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Mercato NBA 2024

Il Pagellone del Mercato NBA 2019: posizioni 30-25

Come si sono mosse le squadre in questa off-season? Ecco il nostro pagellone a partire dalle ultime sei squadre

Mancano ancora pochissimi tasselli per comporre il puzzle della prossima stagione NBA. I giocatori più ambiti sulla piazza dei free agent sono ormai sistemati e, prima di inaugurare una lunga off-season, è tempo di dare i voti all’operato delle trenta franchigie. La redazione di nbareligion.com ha stilato per voi Il Pagelllone del Mercato NBA 2019. Cinque uscite programmate, da sei squadre ciascuna: una scalata che ci porterà a incoronare la regina dell’estate.

La classifica che andremo a svelare di puntata in puntata tiene conto di quanto fatto in sede di Draft e mercato — free agency ed eventuali trade —  per migliorare la situazione di una squadra ai blocchi di partenza della regular season al via in autunno.

Esaurite le istruzioni per l’uso tuffiamoci nel pieno della classifica, partendo dalle peggiori sei franchigie. Chi sono i rimandati a ottobre?

30-29-28

30 • NEW YORK KNICKS Voto: 3,7

di Federico Ameli

Attendi questo momento almeno da fine novembre, quando a stagione già ampiamente compromessa inizi ad alimentare pericolosi sogni di rivalsa. Neanche troppo segretamente, tra l’altro. È scritto: il Draft la free agency estiva metteranno fine ad anni di insuccessi, proiettando la franchigia verso un radioso futuro.
Puoi vantare uno dei record meno lusinghieri della lega e hai la probabilità più alta di accaparrarti la prima chiamata al Draft, ma la buona sorte evidentemente non sa quanto impegno sia servito per portare a casa la bellezza di 65 sconfitte in 82 partite di regular season e ti riserva la terza scelta assoluta, con tanti cari saluti dai Pelicans e Zion Williamson. Poco male, ti consoli con R. J. Barrett. Ma ora basta con i ragazzini, è tempo di pensare ai pesci grossi.
Il tuo obiettivo dichiarato per l’estate risponde al nome di Kevin Durant, ma, chissà perché, alla fine della fiera non riesci a trovare niente di meglio di Julius Randle in giro. Individui in Kyrie Irving l’uomo ideale a cui affidare le chiavi della squadra, ma ti ritrovi con Elfrid Payton in cabina di regia. Il tutto senza considerare che Irving e KD si sono effettivamente trasferiti in città, ma sull’altra sponda dell’Hudson, quella in cui in cui front office e coaching staff  sono il fiore all’occhiello della franchigia.
Date queste premesse, non avremmo potuto non assegnare ai New York Knicks la tutt’altro che ambita palma di peggior squadra di questa free agency 2019.
Non ci sentiamo certo di biasimare Durant e Irving. Ad oggi, la Grande Mela offre prospettive ben più rosee di quelle di una squadra che ormai troppi anni, nonostante un contesto non sportivo senza eguali o quasi nella lega, stenta a risollevarsi dai bassifondi della Eastern Conference. Le due nuove stelle dei Nets, a parità di location, hanno scelto di portare i propri talenti in una delle franchigie meglio organizzate del panorama NBA. Fin qui nulla di strano: il blasone dei Knicks, viste le ‘drammatiche’ condizioni sportive in cui la franchigia versa fin troppi anni a questa parte, non poteva competere con gli argomenti decisamente più convincenti dei Nets ed è dunque difficile rimproverare qualcosa al GM Scott Perry. Un discorso del genere riguarderebbe infatti non solo i Knicks, ma tutte le altre franchigie che hanno tentato, senza successo, di mettere sotto contratto anche solo uno dei nuovi volti di Brooklyn, anche se è impossibile negare come dalla dirigenza dei newyorkesi filtrasse un ottimismo che con il senno di poi si è rivelato decisamente privo di fondamento.
L’errore di New York non è stato quello di non riuscire a firmare due superstar, quanto piuttosto l’aver riempito il cap di contratti sì a breve termine – tutti i nuovi acquisti hanno siglato un biennale, fatta eccezione per Julius Randle, che ha comunque una team option al terzo anno – ma che non costituiscono certo un passo avanti per una franchigia sempre più ai margini della lega.
Certo, a qualcuno bisognava pur darli quei circa 65 milioni di dollari annuali, ma nella scomoda posizione dei Knicks sarebbe stato molto più intelligente rilevare qualche contratto ingombrante da squadre ingolfate dal punto di vista salariale in cambio di scelte future anziché assoldare dei role player che nulla hanno a che vedere con un progetto di rebuilding. I vari Bobby Portis, Wayne Ellington, Elfrid Payton, Marcus MorrisTaj Gibson e Reggie Bullock— per diversi motivi — avrebbero rappresentato pedine ideali per una contender, cosa che ad oggi New York è piuttosto lontana dall’essere. Inoltre, è ancora da chiarire il motivo per cui la dirigenza abbia deliberatamente intasato lo spot di ala grande ingaggiando nel giro di poche ore Randle, Portis e Gibson.
Nel recente passato dei Knicks la grande confusione a livello dirigenziale ha già avuto importanti ripercussioni nell’area sportiva. A differenza di altre squadre storicamente dedite alla sconfitta – Trust The Process vi dice niente? – e nonostante un core molto giovane e con un potenziale tutto da sviluppare, le ultime stagioni hanno infatti già evidenziato le grandi difficoltà da parte di front office e di coaching staff nel valorizzare i talenti della squadra in questo stato di perenne oscillazione tra il “largo ai giovani” e la caccia ai free agent di primo piano, vanificando di fatto le chance di gettare una volta per tutte delle fondamenta solide con un progetto chiaro e solido. A giudicare da quanto visto in quest’ultimo mese, però, pare proprio che i Knicks non abbiano ancora imparato la lezione.

