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Attraversato l’inferno terrestre protetto da un angelo caduto, la madre -e padre- Jackie, Buddy Hield è ormai ad un passo dal paradiso. Storia di un Prescelto qualunque.

Freeport, Bahamas. Anche l’ultima ombra muore sul freddo cemento del campo di Pinedale Road, dove Chavano Hield, per tutti “Buddy”, coscienza da uomo e fisico da ragazzo, procede nel suo rituale pagano quotidiano, accarezzando col palmo delle mani la superficie del pallone da basket con lo stesso amore primordiale con il quale una madre accoglie per la prima volta il proprio figlio, mentre il sole all’orizzonte svanisce come un sogno troppo breve. La luce lilla del sole calante lascia il posto a quella più fredda della luna, con il rumore dell’inesorabile rimbalzare del pallone ormai unico compagno di giochi di Buddy. Presto però a questa arcaica sinfonia si sovrappone il lento procedere di un minivan: precedendo la vista con la conoscenza data dall’esperienza, il ragazzino sa già cosa lo aspetta, senza bisogno che vi sia necessità degli occhi per guardare.

Gli insetti si agitano attraversando il cono di luce dei fari dell’autovettura e a scendere da essa è, senza sorpresa di Buddy, mamma Jackie, che, al ritorno da uno dei suoi tre lavori quotidiani, ha notato per l’ennesima volta l’assenza del quinto dei suoi sette figli al momento dell’ “appello” serale.

Tutto ciò per il ragazzo è segno di principiante sciagura, ma non tanto per le abituali punizioni corporali – che in taluni contesti rimangono uno dei pochi, seppur indelicato, strumenti d’educazione- quanto perché termine di una condizione di concreta irrealtà nella quale Buddy può finalmente separarsi dalla quotidianità, osservandosi come dall’esterno nel compimento non solo della sua attività preferita quanto del suo stesso destino se solo potessi fare un ultimo tiro di fronte a lei e lo segnassi allora forse anche lei lo capirebbe capirebbe che il mio destino è questo e che vedrà anche me in televisione e allora sarà orgogliosa e lo saprà anche lei il tempo per un ultimo tiro non c’è e il figlio di Jackie ancora non sa che il sangue materno sotto l’apparenza dell’odio sa amare ed essere orgoglioso, anche quando l’unico rumore non è quello delle parole, bensì quello piatto delle mani che si battono contro il volto dei figli. Tuttavia quella sera non è necessario né il susseguirsi di sillabe né il suono della corporeità, i due si osservano immobili nella posa di monaci in consulto, già sapendo il contenuto di un dialogo silenzioso e al contempo sacro, come ogni cosa che riguardi due persone che condividono l’anima ancora prima del sangue.

Madre e figlio possono ritornare a casa attraversando quelle strade sempre uguali, in cui il buio si macchia della luce delle prime stelle, in un silenzio che così forte può essere solo quando si è in compagnia. Superata la porta d’ingresso l’atrio che attraversano è quello dell’abitazione della nonna materna di Buddy, dalla quale si sono trasferiti tutti a seguito del divorzio di Jackie dal padre dei suoi figli il cui cognome, Hield, i ragazzi si portano dietro, compreso Chavano, come un mantello rimasto impigliato al cappotto, senza vergogna, odio o orgoglio, semplicemente se lo sono ritrovati e lo portano appresso come tante altre contingenze ben più aspre all’interno della loro, seppur giovane, vita. Alla sera è un solo letto matrimoniale ad accoglierli tutti e sette più la madre, con le anime sfinite ancor prima dei corpi: Buddy o il fratello maggiore Curvin sono spesso gli eletti per accomodarsi sul pavimento quando lo spazio diventa eccessivamente angusto, anche perché i corpi crescono e maturano col tempo, rendendo logisticamente impossibile quell’ammasso di individualità in un rettangolo così limitato.

curvin buddy

Buddy e il fratello maggiore Curvin

A fianco di quello stesso letto alla mattina, quando la luce penetra dalla finestra con il suo candore neo classico e con una corporeità quasi tangibile, gli otto si inginocchiano e recitano le preghiere mattutine in un rituale distaccato dalla volgare fisicità che li circonda, come trasportato da un altro tempo e un altro luogo, riproposizione di una qualche miniatura medievale Credo in un solo Dio Padre onnipotente Creatore del cielo e della terra

