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Il paradiso può attendere.

 

Dello 0.7% di giocatori di pallacanestro liceali che riescono ad ottenere una borsa di studio sportiva per uno dei 351 atenei della Division I, una ancor più minima parte si riesce ad accasare in una squadra delle sette (su 32) conference principali (Big 10, Big 12, Pac 12, Big East -ora in calo a livello cestistico-, ACC, SEC e la poco più che neonata AAC), relegando alla maggior esposizione mediatica solamente una minima parte di questi giovani talenti.

Giocare a Kentucky, Duke, UConn etc. consente certamente di mettere sotto la luce dei riflettori il proprio talento, talvolta anche sovra-esponendolo e portandolo ad eccessiva esaltazione da parte del pubblico occasionale (vedasi Napier), ma senza ombra di dubbio è il miglior modo per usare il college come trampolino di lancio verso un futuro NBA pressoché immediato o anche per sperare nella conquista di un titolo, aspetti che dipendono anche dal talento e dagli anni passati dai vari giocatori nel proprio ateneo. Ci sono però altre centinaia di giocatori, all’infuori di quei college destinati ad occupare le prime pagine dei giornali americani, che non per questo sono meno degni di attenzione e con meno possibilità di scrivere pagine importanti al college così come in NBA: Damian Lillard (quattro anni a Weber State) e Kawhi Leonard (San Diego St.) dovrebbero in questo senso aver spiegato qualcosa durante gli ultimi playoff. Sono giocatori spesso sottovalutati in fase di recruiting o più semplicemente giocatori che tra i palcoscenici più importanti e l’ambiente migliore per crescere come persone e atleti hanno preferito la seconda opzione. Ci sono storie di padri (biologici e non) e figli, giocatori di intelligenza (non solo cestistica) superiore, giocatori costruitisi con il costante allenamento, ma anche talenti cristallini destinati a palcoscenici NBA, seppur magari con qualche anno di ritardo rispetto alle loro controparti scese sul campo delle North Carolina o Louisville di questo mondo.

E’ il caso di R.J. Hunter (G/F, Georgia State, Jr.), uno dei migliori tiartori di tutto il panorama collegiale, destinato probabilmente al primo giro del prossimo draft alla conclusione di quello che sarà il suo terzo anno a Georgia State, sotto la guida di suo padre Ron. Scelta che però non è stata facile e scontata come potrebbe sembrare: Ron era infatti terrorizzato all’idea che allenare suo figlio potesse creare non pochi problemi al loro rapporto ed al suo matrimonio. Già era accaduto quando R.J. era solo un ragazzino alle prime armi con il baseball: Ron, perfezionista con suo figlio ancor più che con gli altri bambini della squadra, portò il figlio ad abbandonare la squadra e il gioco più rappresentativo della cultura americana dopo una sola partita. Abbandonati mazza e guantone con il triste record di 0-1, Ronald Jordan Hunter è divenuto però un talento difficile da non notare con la palla a spicchi tra le mani, il tutto in quella che è per antonomasia la terra del basket a stelle e striscie, l’Indiana. Ron a lungo, vedendo il figlio inseguito da squadre della ACC e Big Ten, ha sperato che R.J. finisse in qualche grande ateneo così da preservare il loro rapporto, di certo più importante dell’averlo in squadra, ma ad aprirgli gli occhi è stato Greg McDermott, sicuramente prezioso nel dare consigli sul come mantenere un ottimo rapporto padre-figlio pur allenando il proprio talentuoso ragazzo, dato il “discreto” lavoro fatto a Creighton con Doug, ora ai Chicago Bulls dopo aver riscritto pagine di storia collegiale. R.J. è quindi approdato a Georgia State e i risultati non stanno tardando a farsi vedere: con 18 punti di media e il titolo di giocatore dell’anno nella Sun Belt in bacheca – davanti ad un certo Elfrid Payton- ad Hunter, già su tutti i taccuini degli scout NBA, non manca che un viaggio al torneo NCAA, sfuggito l’anno scorso per una sconfitta nella finale di conference proprio contro la Louisiana-Lafayette di Payton.

Ad aiutarlo in questa corsa ci sarà Ryan Harrow (PG, Georgia State, Sr.), uno che ha conosciuto un ambiente del calibro di Kentucky, ma ha preferito riavvicinarsi al padre, malato di cuore, trovando vicino a casa la serenità e il modo di esprimersi su un campo da basket che lo avevano messo sotto l’occhio sempre vigile di John Calipari il quale, data la situazione, non ha tardato a dare il suo benestare per il trasferimento. Ora ad ogni partita casalinga dopo uno dei suoi tanti canestri può rivolgere gli occhi dietro alla propria panchina e vedere gli occhi felici del padre, cosa che considera tuttora la sua vittoria più importante. Con Hunter forma uno dei backcourt (Hunter è una guardia-ala) più talentuosi e prolifici dell’NCAA, consentendo anche ad R.J. di giocare maggiormente senza palla, suo punto di forza. Sarà difficile non vederli al prossimo torneo NCAA.