29 • CHARLOTTE HORNETS Voto: 4.3

di Lorenzo Milella

Inutile nascondersi: l’obiettivo principale degli Charlotte Hornets in questa free agency era quello di trattenere a tutti i costi Kemba Walker. Sul giudizio  complessivo attribuito alla dirigenza pesa dunque tremendamente il target mancato.

L’ex UConn ha salutato il North Carolina, preferendo accasarsi ai Boston Celtics per raccogliere l’eredità lasciata da Kyrie Irving. Il giocatore chiamato a diventare la nuova point-guard degli Hornets è stato dunque Terry Rozier, giunto a Charlotte come controparte della sign-and-trade che ha portato Walker a Boston. Scary Terry ha firmato con gli Hornets un contratto da 58 milioni in 3 anni, una cifra che l’ex Celtics non aveva ancora mostrato di valere.

Con la perdita di Walker, Charlotte adesso si può concentrare su una cosa sola per provare a uscire dal limbo in cui si trova da molti anni: tankare,tankare e ancora tankare.

Esclusi Rozier, Miles Bridges —da ri-valutare dopo un primo anno complicato — e P.J. Wahington, il rookie chiamato con la 12esima scelta nel draft 2019, la squadra è composta da giocatori strapagati, non futuribili e poco funzionali. Puntare ad avere il peggior record della lega potrebbe portare a meno del previsto (basta guardare i New York Knicks) e c’è la necessità di liberarsi di contratti pesanti come quelli di Bismack Biyombo, Marvin Williams, Michael Kidd Gilchrist e Nicolas Batum, giocatori che rappresentano una zavorra salariale non indifferente.

La dirigenza ora avrà un altro compito molto difficile: cercare di colmare le lacune del roster con il pochissimo spazio salariale rimasto. Nel ruolo di point-guard, dove il titolare sarà senza dubbio Rozier, il ritiro di Tony Parker e l’inesperienza di Devonte’ Graham porteranno gli Hornets a cercare sul mercato un veterano che possa creare gioco quando Rozier sarà in panchina a rifiatare, e che faccia da mentore a Graham. Charlotte è spesso stata poco efficiente nella scelta di questo tipo di giocatore, andando a offrire contratti molto onerosi a giocatori completamente disfunzionali. Per quanto riguarda la posizione di shooting invece la perdita di Jeremy Lamb pesa tantissimo, ma la poca libertà finanziaria costringe gli Hornets a doversi affidare a Malik Monk e Dwayne Bacon, che ha comunque fatto vedere qualche  sprazzo interessante nella scorsa stagione. Capitolo ali: l’idea è quella di far giocare Bridges da 3 e Washington da 4 ma la convivenza tra i due potrebbe essere più difficile del previsto. Washington sarà sicuramente l’osservato speciale di questa stagione Hornets, perché se da una parte l’ex Kentucky porta grande intensità in difesa (uno degli aspetti più critici per Charlotte) dall’altra rischia di essere tutto da testare nella metà campo offensiva:le sue scarse percentuali ai liberi (66.3), ad esempio, rischiano di fargli vedere le fasi finali delle partite dalla panchina. Viene, dunque, da chiedersi se fosse possibile scegliere di meglio con la 12esima scelta al draft. Washington può ambire a diventare un solido giocatore di rotazione, ma difficilmente riuscirà a trasformarsi in un All- Star. Le valutazioni su di lui, in ogni caso, sono rinviate di almeno un paio di stagioni.

A Charlotte, dunque, sembra tutto pronto per una stagione che si preannuncia la prima di una lunga serie di annate di transizione. Se la franchigia di Jordan avrà davvero intenzione di rinascere, però, non sarà più permessa l’approssimazione mostrata nel corso delle ultime stagioni.