Prima di recarsi al lavoro Jackie porta a scuola a bordo del suo minivan verde i suoi sei figli e talvolta anche quelli dei vicini: sei figli, sì, perché nel frattempo il quinto degli Hield è a tirare a canestro almeno per un’ora prima di adempiere ai propri doveri scolastici, che comunque rispetta con un rigore costante e privo di debolezze, come gli è stato ben messo in testa, anche a costo di qualche schiaffo. Nonostante l’usura quotidiana a cui è sottoposta, mamma Jackie è come ricoperta di una sostanza adamantina, inscalfibile, che le conferisce una dignità e una rispettabilità immutabili e indiscutibili, alla luce delle quali cerca di crescere ognuno dei propri figli. Appreso l’afasico discorso del giorno prima, che d’altra parte sapeva ancor prima di conoscere, Buddy non si reca più inesorabile come il corso di un fiume verso il campo di Pinedale Road, ma si accontenta di soluzioni di fortuna, legando cartoni del latte ai pali della luce di fronte alle case dei vicini e tirando palline di plastica Kobe crossover step back canestro Lebron penetra finta semigancio canestro Hield ha sì e no tredici anni ma già si può vedere al Madison Square Garden o allo Staples Center: “Un giorno sarò come Kobe, mi vedrete in TV” dice a tutti gli amici del vicinato, ancora troppo giovane per capire che certe affermazioni sono foriere di derisioni o forse semplicemente cosciente di un destino che sin da bambino poteva percepire seguirlo quale un fiore con il suo profumo.

Non ci vuole molto perché i vicini di casa, tutto fuorché persuasi dalle previsioni del ragazzo, inizino a gridargli dietro quando i tiri continuano a finire sul fondo del cartone del latte anche superate le otto di sera: “Non è il caso che tu vada da tua madre?!? Un altro tiro e vengo giù a prenderti a bastonate”. C’è persino chi rompe vetri nel viottolo di casa per impedire che Buddy vada lì a giocare, i frammenti, stelle spente di un cielo buio, lo osservano e il piccolo Hield è costretto a tornare a casa, senza però che la sua volontà e la sua percezione del proprio destino vengano anche solo in minima parte frustrati.

Donna di antichi valori, molto legata ad una rispettabilità e un orgoglio che ogni giorno la vita con le sue sfide pare volerle strappare di mano, Jackie è naturalmente molto imbarazzata e provata dalle lamentele dei vicini, ma col tempo ha ormai compreso che per Buddy quella della pallacanestro può essere la vera strada: finirà la storia dei cartoni del latte di fronte alle case altrui, ma non il suo supporto, il Credo di una madre nei confronti del proprio figlio.

Col tempo il ragazzo sviluppa una personalità sempre più brillante e ironica che aumenta la sua popolarità e gli permette di affrontare e di far affrontare a chi lo circonda col sorriso una quotidianità così lontana dall’immaginario che caratterizza la visione delle Bahamas da parte degli osservatori esterni. In uno stato che nella storia alla NBA ha dato solo Mychal Thompson (padre di Klay) e l’ex Lakers Rick Fox l’unica strada per emergere e perseguire il proprio sogno pare per il giovane Hield quella delle high school statunitensi: lui se ne rende presto conto e non manca di renderlo noto alla madre, ma la famiglia è numerosa e la condizione economica tutto fuorché favorevole e quando anche la zia che ha casa a Naples, Florida non dà disponibilità ad ospitarlo, per il bahamense l’unica opzione è provare a mettersi in mostra durante uno showcase che viene tenuto ogni primavera proprio alle Bahamas, occasione in cui sono diversi gli osservatori a giungere dagli Stati Uniti.

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Kyle Lindsted nasce nei pressi del fiume Arkansas, a Wichita, Kansas, nel 1976 e lì cresce, riceve un’educazione e nel 2000 inizia il suo lavoro come allenatore a Sunrise Christian, una piccola scuola privata a nord proprio di Wichita, la vita racchiusa nel raggio di poche miglia, un cerchio dal quale sembra essere destinato a non uscire mai. Lindsted è il perfetto frutto della terra che l’ha cresciuto, un volto solido, un fisico robusto e rilassato che trasmette a chi lo guarda un forte senso di stabilità, gli occhi placidi come la pietà e un sorriso naturale come il grano che cresce ai bordi delle strade, un uomo che se fosse vissuto in un’altra epoca avrebbe probabilmente fatto lo sceriffo di una qualche contea nei paraggi. Sposato con quella che fu già la sua fidanzata del liceo, Anita, ha sei figli e quando parla sembra sempre farlo con una sincerità innata, priva di quegli espedienti di cui abbonda l’interloquire di molti nella sua stessa posizione di allenatori e scopritori di giovani talenti.

