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Hall of Famer

Il piccolo grande uomo

Essere un 6 piedi nella National Basketball Association non deve essere esattamente una gran bella prospettiva. Esauriti gli albori del gioco, con largo spazio ai piccoli, col passare delle decadi i big men, così come l’altezza media, iniziarono a proliferare, spadroneggiando in lungo e in largo sui parquet a stelle e strisce. Una tantum, tuttavia, riescono a sbocciare anche fior fior di giocatori che si fanno largo nelle aree della Lega, andando a sfidare omaccioni ben più grandi di loro e con risultati sfavillanti. Gente come Isiah Thomas o Allen Iverson, tanto per citare due nomi a caso ma ben conosciuti, hanno dimostrato come sia possibile sopperire all’assenza di centimetri e chilogrammi ricorrendo a cuore, talento e spirito di sacrificio. Anche loro, e non potrebbe essere altrimenti, hanno avuto un “antenato” illustre, un vero e proprio precursore dei playmaker realizzatori, dotato di eccellente trattamento della palla e grandissimi istinti per il gioco, a dispetto di un’altezza da autentico normodotato. Pur tra umili natali, tremende cadute e faticose risalite, Nate Archibald, per tutti Tiny, lasciò un marchio indelebile sulla pallacanestro degli anni Settanta.

Tiny nacque il 2 Settembre 1948 a New York, più precisamente nel South Bronx, non proprio uno dei posti più facili in cui venire al mondo. Archibald, insieme ai suoi 6 fratelli, viveva in un modesto e piccolissimo appartamento, districandosi tra la violenza e l’abuso di sostanze stupefacenti che proliferavano lì in mezzo ai projects. A 14 anni, per di più, il padre abbandonò il resto della famiglia, rendendo di fatto Nate, il figlio più anziano, l’uomo di casa, colui che avrebbe dovuto prendersi maggiormente cura dei suoi familiari. L’attaccamento alle proprie radici non lo avrebbe mai più abbandonato nel prosieguo della sua carriera.

Anche da un punto di vista prettamente cestistico le cose non andavano benissimo, almeno in questa fase della vita. Sì il talento si intravedeva, ma erano tante le riserve sul suo conto, sia per un fisico gracilino che per la mancanza di temperamento e carattere sul parquet. La carriera e la stessa vita di Archibald erano ad un crocevia fondamentale. Sarebbe potuto diventare il classico ragazzo che non riusciva a valicare i confini del proprio quartiere, finendo poi magari con lo smarrire la retta via. In aggiunta, venne tagliato dalla varsity squad alla DeWitt Clinton High School, mettendo in serio repentaglio un possibile futuro professionistico. Solo il provvidenziale aiuto di Floyd Layne e Pablo Robertson, gente nei circoli giusti della Grande Mela e che erano rimasti abbagliati dal talento di Tiny nei playground, convinsero il coach a dare una seconda chance al ragazzo. Non se ne sarebbe pentito.

Nate ebbe un’evoluzione costante ma inesorabile, venendo nominato All-City Team nell’anno da senior. I voti però, per usare un eufemismo, non erano propriamente da primo della classe, cosa che gli precluse il reclutamento da parte dei grandi nomi collegiali. Ad assicurarsi i suoi servigi fu l’Arizona Western Community College, ateneo di terza fascia ma che gli permise di mettersi in mostra ed affinare la propria tecnica. Dopo un solo anno, infatti, arrivò la borsa di studio da un’università di ben più alto prestigio, Texas El Paso, guidata dal leggendario Don Haskins, lo stesso che si era “permesso” di schierare un quintetto di soli giocatori di colore, ricevendone in premio un titolo NCAA.