28 • CLEVELAND CAVALIERS Voto: 4,5

di Federico Ameli

Calma fin troppo piatta in Ohio, dove i postumi dell’era LeBron James devono essere ancora smaltiti, quasi come quelli di un sabato sera un po’ sopra le righe. Tanto entusiasmo, un titolo NBA, e poi al mattino ti ritrovi a dover fare i conti con la dura realtà, che nella fattispecie corrisponde a un progetto sportivo pressoché inesistente, a un’identità di squadra da ricostruire da zero e a un salary cap che invoca pietà.
I contratti di Kevin Love, ancora a libro paga pur non avendo palesemente più nulla da spartire con questi Cavs, il quinquennale da $82  milioni di dollari firmato troppi anni fa da Tristan Thompson e le cifre fuori mercato percepite dai vari Henson, Clarkson e Knight hanno di fatto legato le mani al front office di Cleveland, che ha di conseguenza concentrato i propri sforzi quasi esclusivamente sul Draft dello scorso 20 giugno. Quasi, perché a maggio il GM Altman ha annunciato che a guidare la squadra nella prossima stagione sarà John Beilein, che con i suoi 66 anni entra di prepotenza nella classifica degli allenatori più anziani ad essersi mai seduti su una panchina NBA. L’ex West Virginia e Michigan porta con sé quarant’anni di esperienza nel basket collegiale, dove ha collezionato buoni risultati nonostante un’organizzazione e un sistema di reclutamento non esattamente di prima fascia, un fattore che sicuramente tornerà utile nella gestione della sua prima stagione al piano di sopra.
Nonostante la presenza a roster dei veterani di James, Beilein avrà comunque a disposizione un roster piuttosto giovane, potendo contare, tra gli altri, su ben tre innesti dalla Draft class di quest’anno. Pur avendo dalla loro una stagione disastrosa alle spalle, i Cavs si sono dovuti accontentare della quinta chiamata, con cui hanno scelto di dare fiducia a Darius Garland. Tutto ok, se solo non fosse che il prodotto di Vanderbilt somiglia in tutto e per tutto a Collin Sexton, pointguard selezionata solo un anno fa dagli stessi Cavs.
A giudicare da quanto visto finora, nessuno dei due giovani Cavaliers sembra a suo agio nel giocare lontano dal pallone, ma il coach sembra intenzionato a scendere in campo con il doppio playmaker: sarà dunque  interessante vedere quale strategia verrà adottata per far convivere due talenti ancora grezzi, che però costituiscono la pietra angolare del futuro dei Cavs.
Altro appunto, stavolta strettamente legato alla tenuta fisica. Al netto dell’eventuale incompatibilità della coppia in backcourt, chiamare con la quinta scelta un ragazzo che non gioca dallo scorso novembre per un infortunio al ginocchio non può non essere visto come un rischio. Calcolato, ci mancherebbe, ma pur sempre di un rischio si tratta. Lo staff medico dei Cavs ha saggiamente deciso di non rischiare Garland nel corso della Summer League. Resta da vedere se e come l’ex Vanderbilt riuscirà ad adattarsi a questa realtà, non certo la più semplice del mondo, recuperando contestualmente dal lungo infortunio.
Cleveland è tornata protagonista a fine giro con altre due chiamate potenzialmente intriganti. Con la ventiseiesima scelta, Altman ha portato a casa Dylan Windler, ala ex Belmont Bruins, mentre l’ultima chiamata del primo giro, ottenuta dai Bucks in cambio di due seconde scelte, è stata spesa per assicurarsi le prestazioni di Kevin Porter Jr.
Windler è uno specialista del rimbalzo che ha bisogno di ulteriore tonnellaggio per poter dire la sua tra i grandi, ma un giocatore con le sue caratteristiche, per quanto fatto vedere nell’ultima Summer League, potrebbe fare molto comodo a Cleveland nei prossimi anni. Quella di Porter Jr. è invece una scelta sì azzardata, ma che in futuro rischia di pagare dei dividendi interessanti. Il ragazzo è certamente fin troppo estroverso e stravagante, dentro e fuori dal campo, ma i mezzi fisici ci sono tutti e in un contesto sportivo già ampiamente compromesso tanto vale giocarsi il tutto per tutto.
Dopo aver ingaggiato l’undrafted Dean Wade, che almeno per qualche tempo sarà materiale per la G League, pur con un anno di ritardo i Cavs sono riusciti a fare il primo passo verso la ricostruzione. Il taglio di J.R. Smith porterà una ventata d’aria fresca a Cleveland, una città ritrovatasi improvvisamente o quasi nel baratro dopo l’ennesimo addio del figliol prodigo. Si poteva ottenere qualcosa in cambio dell’estroso J.R.? Forse sì, ma per un giocatore rimasto a casa per scelta tecnica nelle ultime 67 uscite stagionali, per di più con un contratto non esattamente futuribile, non era poi così semplice trovare degli asset interessanti sul mercato.
Più che a questa offseason, però, il peccato capitale dei Cavs risale all’anno scorso, quando il front office si è lasciato cogliere impreparato dalla partenza —neanche troppo imprevista  — di LeBron James. Tenere sotto contratto un giocatore ancora appetibile come Love in una squadra costruita per perdere è stata una scelta sconsiderata che a distanza di un anno, con l’ex Timberwolves ancora in Ohio, ha costretto il front office a un immobilismo rivelatosi decisamente deleterio. Il tutto all’alba di una stagione che avrebbe dovuto segnare il punto di svolta verso una ricostruzione illuminata, un processo di rebuilding; progetto di cui, francamente, ad oggi non si vedono che timidissime tracce.

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