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Cleveland Cavaliers

From L.A. (to Cleveland) with Love

Viaggio attraverso la vita di Kevin Love, ex aspirante superstar a Minnesota, che, finalmente, quest’anno è riuscito a calarsi nella sua parte di terzo violino ai Cavs per andare alla caccia del secondo anello consecutivo.

La vita del Beach Boy, al secolo Kevin Wesley Love, può essere guardata come un viaggio, un viaggio fatto di aspettative, sogni e grandi possibilità che però si complica maledettamente sia per errori personali sia per casualità del fato. E’ il viaggio di un predestinato, perché se nasci in una famiglia del genere, se sei 208cm per 114kg, se hai un padre ex giocatore professionista, anche se solo da mezza comparsa, che come secondo nome ti affibbia quello del suo compagno di squadra Wes Unseld, unico giocatore della storia insieme a Chamberlain a vincere l’MVP da rookie, non puoi che essere un predestinato.

L’altro lato della medaglia è che sulle spalle hai grosse aspettative e attenzioni, hai le luci puntate addosso e, se non sei in grado di sopportare la pressione e di adattarti al contesto, affondare in una palude di mediocrità, laddove si era fermato anche il padre, è molto, molto facile. In questa palude Kevin ci era sprofondato nel momento più importante della sua carriera, quando, il 23 agosto 2014, venne ufficializzata la trade che portava le ultime due prime scelte del draft NBA, Anthony Bennet e Andrew Wiggins, a Minneapolis in cambio di quel lungo atipico. Alla chiamata alle armi del Re, Love risponde presente, pronto a giocarsi la tanto attesa grande chance.

Le origini del Beach Boy

Kevin Love nasce a Santa Monica, California, il 7 settembre 1988, secondo figlio di Karen e Stan Love, nipote del ben più famoso Mike Love, membro di uno dei gruppi più famosi degli anni ’60/’70, e cugino di secondo grado degli altri membri del gruppo Carl, Dennis e, soprattutto, Brian Wilson. Il soprannome è tanto scontato quanto impossibile da cambiare.

La carriera del padre non decolla e, dopo 5 anni trascorsi sui campi NBA senza lasciare grosse tracce, cambia decisamente mansione diventando una sorta di guardia del corpo per Brian, il genio musicale del gruppo tormentato da numerosi demoni interiori che lo facevano bazzicare tra brutte compagnie e uno svariato numero di droghe. I disturbi mentali del cugino venivano “curati” da Stan tramite il basket, sport a cui si appassionò il giovane musicista e a cui fu contento di vedere approdare anche il cuginetto Kevin.

Il basket, nonostante gli regalasse momenti di felicità, non riuscì a scacciare i fantasmi dalla mente di Brian, tanto da causare la rottura del rapporto con Stan che, nel 1990, complice anche la smisurata diffusione della cocaina nella Los Angeles del periodo di Reagan, trasferì la famiglia a Lake Oswego, cittadina a sud di Portland, Oregon, dove il piccolo Love iniziò ad appassionarsi alla pallacanestro.

Stan Love in maglia Lakers (credits to: Bleacher Report via Google)

Stan Love in maglia Lakers (credits to: Bleacher Report via Google)

Già dall’età di 6-7 anni Kevin inizia a fare sul serio, guarda i video di Bird e di Unseld, che diventa un vero e proprio modello per il giovane Wesley per la sua capacità innata nel tirare giù un numero impressionante di rimbalzi. La sua attitudine nel calcolare la traiettoria del pallone e nel farsi trovare molto spesso nella posizione migliore per ottenere il possesso deriva anche dal modello cestistico “insolito” per un ragazzino di quell’età.

Il numero dei video che il ragazzino divora con gli occhi crescendo è impressionante: sono tape dei migliori giocatori degli ultimi 30 anni (Magic, Jordan, Thomas …) che diventano fondamentali per la crescita nella capacità di comprendere il gioco e di utilizzare un corpo particolarmente adatto per diventare un giocatore professionista. L’unica cosa che ha in mente è il basket, non ne ha mai abbastanza di giocare dietro casa o nei campetti e la famiglia asseconda questa sua passione così sfrenata.

L’altra grande capacità che ha “rubato” al suo modello Unsled è l’outlet pass, il passaggio a due mani dal petto sviluppato negli anni con cui, letteralmente, lanciare il suo compagno più abile ad ottenere una posizione di vantaggio sulla difesa avversaria appena le mani del nativo di Santa Monica conquistano il possesso. E’ una abilità che Love ha allenato per anni tramite un esercizio specifico e che ha portato a questi risultati…

Return to L.A.

