Un percorso semi-immacolato negli ultimi tre anni, con la tripletta mancata solo a causa di uno dei tre giocatori più forti di sempre, capace di ribaltare un esito già scritto (sotto 1-3) e impedire ai Dubs di avere tre anelli alle dita. Il dominio mentale imposto da Golden State su una franchigia che solo un anno prima era stata in grado di infliggergli uno smacco storico è stato pressoché totale. Nessun incubo ha tormentato Curry e soci, nessun tweet di J.R.Smith dopo l’unica vittoria nella serie dei Cavaliers è stato in grado di minare le certezze acquisite dai Warriors. Niente di niente. LeBron e i suoi Cavs non sono mai sembrati in grado di giocarsi davvero il titolo, l’anello sembrava già assegnato a quelli della Baia. Tanto da porre nuovamente sul tappeto una questione già sollevata ai tempi del 73-9. Questi Warriors sono la squadra più forte di sempre? Difficile paragonare squadre diverse di epoche diverse, ma ci sono buone probabilità di sì. 

Il responsabile di tutto questo? L’uomo che ha spostato irrimediabilmente gli equilibri risponde al nome di Kevin Durant. Il #35 non solo ha fugato i dubbi riguardo la sua adattabilità al contesto ma è stato anche in grado di modificarlo, insieme a quel genio di Kerr, per elevare ad un livello ancora più alto il proprio gioco e la propria incisività nei momenti clutch della partita. Il suo adattamento non è stato solo a livello tecnico. Anche sul piano narrativo KD ha impiegato qualche mese per assumere una nuova identità e sviluppare un nuovo modo di porsi sul campo e nella lega. Se per se per i primi mesi ha provato a ribellarsi dall’etichetta di traditore, dopo la prima visita alla Chesapeake Energy Arena si è calato appieno nel ruolo di villain, non avendo più remore nell’abbracciare il Lato Oscuro riuscendo a trarne ulteriore forza.

Se Curry e Thompson sono gli Splash Brothers dalla faccia pulita e Draymond si sta specializzando sempre di più nell’essere quel collante poco appariscente ma fondamentale, ora è Kevin Durant ad essere il bersaglio dell’odio dei tifosi delle altre 29 squadre. Il titolo di MVP delle Finals, ottenuto essendo semplicemente immarcabile per tutta la serie e con una Gara-5 da consegnare ai posteri come manifesto del suo basket, gli ha anche concesso di cancellare quella definizione di giocatore a cui piace vincere facile creatagli attorno in estate. I Warriors hanno vinto il secondo titolo in tre anni grazie all’arrivo di Durant; senza di lui sarebbero potuti uscire sconfitti esattamente come l’anno prima nonostante l’ecosistema quasi perfetto della Baia.

Infine con la rinuncia a una bella fetta di stipendio KD ha concesso ai piani alti la possibilità di mantenere intatto il roster della passata stagione (a netto di un sostanziale incremento della luxury tax, che i proprietari pagheranno volentieri si presume), impostando così la nascita di un vero e proprio Impero. Difficile immaginarsi qualcosa di differente per l’anno che verrà: la superiorità che esprimono i Warriors quando concentrati e a ranghi completi è a tratti imbarazzante e trovare una franchigia realisticamente in grado di batterli quattro volte pare impresa impossibile. Il Lato Oscuro sembra avere trionfato, in attesa che all’orizzonte spunti una nuova speranza…

 

Russell Westbrook, distruttore di record ― di Leonardo Flori 

4 Luglio 2016, Oklahoma City. E’ vero, questo pezzo dovrebbe parlare di quello che è stato il 2017 per i nostri protagonisti, ma quella data ha influenzato in maniera eufemisticamente notevole il 2017 di Russell Westbrook.

Negli Stati Uniti è il giorno della festa dell’Indipendenza, tutta la nazione è intenta a mangiare all’aria aperta e sparare nel cielo fuochi d’artificio, e persino una questione colossale come la ‘choice’ di Kevin Durant passa per 24 ore in secondo piano. Verso le 11:45 di mattina americane di quel 4 Luglio, però, viene sganciata la bomba: Durant ha deciso di firmare con i Golden State Warriors, freschi di sconfitta alle Finals contro Cleveland, e che circa un mese prima avevano eliminato dalle WCF in 7 incredibili partite proprio i Thunder di KD35 e Westbrook.

