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Aurea Mediocritas

La mediocrità può avere dei risvolti positivi e aiutarci a leggere meglio ciò che abbiamo di fronte: ecco perché anche questa stagione NCAA merita la nostra attenzione.

“L’apparire della mediocrità è talvolta molto utile nella vita: essa allenta le corde troppo tese e richiama alla realtà i sentimenti di troppa sicurezza o di troppo abbandono di sé, ricordando che questi si possono assomigliare facilmente”

così diceva Turgenev in Padri e Figli, un’affermazione indubbiamente valida nel corso della vita, ma che possiamo in un certo modo traslare anche in realtà più ludiche -sempre che la vita non sia essa stessa un gioco- quali il basket e in particolare il basket collegiale. E’ facile etichettare questa stagione NCAA e quasi tutte le oltre trecento squadre che ne fanno parte come “mediocri” ed in effetti è complicato trovare una squadra ad inizio stagione indicata tra le favorite per il titolo che non avesse già una o più sconfitte a referto dopo a malapena dieci partite e allo stesso tempo è altrettanto complicato trovare squadre minori che abbiano davvero stupito in positivo. Ad oggi solo due squadre, South Carolina e SMU, sono imbattute -anche grazie a calendari favorevoli- e la seconda, sulla cui panchina continua a sedere come una stele il mitico Larry Brown, in ogni caso non potrà partecipare al torneo NCAA, squalificata dopo che, sostanzialmente, un assistente dello stesso Brown -a sua volta reo di copertura dei fatti- ha completato i corsi estivi della stella della squadra Keith Frazier. Niente di nuovo sotto al sole della Division I.

Non ci sono le Kentucky di Anthony Davis, le North Carolina di Tyler Hansbrough e nemmeno i quasi perfetti Wildcats di Towns e co. dello scorso anno, squadre che facevano perdere il contatto con la realtà a molti osservatori esterni, portando il discorso cestistico a inutili voli pindarici fino alla classica domanda: “Può [inserire nome, solitamente una versione di Kentucky] battere l’ultima squadra NBA [solitamente Philadelphia]?”, domanda che peraltro ha una risposta certa, ovvero un secco no. Forse proprio grazie a questa mancanza di “poteri forti” un contesto già democratico come quello del basket universitario sta raggiungendo quest’anno l’apice del suo dialogo interno e della sua commistione di stili e ranghi: non c’è più una realtà di pochi eletti arroccata su una collina difesa da mura amiche, pronta a scacciare quei piccoli bottegai rappresentati dai programmi minori che possono sperare di entrare nell’alta società solo sfondando quelle stesse mura con irruenza durante il Torneo NCAA (Wichita St., Butler, George Mason, VCU etc. rimarranno sempre nel nostro cuore), ma vi è ormai una perfetta mescolanza dove le sfumature si fanno sempre più sottili e per questo affascinanti.

Il gioco è esso stesso molte volte mediocre, cosa d’altro canto non rara nel basket collegiale e non solo, alternando momenti di attenta preparazione tattica a più frequenti e vividi momenti di pura follia cestistica, ma se l’aspetto tecnico ne può risentire è pur vero che in una pallacanestro che sembra voler diventare sempre di più – forse giustamente, di sicuro sagacemente- un saggio scientifico tradotto su 28×15 metri di parquet, il college basket rappresenta oggi più che mai l’isola dell’endecasillabo sciolto, dove anche il grottesco e l’insignificante possono diventare sublimi.

Se l’imprevedibilità è sempre stata una prerogativa del basket, ancor di più di quello universitario non fosse altro per l’età media degli attori in scena, questa stagione sta toccando picchi rari proprio per il valore modesto di molte sue squadre: UCLA ha battuto programmi appartenenti al ranking come Kentucky, Gonzaga e Arizona e perso con compagini non particolarmente temibili quali Washington State e Wake Forest; Northern Iowa si è distinta con due vittorie su UNC e Iowa St., ma ora galleggia a malapena nel mare della Missouri Valley Conference ed è già non fiera detentrice di sette sconfitte; Virginia era quarta squadra della nazione prima di cadere contro Georgia Tech e Virginia Tech, undici sconfitte in due; che dire poi di LSU, sconfitta cinque volte in tredici partite salvo poi dominare Kentucky nonostante un Ben Simmons in modalità “umana” e consequenzialmente perdere con Florida nonostante i 28+17 del fenomeno australiano? Non ci sono facili risposte ad una situazione del genere, nemmeno per quelle che sono le abitudini della Division I.