Tre anni e 20 punti di media dopo, Archibald era pronto per il grande salto verso il buio, il Draft NBA 1970. Tra l’abbondanza di promesse disponibili e le annose diatribe sulla consistenza fisica, Tiny venne infine chiamato alla posizione numero 19, che all’epoca apparteneva al secondo giro, dai Cincinnati Royals, allenati da uno che si intendeva di playmakers, Bob Cousy. Il primo impatto non fu certo dei migliori, se è vero che, al primo meeting tra giocatore, coach e dirigenti, quest’ultimi lo scambiarono per un facchino dell’albergo, tanta era la distanza solare dai tipici fisici NBA. Molti dubbi vennero presto dissipati. Nate in breve riuscì a guadagnarsi un posto nel quintetto base, chiudendo la sua prima annata tra i pro con ben 16 punti di media. La tendenza a perdere tanti palloni, unita ad una difesa non certo molto attiva, tuttavia, spinsero il front office vicino ad una trade che lo avrebbe spedito ad indirizzo nuovo. Dopo alcuni tentennamenti, il bottone non venne premuto. Archibald, quasi di conseguenza, si scatenò senza mezzi termini. Al suo secondo anno nella Lega chiuse con ben 28,2 punti e 9,2 assist di media, venendo nominato nel secondo quintetto NBA. Era nata una stella.

Prima dell’avvio della stagione 1972-73 i Royals cambiarono casa, diventando i Kansas City-Omaha Kings. La squadra aveva già un padrone riconosciuto in Tiny, che era diventato una stella di primissimo piano nel firmamento NBA. Arresto e tiro di mancina mortifero, grande rapidità, nessuna paura a sfidare i big men nel loro territorio nell’area pitturata, chiudendo con abilità anche nel traffico. I compagni si affidavano al loro playmaker, che da par suo li pescava puntualmente smarcati, anche con passaggi spettacolari che, all’epoca, si permettevano davvero in pochi. Con queste premesse si può capire come l’esplosione del prodotto newyorchese fosse ormai cosa fatta. Quella regular season di Archibald entrò di diritto tra le prime 10-15 di sempre. Tiny chiuse con le medie di 34 punti e 11,4 assist, diventando il primo e unico giocatore nella storia NBA a terminare una stagione vincendo sia la classifica marcatori che quella degli assist. Il tutto a 1,80 di altezza e da numero 1 nella Lega, nel contempo, per minuti giocati. Un’impresa soprannaturale, che difficilmente verrà ripetuta da qualsiasi star, almeno in tempi brevi.

Nonostante le grandi prestazioni e riconoscimenti individuali e le convocazioni all’All-Star Game, i risultati di squadra furono molto deludenti. In 6 anni tra Royals e Kings, la franchigia si qualificò alla postseason solamente una volta, nella penultima annata di Nate, chiusa a 26,5 di media. Le sconfitte in quegli anni si accumulavano una sopra l’altra, frutto di un roster, nel complesso, mediocre, con troppo peso gravante su di un uomo solo. Nel frattempo, inoltre, per Archibald arrivarono anche problemi familiari e fisici, con guai al tendine di Achille che lo tormentarono nel 1974. Al termine della regular season 1975-76, chiusa sfiorando un eccellente 25+8 ma con Playoffs visti comodamente in salotto, il front office decise di cedere il giocatore ai New York Nets, appena sbarcati dall’ABA. Per Nate si sarebbe aperto un periodo a dir poco infernale.

Il ritorno da enfant du pais non fu alquanto fortunato. Dopo una trentina di gare a 20 di media, Archibald si infortunò gravemente al piede, perdendo il resto della stagione. Nella offseason venne spedito ai Buffalo Braves ma la situazione, se possibile, peggiorò. Tiny si ruppe il tendine d’Achille, non vestendo mai la maglia della sua nuova squadra. Altra estate ed altra trade, questa volta con destinazione Boston Celtics. Si presentò al training camp quasi 10 chili in sovrappeso, avendo perso oltretutto lo smalto ed il passo di un tempo. Nel Massachusetts ebbe tanti problemi con una delle stelle, Jo Jo White, e con coach Dave Cowens, colpevole a suo dire di non concedergli lo spazio dovuto. Il risultato finale fu desolante. Archibald a soli 11 punti di media ed i gloriosi Celtics con 29 misere vittorie, il peggior record dopo 30 anni. Stanco e frustrato, l’ombra del giocatore che era stato, sembrava ormai imminente un ritiro prematuro ma, forse, anche necessario.