In maglia Lakers emerse come uno dei migliori prospetti della sua annata. Ora vi immagino rileggere il nome che avete appena letto per capire se sia stato solo un abbaglio oppure se avete letto bene. Non preoccupatevi, non dovete prenotare una visita dall’oculista. Il nome della squadra della Lake Oswego  High School in Oregon è tutt’ora “Lakers”. Che Los Angeles sia nel destino del giovane Kevin è lampante.

Credits to: Pinterest via Google

Credits to: Pinterest via Google

Dopo un anno da sophomore straordinario, chiuso con 25,3 punti, 15,4 rimbalzi e 3,7 assist di media, in cui trascina la scuola alla finale statale poi persa Kevin partecipa all’ABCD Camp organizzato dalla Reebok vincendo 46 partite su 46 disputate venendo nominato MVP della manifestazione.

Il quarto, ed ultimo, anno a Oregon lo vive da trascinatore assoluto chiudendo la stagione regolare con 33 punti e 17 rimbalzi di media ma non riuscì a bissare il successo ottenuto l’anno precedente perdendo la finale statale. La sua esperienza all’High School si conclude con il record di punti dell’Oregon che non veniva battuto da quasi 50 anni.

Dopo avere passato 4 anni da star assoluta in Oregon Kevin non riesce a resistere al richiamo delle origini e si accorda con UCLA per diventare un Bruin suscitando parecchi malumori all’interno dello stato che lo aveva coccolato ed esaltato, convinto di poter puntare su di lui in maglia Ducks.

L’unico anno che trascorre nell’ateneo californiano Kevin lo passa in compagnia di Russel Westbrook, altro giocatore che si dichiarerà eleggibile al draft 2008, e non se la cava affatto male. Chiude in doppia doppia di media, la corsa dei Bruins si arresta solo alla semifinale nazionale dove incontra il capolinea rappresentato dai Memphis Tigers e viene nominato Giocatore dell’Anno. Il cigno sta spiegando le ali, è pronto a volare.

Credits to: Wall Street Journal via Google

Credits to: Wall Street Journal via Google

La solitudine di Minneapolis

Il Draft del 2008 è il primo punto della sua carriera in cui interviene il destino. Il caso vuole, infatti, che sia un draft ricchissimo di talento, in ogni posizione, con grandi prospetti che fanno gola a tutte le franchigie. Love scende inizialmente fino alla #5 dove viene selezionato dai Memphis Grizzlies, subito dopo il suo compagno di college RW, salvo poi venire scambiato ai Minnesota Timberwolves che lo avevano saltato alla pick numero #3 preferendogli O.J.Mayo. A guardare il roster di allora con gli occhi di oggi si intuisce come Memphis sarebbe potuta diventare una seria contender nel giro di pochi anni dando fiducia al Beach Boy e ad un gruppo che vedeva i Marc Gasol, Conley, Lowry e Gay. La sfortuna dei Grizzlies fu quella di non vedere tutto il potenziale presente in un roster profondissimo ma, forse, debole di testa per esplodere.

Credits to: Pinterest via google

Credits to: Pinterest via google

Ma torniamo al nostro viaggio che vede Kevin fare le valigie per accasarsi ai T’Wolves, ancora alla ricerca di un uomo franchigia per sostituire quel Kevin Garnett accasatosi a Boston due estati prima. L’anno da rookie lo vive in un continuo crescendo di minuti, personalità, responsabilità e coinvolgimento all’interno del gioco, soprattutto dopo l’esonero di Wittman, sostituito da Kevin McHale, anche GM della franchigia, che lo aveva voluto fortemente imbastendo lo scambio con Memphis.

Il destino non vuole proprio fare decollare Kevin che, in una gara di pre-season dell’anno da sophomore, si infortuna ad una mano, perdendo così le prime 20 partite oltre a buona parte della preparazione fisica della nuova stagione, quella della consacrazione. Chiude l’anno in doppia doppia di media ma non riesce ancora ad avere quell’impatto sotto i tabelloni che dava l’impressione di potere avere al college.

Dal terzo anno riesce a prendersi la scena, definitivamente. Tutta la lega si accorge di quel ragazzo di Los Angeles che guida una banda di scappati di casa in giro per tutto il mondo del basket americano tentando di guadagnarsi qualche W, rare come delle oasi nel deserto. Quello stesso deserto tecnico e progettuale che il Beach Boy vede intorno a sè. Non basta una striscia di 53 doppie doppie consecutive, la più lunga di sempre da quasi 40 anni; non basta essersi messo in modalità iradiddio contro i Knicks chiudendo con 31 punti e 31 rimbalzi (e 5 assist), primo a realizzare un 30+30 dall’82. Nessuno riesce a costruirgli una squadra, un supporting cast decente, è costretto a predicare basket in mezzo al Sahara.