Le squadre, probabilmente resesi esse stesse conto di dover dare di più avendo di meno, fin da subito hanno dovuto adattarsi ai cambiamenti dei propri organici, giocare di astuzia e fare più volte i conti con i fallimenti che le hanno colpite già dopo una manciata di partite: abbiamo visto, ad esempio, la Kansas di Bill Self mostrare momenti di ottimo basket con il doppio playmaker e un Wayne Selden rinato da ala piccola o Tom Izzo adattare perfettamente il proprio gioco ad una squadra per molti versi distante da quelle a cui ci aveva abituato in passato. Grande basket? Raramente, tuttavia il fatto che in questa stagione non vi siano squadre senza (apparenti) punti deboli o squadre che non portino già delle cicatrici, siano esse date da infortuni, addi per l’NBA o sconfitte inattese, comporta, se possibile, una ancora maggior mole di aggiustamenti nel corso dei quaranta minuti di partita, per non parlare della stagione nel suo insieme, che talvolta ci possono regalare affreschi di bellezza da tramandare ai posteri come quelli del triplo overtime tra Kansas e Oklahoma: due squadre forse non all’altezza delle grandi del recente passato, ma per questo ancora più interessanti da vedere sul campo.

Wayne Selden, all'uscita dall'Allen Fieldhouse dopo una sfida stupenda, ma comunque felicemente caratterizzata da tutti quei difetti che d'altra parte possedevano anche gli eroi epici.

Wayne Selden all’uscita dall’Allen Fieldhouse dopo una sfida stupenda, ma comunque felicemente caratterizzata da tutti quei difetti che d’altra parte possedevano persino gli eroi epici.

Tornando alle parole di Turgenev la mediocrità ci ricorda anche come gli eccessi di entusiasmo o al contrario di disfattismo siano spesso solo atteggiamenti estremi, limitati tanto quanto la mediocrità stessa, nei confronti di realtà invero non così dissimili fra loro e riflettendo nel guardare le partite di questa stagione ci si può facilmente accorgere di come ogni reazione estrema a dei singoli eventi sia quantomeno cieca, nel giudicare il basket e non solo, e di solito non occorrono più di una manciata di partite per rendersene conto. Con questa visione più distante e onnicomprensiva è allora però anche più facile apprezzare non solo le partite, ma anche quei fuggenti attimi di grandezza che altro non sono appunto se non pennellate d’azzurro in un cielo che, come è normale che sia, è plumbeo, insignificante: pensiamo alle stagioni di giocatori quali Buddy Hield di Oklahoma (46 punti nel losing effort contro Kansas e quasi 27 di media con un identico 52% da tre e dal campo), Brice Johnson di UNC e Denzel Valentine di MSU, a partite come per l’appunto Kansas-Oklahoma o Arizona-USC terminata dopo quattro overtime oppure ancora alla stagione di Ben Simmons, uno dei migliori, se non il migliore, one and done a memoria d’uomo, che però, data la mediocrità della propria squadra, rischia di vedere il torneo NCAA da casa, ricordandoci come il talento possa divenire sterile se non adeguatamente supportato.

Anche fuori dal campo la situazione a prima vista non è delle migliori: primogenito di James Naismith, che proprio per un’ università creò il gioco, il basket collegiale come un moderno epigono di Adamo ed Eva ha conosciuto per primo la differenza tra il Bene ed il Male, e spesso ha perseguito quest’ultimo, concludendo la sua età dell’innocenza già all’alba degli anni cinquanta con lo scandalo scommesse di CCNY e men che mai sembra rifuggire i piacevoli lussi della decadenza oggi, con scandali che hanno colpito per la prima volta così tanti programmi e allenatori storici quali la Louisville di Rick Pitino, la Syracuse di Jim Boeheim e il già citato Larry Brown, senza contare i problemi pendenti sopra la testa di UNC e del suo coach Roy Williams: minata da queste piccinerie, tra escort e esami dati dagli assistenti allenatori, l’immagine del college basket parrebbe largamente compromessa, tuttavia ad uno sguardo più mondano non è difficile riconoscere in esse quelle piccole mediocrità che in fondo costituiscono molta dell’ esperienza umana e proprio per questo motivo ci possono muovere a maggior interesse al confronto con la rispettabilità sempre più perseguita dal politically correct vigente negli sport professionistici.

La vastità del microcosmo NCAA ci permette di coglierne sfaccettature sempre più numerose, forse ancor di più nel momento in cui, come quest’anno, all’attenzione dedicata a una ristretta cerchia elitaria si può facilmente sostituire un approccio più globale aiutato dalla diffusa medietà delle sue componenti. E quando anche aspetti apparentemente negativi riescono ad assumere valore agli occhi di chi guarda, allora ci troviamo evidentemente davanti a qualcosa che merita non solo la nostra considerazione, ma perfino la nostra dedizione.

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