Fuori dalla Grand Bahama Gym la luce del sole viene ingigantita e delicatamente diffusa dai riflessi dei frangipani il cui profumo è ancora più tangibile dei loro petali, mentre all’interno della palestra prende posto tra gli altri proprio Lindsted che all’epoca, siamo nel 2010, non è ancora un nome affermato nell’ambito del recruiting (nei successivi cinque anni saranno 35 i giocatori passati per le sue mani a raggiungere la Division I, uno di questi forse lo avrete intuito). Presto a catturare la sua attenzione però non sono più i giovani che si esibiscono più o meno goffamente sul parquet, quanto un ragazzo sugli spalti attorno a cui ben presto si crea una piccola folla di persone, attirate come magneti da una forte carica opposta alla loro, differente. Quel giovane intrattenitore è naturalmente Chavano, o meglio Buddy, che come al solito non nega i sorrisi nemmeno a chi poi è il primo a non credere in lui.

Colpito dalle capacità comunicative e dalla personalità del giovane ancor prima di esserlo dalle sue abilità sul campo, che non tarderà a mettere in mostra la sera successiva, il figlio del Kansas prima di prendere il volo che lo riporterà a casa in quello che è per lui un eterno ritorno, si rivolge a mamma Jackie e le comunica che non può tornare a Wichita senza che Buddy sia al suo fianco. Responsabile e dotata di quell’acume pratico tipico di chi a nemmeno quarant’anni ha già vissuto cinque o sei vite, Jackie accetta sapendo di fare il bene del figlio, ma alle sue condizioni: il ragazzo finirà l’anno scolastico, si allenerà d’estate col fidanzato e poi marito di sua madre Richard – che da quel momento sarà la figura maschile che era sempre mancata a Buddy eccezion fatta per il cognome ricevuto alla nascita- e solo a settembre si trasferirà a Wichita per crescere alla Sunrise Christian di Lindsted per gli ultimi due anni di high school.

Buddy e mamma Jackie, oggi

Buddy e mamma Jackie, oggi

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Tutto segue i piani prestabiliti, Jackie e Richard accompagnano Buddy a Wichita e lo salutano lasciandolo solo nella sua stanza, pronto a diventare uomo, o meglio, ad affrontare uno di quei riti di passaggio che agli occhi della comunità lo rendono un “uomo”, una maturità che però in realtà Hield ha già raggiunto e non solo recentemente. I primi mesi nel Kansas non sono facili e Buddy deve sopportare quella solitudine che passando per queste stesse strade aveva anche ispirato Allen Ginsberg quando registrò “Wichita Vortex Sutra”  I’m an old man now, and a lonesome man in Kansas but not afraid nemmeno Buddy è spaventato, tutt’al più talvolta sconfortato, ponderante e dubbioso, ma quando sente che la sua volontà rischia di cedere, facendolo divenire uno dei tanti che hanno provato senza farcela, che sono partiti solo per tornare, non fa altro che rifugiarsi nel suo paradiso, il campo d’allenamento della sua squadra, dove talvolta continua ad allenarsi fino a notte inoltrata, il rumore del pallone sul parquet unica compagnia come ai tempi del cemento di Pinedale Road. La dedizione di Hield arriva persino a far preoccupare il proprio allenatore, anche per quelle che potrebbero essere le sue deficitarie prestazioni in campo a seguito di allenamenti così estenuanti, ma Buddy è diverso dagli altri, guidato da qualcosa di incorporeo, impercepibile a chiunque lo possa osservare solo esternamente.

Di fatto le prestazioni deludenti non giungono quasi mai e quando si presentano, rare, Buddy la sera dorme sul pavimento della propria stanza un po’ per punirsi per la delusione che sente di aver dato a sé stesso e a tutta la comunità dove è cresciuto e verso la quale sente una innata responsabilità conferitagli dall’orgoglio da statua greca che la madre gli deve aver trasmesso alla nascita insieme ai geni, un po’ perché così il ricordo dei tempi in casa della nonna a condividere un solo letto coi fratelli e la madre torna farsi vivo e percebile, quasi tangibile, rendendo è qualcosa che era, ma ora non è più. Definire Hield un “gym rat” è perfino riduttivo, mentre il suo esangue scheletro spirituale è ancora disteso sul pavimento le sue gambe stanno già correndo su e giù per il parquet, le sue braccia sollevando pesi e la sua mente ripassando il suono del fondo della retina presto anche loro lo capiranno e allora non avrò nemmeno bisogno di dire nulla come Kobe come un padre per la mia terra presto lo sapranno anche loro

Sul campo Buddy continua a dimostrarsi un giocatore non comune, guida Sunrise Christian al titolo nazionale del circuito delle scuole cristiane e nell’anno da senior conclude la stagione con oltre 22 punti in 21 minuti di utilizzo di media. Anche Lindstead, che al primo anno a Wichita di Hield all’esplicita domanda da parte del ragazzo su cosa vedesse nel suo futuro aveva risposto -con la moderazione e il realismo di un buon padre di famiglia quale è- “un posto in una mid-major”, deve felicemente constatare la nuova condizione del sorridente bahamense che ormai riceve richieste da programmi storici della Division I tra i quali spicca -naturalmente, vista la collocazione geografica- Kansas.

