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Houston Rockets

L’assurda fine degli Houston Rockets e la parabola della bellezza effimera

A volte è bello elogiare anche gli sconfitti

0/27. Vivere e morire col tiro da tre punti per gli Houston Rockets. Ma VENTISETTE errori consecutivi, oltre ad essere un record negativo, sono davvero difficili da spiegare. Sarebbe facile pensare che la fatica della rotazione ridotta all’osso abbia annebbiato la vista dei tiratori dei Rockets, ma nella metà campo difensiva l’intensità è stata massima fino a quando c’è stata speranza di invertire l’ardua sentenza. “Abbiamo preso i nostri tiri, buoni tiri. Purtroppo non sono andati dentro”. Le parole di Mike D’Antoni come reminder che la spiegazione più semplice è sempre la migliore.

Si è inceppato qualcosa mentalmente, con gli Warriors bravi a riprendersi l’inerzia della partita, ma così tanti errori si spiegano davvero male. Soprattutto su tiri aperti, in ritmo. Da Houston Rockets.

Il video con tutti gli errori da tre della partita dei Rockets, che chiuderanno con un laconico 7/44

Gli Houston Rockets non sono stati in grado di tenere il passo dei clamorosi Warriors nella ripresa, travolgenti come sempre nel terzo quarto (e viene da chiedersi se i discorsi motivazionali di Steve Kerr all’intervallo non abbiano qualcosa di speciale a questo punto) con uno Steph Curry straordinario. Durant è tornato lo scorer illegale e impressiona ogni volta, ma la vera chiave è Steph. Non tanto nei numeri (27-9-10-4 rubate) quanto nella forza gravitazionale che la sua sola presenza in campo esercita su gli altri nove giocatori. Steve Kerr ha rimesso il flusso del suo attacco nelle mani di Curry e gli Warriors sono tornati se stessi, tra triple in transizione, flow e tagli/blocchi lontano dalla palla mortiferi. Il ritorno ad alti livelli di Curry, roba da stropicciarsi gli occhi.

La partita di Steph

Era giusto iniziare da Curry, e mi scuseranno gli altri: dagli intangibles di Green alla durezza mentale di Klay Thompson, dalla vitalità di Bell (+17 di Plus/Minus, il migliore) alla straordinaria resilienza degli Warriors in generale, campioni con la C maiuscola) ma devo inevitabilmente tornare a quello 0/27. Un destino crudele.

È un peccato che sia finita così, con l’onore delle armi. Gli Houston Rockets hanno fatto qualcosa di straordinario quest’anno, giocando una regular season da primi delle classe e ridefinendo i concetti di un basket che continua ad evolversi con la velocità dell’illuminazione. È un peccato per James Harden, per l’ennesime critiche che dovrà subire. È un peccato per Ariza e PJ Tucker, colletti blu fieri e ribaldi che hanno lasciato ogni goccia di sudore sul parquet (0/8 di Ariza ieri notte). È un peccato per Gordon e Capela, presente e futuro della franchigia texana. Pensare ad un futuro senza di loro appare impossibile (anche se le strade di Morey come sempre sono infinite) e il primo tempo di ieri ne è la riprova.

“Servivano dei piccoli break, per intervallare le loro spallate, soprattutto nel terzo quarto. Chris (Paul) era stato bravissimo a farlo nelle precedenti partite, ci e mancato molto”. Già, Chris Paul. Vederlo sbattere la mano sulla panchina dopo l’ennesima, frustrante, tripla senza senso di Curry fa male al cuore. Un giocatore sfortunatissimo, condannato dagli Déi del Basket ad una carriera di rimpianti. Paul ha il cuore di Ettore, ma la fragilità del cristallo. Avrebbe meritato un finale migliore, quanto meno di giocare. I suoi tiri dal mid-range avrebbero fatto comodo (tra le mille altre cose) in una serata così storta al tiro.

Invece Paul è mancato, così come erano mancati altri giocatoti chiave nei momenti chiave delle stagioni di Mike D’Antoni. Per vincere serve una componente di fortuna, e D’Antoni lo è stato proprio poco. Sentirlo parlare in conferenza stampa dopo la partita, dopo la sconfitta probabilmente più bruciante della sua carriera da allenatore, è una cosa che ti rimette in pace col mondo. La sua eleganza, la sua freschezza, di abito e di pensiero, sono sublimi. La lucidità della sua analisi è impeccabile, così come la sua faccia tosta. È chiaro che questa sconfitta lacera il suo animo, ma la sua passione per il gioco è talmente grande che sorride. Ha fiducia. “Ci siamo andati vicini, e lavoreremo per fare di tutto per andarci ancora più vicini l’anno prossimo. Congratulazioni a loro, ma non ho niente da rimproverare ai miei ragazzi”.

Tutta l’intervista post-partita di D’Antoni, per chi volesse rivedersela.

È consapevole, interiormente, che un’occasione così magari non ripassa, ma sa che la direzione è quella giusta. Gli chiedono se alla luce delle 27 triple sbagliate di fila forse sarebbe opportuno riflettere sulla sua filosofia di gioco. “Assolutamente no [ride]. Il Gioco sta andando verso questa direzione, gli Warriors contano sul tiro da tre quanto noi. Abbiamo trovato la giusta formula, quella vincente, dovevamo solo fare qualche canestro in più. Faremo meglio l’anno prossimo”. Ancora la sua fiducia incrollabile. La stessa fiducia di chi, quindici anni fa aveva abbattuto pareti e stereotipi giocando una pallacanestro avanguardista, facendo da ponte per il futuro che oggi chiamiamo presente.

D’Antoni è andato più vicino di chiunque altro ad eliminare gli Warriors, questi Warriors, quelli del Mostro A Quattro All-Star. Lo ha fatto alla sua maniera, ridefinendo concetti, tracciando parabole filosofiche che potrebbero portare a ulteriori evoluzioni all’interno del Gioco. Si è tanto criticato lo stile di gioco dei Rockets delle ultime partite, fatto di isolamenti: una pallacanestro definita vecchia. Niente di più lontano dalla realtà. Gli Houston Rockets hanno giocato così tutta la stagione, facendo letteralmente a pezzi chiunque in regular season e andando ad uno 0/27 di distanza dall’eliminare una delle squadre più forti di sempre; hanno giocato così perché l’intelligenza di D’Antoni ha saputo mettersi a disposizione di due dei migliori giocatori di uno-contro-uno della NBA; hanno giocato così perché in una pallacanestro sempre più basata sui cambi difensivi, dove le posizioni contano sempre meno e la versatilità dei giocatori sempre di più, congelare le rotazioni avversarie sfruttando i miss-match è una soluzione molto più intelligente di quanto si pensi.

Non è bastato. Quello 0/27 ha sciolto l’illusione come ghiaccio sotto il sole. Passano gli Warriors. Meritatamente. E forse alla fine va bene così.

Mi piace pensare che nello sport ci sia una componente di romanticismo atta a corrodere le grandi storie, confinando gli sconfitti a morti tremende per poterne ammirare la bellezza effimera. Mike D’Antoni probabilmente non vincerà mai un titolo, ma forse è già abbastanza così. O quantomeno fa bene all’anima pensarlo, oggi. Viva Mike, Viva la Moreyball, Viva il Basket!

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