Il front office dei bianco-verdi decise per un repulisti generale. Più spazio a forze fresche come Maxwell e Carr, Cowens di nuovo sul parquet e Fitch a sostituirlo in panca. Non guastò nemmeno l’arrivo di un rookie bianco da Indiana State, un certo Larry Bird. E Tiny? Dopo un’estate di vera meditazione zen nei playground della Grande Mela, decise che non era ancora giunto il momento di appendere le scarpette al chiodo. Non poteva più essere lo slasher di un tempo, ma poteva ancora mettere il proprio estro e la propria esperienza al servizio della squadra. La risposta furono 8 assist di media, il ritorno alla partita delle stelle e ben 61 vittorie in regular season. Il percorso dei Celtics fu interrotto solo alle Eastern Conference Finals dai Sixers di Julius Erving, ma le basi per una dinastia erano state poste. Nate, nel suo piccolo, aveva smentito ancora una volta i dubbi sul suo conto.

Forti di una ritrovata competitività, i bianco-verdi si fiondarono a capofitto nella stagione 198081, con un reparto lunghi rinnovato con l’esordio di due volti nuovi, Robert Parish e Kevin McHale. Archibald fu, per il secondo anno di fila, il direttore d’orchestra, gestendo il traffico nella metà campo offensiva e giocando da vero uomo squadra. In più, si tolse anche lo sfizio di vincere il premio di MVP dell’All Star Game, ma era la postseason ad interessarlo maggiormente. Superati di slancio i Chicago Bulls, ecco il rinnovato duello contro Philadelphia. La serie fu intensissima, con 5 partite terminate con uno scarto minimo. I Sixers andarono avanti per 3-1, ma subirono la furiosa rimonta di Boston. I Celtics, facendo ricorso a tutto il pride disponibile e con un Tiny a quasi 20 di media nella serie, vinsero le successive 3 gare di, rispettivamente, 2, 2 ed 1 punto, guadagnandosi così l’accesso alle NBA Finals 1981 contro gli Houston Rockets. Dopo essere stato il secondo realizzatore nelle Finali di Conference, Nate fece un passo indietro, non per questo risultando meno decisivo. I Texani avevano compiuto una mezza impresa ad Ovest, ma non ebbero scampo, soccombendo in 6 gare. Per Archibald, dopo 11 anni di delusioni, sconfitte, dubbi ed infortuni gravissimi, era arrivata ora la vendetta più dolce e tanto agognata. Era diventato campione NBA, un titolo che mai più nessuno avrebbe potuto togliergli.

Raggiunto l’anello, la parabola da giocatore si esaurì in fretta. Nel 1982 giocò il suo sesto e ultimo All-Star Game, terminando l’annata con 8 assist di media. La corazzata Celtics incrociò nuovamente le lame con i 76ers, uscendone questa volta però con le ossa rotte, sempre in 7 gare, per non perdere il vizio. L’apporto di Tiny era ormai ridotto ai minimi termini, così come il suo minutaggio. Visse un’annata da panchinaro a Boston, prima di firmare nel 1983-84 coi Milwaukee Bucks. Durò solo metà stagione, prima di decidere, questa volta giustamente e con ben altro sapore, di chiudere anzitempo la propria carriera, che con oltre 16000 punti e 6000 assist lo poneva tra i più grandi, con un pizzico di malinconia per gli anni persi per gli infortuni e quelli spesi in squadre perdenti, anche per colpa sua ovviamente.

Eletto nel 1991 nella Hall of Fame e, 6 anni più tardi, tra i 50 migliori giocatori di sempre, Nate Tiny Archibald non si è allontanato definitivamente dalla sfera a spicchi. Dopo anni da assistente ed head coach tra USBL ed NBDL, il piccolo grande uomo è rimasto in seno alla NBA, dedicandosi a tempo pieno ai rapporti con la comunità, soprattutto con quella New York di cui è stato uno dei massimi esponenti, tanto nei playground che nella Lega stessa. Perché, come ci ha insegnato Tiny, con il talento e la voglia di primeggiare spesso si riesce anche a sopperire ai limiti fisici.

Alessandro Scuto

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