Tuttavia a inseguire più strenuamente quello che è ormai un prospetto di caratura nazionale è Oklahoma, anche perché sulla panchina dei Sooners, in qualità di assistente del nuovo allenatore Lon Kruger, è seduto Chris Crutchfield, che di Hield ha un ricordo ancora vivo: atterrato a Nassau per presenziare ad uno showcase tenutosi alle Bahamas come Lindsted, ma due anni prima, Crutchfield aveva visto all’opera un tredicenne dal talento e la personalità unici che lo aveva enormemente colpito, seppure non fosse nemmeno ufficialmente iscritto all’evento in questione. Data la giovanissima età non accadde nulla in quella primavera del 2008, ma quando, con la tipica circolarità della storia, tra i nomi dei talenti liceali migliori della nazione appare quello di Hield in prossimità della stagione 2012-2013, Crutchfield non tarda a metterlo al primo posto delle sue priorità per aiutare a rilanciare un programma in difficoltà dopo i disastrosi ultimi anni di Jeff Capel alla guida dei Sooners, tra scandali, sanzioni e prestazioni miserabili sul parquet. Dopo una visita ufficiale al campus di Oklahoma con coach Kruger, un altro gentiluomo del Kansas come Lindsted, Hield già conosce la propria scelta e annulla perfino la visita che aveva già programmato al campus dei Kansas Jayhawks, dato che la sua decisione è già stata presa.

A Oklahoma Buddy non solo ha l’occasione di iniziare a scrivere le pagine di un libro ancora fermo al proprio prologo, non solo trova un’ ulteriore sfida, un ulteriore stimolo, che nella vita sono sempre stati il suo pane quotidiano, sin da quando sgattaiolava umbratile fuori dalla finestra per andare al campetto, ma trova anche e soprattutto un’anima affine alla sua come quella di Kruger: nato in un mid-west che gli ha conferito orgoglio e un senso di ineluttabile responsabilità verso una terra di cui è prima padre che figlio, uomo dotato di una grande attitudine alla condivisione, all’aiuto, anima ricca di una delicata grazia che non è mai forzata, l’allenatore dei Sooners condivide tutte queste caratteristiche -eccezion fatta per la collocazione geografica del luogo di nascita- col proprio nuovo pupillo.

Sul campo i risultati non tardano a giungere, frutto di un tempo che è come se fosse già passato ancor prima di compiersi: dapprima vi è il ritorno al Torneo NCAA, poi le Sweet Sixteen e ad oggi, in quello che è il quarto ed ultimo anno di Hield coi Sooners, un record ancora perfetto che permette di sognare concretamente le Final Four. Sugli spalti con il susseguirsi delle stagioni gli spettatori aumentano nell’ordine delle migliaia, un nuovo gruppo di fedeli che giungono in pellegrinaggio al Lloyd Center ad ammirare il disvelarsi di una seconda annunciazione ora anche loro lo sanno

Sul campo, mentre all’esterno il sole e la luna procedono in un costante inseguirsi, Hield abbatte tutti dubbi, ormai pochi, che si possano avanzare sul suo conto, come fossero tasselli di un domino destinato inesorabilmente a procedere fino alla caduta dell’ultimo pezzo: “ha sbagliato a restare al college per l’anno da senior” da 17 a 25 punti di media con una laurea in arrivo; “tira troppo da fuori e con percentuali modeste” 52% al tiro da tre; “non attacca il ferro” oltre sei liberi a partita col 90% di realizzazioni.

Quello che era un bambino di nome Chavano, con un cognome che gli era rimasto impigliato addosso e un soprannome che lo identificava e lo rendeva nel suo piccolo unico ancor prima che gli altri lo potessero sapere, quel ragazzino già uomo che correva sul campo e vedendosi dall’esterno già poteva dire ‘ecco questo sono io e questo sarò ancora e ancora e allora anche gli altri se ne renderanno conto e io sarò come un Padre per loro’, quello stesso passeggero silenzioso di un minivan verde che attraversava Pinedale Road, è ora l’esempio e la guida dei centinaia di ragazzi che si accalcano al suo cospetto durante i clinic che tiene nel paese dove è nato e cresciuto, novelli apostoli che vedono in Buddy la disvelazione di possibilità che ora per loro non sembrano più solo porte chiuse.

Emerso dalle oscurità del Non Credo, guidato da una madre che invece gli ha sempre detto Io Credo sebbene non lo dicesse con la parola, bensì con la sostanza di cui era ed è fatta ancor prima che con le azioni e per questo in maniera più incisiva, eterna, Buddy Hield è cresciuto costantemente consapevole del proprio destino e per questo è stato in grado di realizzarlo, indipendentemente da quello che sarà poi il suo compimento.

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