Con Rubio, Brewer, Pekovic e Martin se la gioca quasi fino alla fine per l’ultimo posto disponibile per la post-season ma crolla a qualche partita dal traguardo. I numeri del Beach Boy sono da trascinatore vero e da stella assoluta: oltre 26 punti  e più di 12 rimbalzi di media. Dopo numerosi rumors che vedevano i Lakers sulle tracce del talento di casa a fine estate arriva l’accordo con i Cavs, pronti a puntare in grande dopo il ritorno di LeBron.

Essere il supporting cast

Dopo 6 anni in cui sei l’unico faro offensivo di una squadra derelitta diventare la terza scelta offensiva e di importanza deve essere tutt’altro che facile. Le difficoltà ad adattarsi sono comprensibili e giustificabili. Quello che risulta incredibile è che il BeachBoy ci abbia messo due regular season e una serie di playoff quasi completa per comprendere quanto possa essere determinante anche in un contesto così differente.

Il primo anno in Ohio è, usando un eufemismo, sotto le aspettative. Andando oltre i meri numeri, che si attestavano intorno ai 16 punti e 9 rimbalzi per allacciata di scarpe, è l’applicazione mentale ad essere totalmente assente durante la regular season, un fatto strano per un giocatore che avrebbe dovuto avere una voglia di rivalsa incredibile dopo 6 stagioni passate nel nulla cestistico. I Cavs arrivano in carrozza alla post-season, anche se da testa di serie numero 2, e la metamorfosi di Love sembra avere inizio. Gioca una ottima prima serie di playoff contro Boston in cui sembra finalmente calato nel suo ruolo. A dispetto del 4-0 finale è una serie combattuta, maschia, e, a farne le spese è, ça va sans dire, il nostro eroe. Caro Kevin, fattelo dire, non sei nato sotto una buona stella.

Turning point (?)

La farfalla che sembrava sul punto di uscire dal bozzolo decide di tornarci, quasi infastidita da quello che succedeva intorno a lei e decisa più che mai a rimanere nel suo letargo. Una regular sotto tono fanno nascere numerosi rumors attorno a Love, che in estate aveva incassato la fiducia della franchigia sottoforma di un rinnovo quinquennale da 110 milioni di dollari, e la sua ultima occasione per dimostrare la sua utilità nel pianeta Cavs è rappresentata dai playoff 2015-2016.

Fino alle Finals ha un discreto impatto, non fondamentale per le sorti della squadra, ma importante soprattutto dal punto di vista personale. Dopo essere stati sotto 3-1, con le spalle al muro, tutta Cleveland entra in trance agonistica diventando inarrestabile e ribaltando per la prima volta nella storia una finale playoff da quel punteggio. Dopo The Block di Lebron e The new Shot di Irving, il possesso per il pareggio di Golden State finisce nelle mani di Curry. Quel destino che più volte si è messo di traverso sulla sua strada decide di dargli una nuova, ultima chance. Love accetta il cambio difensivo e si trova a difendere l’uno contro uno contro il due volte MVP. La sua difesa è di pura rabbia, di voglia di riprendersi lo status di superstar che ha perso proprio nel momento della possibile consacrazione. L’ottima difesa produce l’errore di Steph e conduce alla disperazione la Dub Nation, che vede sfuggire quel titolo che ormai sembrava in mano.

https://www.youtube.com/watch?v=owoia6YDSQ8

La nuova stagione ha visto presentarsi ai blocchi di partenza uno #0 decisamente a suo agio, in grado di contribuire e di diventare un’arma devastante sugli scarichi di Lebron e Irving, tanto da siglare la miglior prestazione di sempre nel primo quarto.

I dolori del giovane Beach Boy sembrano finalmente assimilati, la farfalla è uscita dal bozzolo e il lungo from L.A. sembra avere trovato definitivamente casa sul lago Michigan. Forse non sarà mai più quel lungo dominante intravisto al college e nei primi anni di Minnesota ma è un 4 in grado di allargare il campo perfettamente a suo agio in questa era di small NBA e, soprattutto, ha capito che fare l’alfiere di uno dei giocatori più forti di sempre è un ottimo modo per entrare nei libri della storia del gioco.

Alberto Mapelli

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