Russ non è solo stato lasciato dall’altra star della squadra (perché amici, forse, non sono mai stati), ma si sente tradito, visto che Durant è andato proprio dai nemici giurati rendendo nello stesso momento Golden State la stra-favorita per il titolo 2017, e i Thunder un lontano ricordo sulla mappa delle contender. Che far dunque nel 2016/17? Le quote per il titolo di MVP vinto da Westbrook crollano, tutti si aspettano una stagione ‘furiosa’ dell’ex UCLA, ma lui decide che non è abbastanza.

Il tiro che ha fatto la storia.

In una squadra che oltre a Durant ha perso anche Serge Ibaka, spedito a Orlando in cambio di Sabonis e Oladipo (che per gli smemorati non erano esattamente quelli che stiamo ammirando adesso ai Pacers), il #0 ha comunque l’obbligo morale di arrivare ai playoff, visti i tanti anni a sfiorare il titolo senza mai toccarlo realmente. Ma c’è bisogno di qualcosa in più, bisogna dimostrare alla lega quali sono state le conseguenza dell’addio. Per farlo, Westbrook sceglie un numero, il 42.

42 come le triple doppie fatte registrare durante la stagione 2016-17, il nuovo storico record che va sostituire le 41 di Oscar Robertson, con 31 punti, 10.7 rimbalzi e 10.4 assist a partita, ventisei occasioni in cui è andato fra i 30 e i 39 punti, quattordici in cui ne ha messi tra i 40 e i 49 e addirittura quattro volte oltre i 50. Dopo una battaglia estenuante con James Harden durata tutta la stagione, il 26 Giugno Westbrook viene inevitabilmente decretato MVP della stagione, e va a centrare uno dei suoi peggio-nascosti obbiettivi da raggiungere in carriera.

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(Credits to foxnews.com)

La verità dei fatti, però, è che Oklahoma City si qualifica ai playoff da sesta nella Western Conference, con 47 vittorie e 35 sconfitte (molte delle quali evitate da gesta irripetibili nel senso più letterale possibile da parte del nostro), al primo turno trova proprio la Houston di Harden e viene eliminata per 4-1 senza nemmeno fare troppo rumore. La consapevolezza di essere in un roster ben lontano dalle primissime delle lega non può non pesare nella testa di un fresco MVP, ancora privo di anello e che ha appena visto l’ex Durant alzare sia il Larry O’Brien Trophy che il premio di miglior giocatore delle Finals. Inoltre c’è il nodo dell’estensione contrattuale, con le voci di un suo futuro ai Lakers sempre più insistenti.

A risolvere la situazione arriva l’altro elemento senza il quale OKC non sarebbe minimamente diversa da Chicago o Sacramento (penso si sia intuito chi è il primo), quel Sam Presti che di mestiere fa il GM dei Thunder e che in estate è riuscito a trasformare Oladipo, Sabonis, Kanter, McDermott e una scelta in Paul George e Carmelo Anthony, mettendo poi sul piatto per Westbrook un rinnovo-record da 205 milioni in 5 anni impossibile da rifiutare. Oklahoma City è tornata prepotentemente sulla mappa delle Contender, parte sicuramente dietro a Warriors, Cavs e Rockets, ma sulla carta ha tutto per poter provare a tornare alla Finals, che hanno visto per l’ultima volta Westbrook e compagni nel lontano 2012.

Come stanno andando le cose con George e Anthony? L’inizio non è stato certo quello che ci si aspettava, viste le 15 sconfitte arrivate nelle prime 31 partite e un’incapacità praticamente fissa di chiudere le partite dopo essere stati a lungo vantaggio. Le cause? Tutti hanno provato a dare la loro spiegazione, dalla cattiva gestione delle energie durante i 48 minuti,  alla presenza di Anthony ritenuta quasi ridondante in una squadra che ha già Westbrook e George (anche noi avevamo provato a risolvere l’enigma ad inizio Dicembre). Poi però come era lecito aspettarsi, il tempo ha giocato il suo ruolo, permettendo ai nuovi Big Three di oliare gli ingranaggi della convivenza e diventare più solidi, sia dal punto di vista del gioco sia da quello mentale nella tenuta delle partite.

OKC potrà realisticamente andare a lottare per il terzo posto della Western Conference (nel momento in cui scrivo si trova quinta, a 4 partite dagli Spurs), e ai playoff, con il valore tecnico del roster, sarà un ostacolo durissimo per chiunque. Anche per la Golden State di Kevin Durant. E Russell Westbrook non vede l’ora di far diventare il proprio 2018 meglio dell’anno che si appresta a finire.

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