Tyler, T.J. e Marty: presente, futuro (prossimo) e passato di BYU

Nel nome del padre è cresciuto anche Tyler Haws (G, BYU, Sr.): Marty, già guardia qualche anno prima a Brigham Young University, ha cresciuto lui e il fratello TJ -freshman a BYU quest’anno- a suon di educazione cristiana tipica dello Utah e costante allenamento in palestra, trasformando due ragazzi non certo aiutati oltremodo da madre natura in due dei più grandi giocatori liceali nella storia dello stato. Marty ha anche redatto i suoi 10 comandamenti del buon padre-allenatore, tra cui “non mettere mai lo sport davanti a Dio” e “sii sempre onesto coi tuoi figli sulle loro potenzialità”: forse non sarà la base per un nuovo Vangelo, ma il 40% da tre e il quasi 90% ai liberi di Tyler nella sua stagione da sophomore sono indice di come il suo lavoro indefesso nel corso degli anni abbia dato frutto. L’ NBA forse non sarà il suo futuro, ma passare dall’essere tagliato nella squadra delle elementari al divenire una leggenda del proprio stato sembra decisamente essere valso lo sforzo.

Chi una famiglia l’ha trovata anche fuori dalle mura di casa è Treveon Graham (F, VCU, Sr.), pronto a concludere col suo quarto anno l’esperienza a VCU. Durante una visita al campus dei Rams Shaka Smart, fresco di Final Four, disse al ragazzo -passato sotto i radar di tutti gli altri atenei eccezion fatta per Cleveland State- che vedeva in lui il potenziale per divenire il miglior realizzatore nella storia dell’ateneo, superando l’asticella posta a 1,929 punti da Eric Maynor. Per l’ennesima volta Smart si è dimostrato ben lontano dall’essere un affabulatore e a tre anni di distanza Graham è a 604 punti dal superare quel record, ma è soprattutto maturato dentro e fuori dal campo. Sua madre Trina è la prima a sottolineare il grande lavoro fatto da Smart: “ Ha creduto subito in lui e lo ha sostenuto dal primo giorno. In un anno lo ha cambiato, parla molto di più, è diventato un uomo quando fino al suo anno da freshman era solo un ragazzino”. Dotato di intelligenza e forza Graham è oggi un’ala grande di nemmeno due metri, capace di colpire da fuori con un tiro molto migliorato, nonché leader carismatico, insieme a Briante Weber, di una squadra ormai abbonata al torneo NCAA. Forse l’NBA non sarà il suo futuro, ma il presente lo vede di sicuro protagonista di spicco.

Delon Wright è pronto per fare dalla Division I il suo giardino di casa

Chi invece ha il salto tra i professionisti decisamente nel mirino è Delon Wright (PG/G, Utah, Sr.), unico giocatore di una grande conference (la Pac 12) in questa lista, ma il talento strabordante e il fatto che sia giunto a Utah solo dopo due anni di Junior College lo rendono eleggibile in questa lista di talenti del sottosuolo. La point-guard degli Utes si candida non solo come talento da NBA, ma anche come possibile successore di Doug McDermott al titolo di miglior giocatore dell’anno: dotato di completezza rara e decisivo su ambo i lati del campo Wright è forse ad oggi uno dei rebus più irrisolvibili per gli avversari in tutto il panorama collegiale. I numeri del suo anno da junior (ma il primo in Div. I) parlano di oltre 15 punti, 6 rimbalzi, 5 assist e 2 rubate ad ogni maledetta partita, il tutto con un surreale 62% nelle conclusioni dentro l’area e giocando in una delle squadre a ritmo più basso di tutta la Division I, il che di certo non aiuta a gonfiare le statistiche. Dato a fine primo giro/inizio secondo, Wright è un talento da tenere d’occhio come fu Elfrid Payton lo scorso anno, entrambi giocatori capaci di fare tutto (tranne tirare da fuori) e dotati di grandissima intelligenza cestistica e senso della posizione: con un’altra stagione più che positiva il suo nome in lottery potrebbe non stupire nessuno nel giro di qualche mese.

Fred VanVleet (PG, Wichita State, Jr.) è un ragazzo che si è già meritato le prime pagine dei giornali insieme alla sua Wichita State, giunta imbattuta al Torneo NCAA ed eliminata in una splendida partita dalla poi finalista Kentucky. Uno dei playmaker puri migliori che possiate trovare in America sotto i 21 anni, VanVleet, perso il padre a soli 5 anni durante un traffico di droga, è stato cresciuto da Joe Danforth, poliziotto e compagno della madre di Fred, divenuto di fatto il padre adottivo del ragazzo. Giocatore nell’ombra durante il suo anno da freshman, in cui Wichita raggiunse delle storiche Final Four, VanVleet è letteralmente esploso al suo secondo anno, svolgendo in maniera eccezionale il ruolo di metronomo di una squadra a lungo imbattuta e fondata su intensità fisica e difensiva, aspetti non così banali per un 20enne di 1.80 ed una manciata di chili. Il ragazzo ha risposto in maniera eccelsa alle molte richieste di coach Marshall, divenendo leader della squadra e miglior giocatore della Missouri Valley Conference. Le qualità del ragazzo non si limitano poi al parquet: conscio dell’essere probabilmente nel suo momento di maggior fama cestistica, si impegna in ogni modo per aiutare la comunità, visti i passati di suo padre e la sua infanzia in una realtà difficile e degradata, con cui il padre adottivo doveva fare quotidianamente i conti: “cerco solo di far capire ai ragazzi che possono farcela anche se tutto intorno a loro pare convincerli del contrario”. Il talento puro, il fisico e l’atletismo non sono forse quelli di un dominatore al piano superiore, ma se si vuole vedere come guidare una squadra alla vittoria facendo la scelta giusta al momento giusto (compresa la selezione di tiri), raramente potrete vedere un lavoro svolto meglio e chissà che questa volta l’imbattibilità di Wichita non possa durare più a lungo anche a marzo.

Ron Baker e Fred VanVleet: l’asse dal quale partono molti dei successi di Wichita State

A fargli compagnia nel backcourt degli Shockers troviamo Ron Baker (G, Wichita State, Jr.), ragazzo dall’aspetto californiano con una folta chioma bionda che lo ha fatto accostare da VanVleet a….un modello di Hollister, Baker è in realtà ragazzo nato e cresciuto nel Kansas e che non riesce a vedersi all’infuori del suo stato (“in California probabilmente avrei già sperperato tutti i soldi”), rappresentandone sul campo la perfetta trasposizione cestistica, sporcandosi le mani e lottando su ogni pallone, allontanandosi molto da ciò che il suo aspetto esteriore può comunicare. Inseguito da college minori come Arkanas-Little Rock e South Dakota State, Ron ha preferito invece accettare il moderato interesse di Wichita State che vedeva in lui un ottimo giocatore, ma non abbastanza da ottenere una borsa di studio, dato i pochi spazi a disposizione: detto fatto, Baker ha scelto comunque l’opzione più stimolante, approdando alla corte di Gregg Marshall come walk-on, ovvero giocatore che paga i suoi studi. Spinto dal sostegno del pubblico di casa lo sforzo (anche economico) è stato però ben ripagato: dopo un anno da redshirt Baker ha infatti ottenuto il viaggio alle Final Four il giorno del suo compleanno nella stagione da freshman e poi la perfetta regular season dello scorso anno: un posto al draft 2016 è alla portata di mano, ma per Baker ci sono pochi dubbi, il paradiso è già qui, a pochi passi da casa.

Nonostante i notevoli passi in avanti fatti nelle ultime stagioni al nome Harvard di certo non si associa subito la parola “basket”, quanto piuttosto 8 presidenti degli Stati Uniti, decine di premi Nobel e se vogliamo Zuckerberg col suo Facebook, nato proprio inizialmente come modo per comunicare tra alumni di Harvard: è normale e per una questione di priorità sarà sempre così, ma il basket, sport cerebrale per antonomasia, ben si sposa con l’intelligenza media degli studenti di questo ateneo e quando a tale brillantezza si associa anche un corpo capace di muoversi sui 28 metri di parquet allora questo può essere un mix esplosivo.

E’ il caso di Wesley Saunders (G, Harvard, Jr.) cresciuto in una famiglia priva di televisione -per scelta- e che lo ha tirato su a suon di libri, puzzle e scacchi sin dalla tenera età. Guardia molto completa giunta al suo terzo anno tra i Crimson Tide, Saunders è, di fatto, ad un tiro affidabile dalla lunga distanza dall’essere un prospetto interessante anche per il piano di sopra, posto che con una laurea ad Harvard il suo futuro dovrebbe comunque essere luminoso, basket o meno. I numeri sono leggermente calati nella sua campagna da sophomore, ma ciò non gli ha impedito di divenire il giocatore dell’anno della Ivy League e confermarsi l’uomo simbolo di un’ università che ormai può dire la sua anche in ambito cestistico dopo tre storiche apparizioni consecutive al torneo NCAA. Saunders proverà a guidare i suoi ad uno storico four-peat, il terzo in tre anni per lui. D’altra parte, da buon giocatore di scacchi, avrà già fatto suo l’insegnamento che D’Angelo Barksdale dava a Bodie e Wallace in The Wire: “The King stay the King”.

Ancora moltissimi sarebbero i nomi da elencare per quello che è l’unico campionato di basket al mondo con 351 squadre e oltre 3.000 giocatori, uno dei motivi principali per cui il fascino della NCAA rimarrà sempre immutato indipendentemente da nuove regole, one and done e altri dettagli secondari. Finché le migliaia di studenti-atleti che formano il sottosuolo e le fondamenta del college basket continueranno ad esistere, questo rimarrà la massima espressione dell’anima del basket americano…e poco importa se il “paradiso” appare ancora lontano.

 

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