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Hall of Famer

Il secondo è il primo dei perdenti

            A volte capita di trovarci davanti a degli eventi cruciali, in grado di cambiare il corso della storia, sia essa l’intera storia umana o, in modo molto più limitato, quella del mondo più ristretto ed elitario di una lega professionistica (nel caso specifico, di uno sport intero, dal momento che l’NBA è il simbolo incontestato del basket interplanetario). Di eventi cruciali l’NBA ne ha già vissuto qualcuno (e forse quest’anno  siamo di fronte ad un altro, solo il futuro potrà dircelo), ma se di svolta si deve parlare le prime due date che vengono in mente sono 1984 e 2003. Non a caso le date dei due Draft più “stellari” del secolo, due veri e propri terremoti sportivi, in grado di dare una spallata alle gerarchie e spostare le geografie della lega intera. Insomma si tratta di momenti grandiosi, scelti dal Destino, quello con la D maiuscola, per cambiare la concezione del basket intero. Ci sono tanti aspetti in comune tra questi due momenti, in primo luogo il numero assolutamente impressionante di futuri All Star e Hall of Famer che vennero chiamati, ma anche quella che sembra, a posteriori, l’assoluta incomprensibilità della seconda scelta.

            È certo che nell’elenco di nomi degni del firmamento più splendente che popolano le due liste Draft di cui stiamo parlando, quelli di Sam Bowie e di Darko Miličić stonino parecchio. Perché, nonostante il Destino, nonostante le stelle, nonostante l’abbondanza, nell’imponderabilità del Draft la parte principale la giocano le scelte. E le scelte vengono fatte da uomini, che, in quanto uomini, sono fallibili, e quindi, persino in una situazione in cui è così difficile sbagliare… bhe, possono sbagliare. Ma piuttosto che giudicare a posteriori (o meglio, col senno di poi) quei due poveretti, attaccandogli addosso la poco lusinghiera etichetta dei “più grandi bidoni di sempre” (ricordando che comunque ci sono stati anche personaggi del calibro di Kwame Brown degni di contendere questo titolo), bisogna risalire ai perché di quelle scelte, cercare di comprendere come sia stato possibile “sbagliare”. E l’unico modo per farlo è immergerci nella storia, e tornare indietro fino a quel 19 giugno 1984.

            Un David Stern un po’ più giovane e un po’ meno grigio si avvicina al podio allestito nel Felt Forum di New York. L’emozione deve essere ancora tanta dopo la prima chiamata del primo Daft di quella che, forse nemmeno lui lo sa in quel momento, sarà un’avventura trentennale, costellata di piccoli e grandi successi e dagli incontri con innumerevoli campioni. Stern in quel momento sa solo che bisogna continuare, perché ci sono altri giocatori da chiamare e altre squadre che smaniano per averli. Nello specifico, in quel momento, tocca ai Portland Trail Blazers che, fatta la loro scelta, consegnano il foglio al commissioner e aspettano solo l’annuncio: With the second pick of the 1984 NBA Draft, the Portland Trail Balzers select Samuel Bowie, from Kentucky”.

 

            Samuel Paul Bowie era nato a Lebanon, una cittadina della Pennsilvanya, il 17 marzo del 1961, e a Lebanon aveva frequentato le scuole superiori (nella Lebanon High School, nome, a dir la verità, non troppo fantasioso). Qui il centro si era da subito imposto come leader della squadra già nel suo junior year (il primo anno delle high school americane), quando l’aveva condotta alla Finale di Stato, poi persa per un punto contro la Schenley High School di Pittsburgh. Nonostante ciò, Bowie, McDonald’s All American e Parade All American, aveva fatto registrare statistiche di tutto rispetto (28 pts e 18 rbd pg), ed era stato nominato National Player of the Year, davanti a tal Ralph Sampson, un altro centro, che pure lo aveva umiliato alla “Battle of the Giants”, un match d’esibizione nel contesto del Capital Classic. Ralph Sampson sarebbe stato decisamente importante nella carriera di Bowie ancora una volta in futuro, ma certamente nessuno dei due all’epoca lo sapeva. Così, nel 1979-80 il centro della Pennsylvania fece il suo approdo alla Kentucky University, pronto a imbarcarsi nell’avventura dell’NCAA con una delle squadre universitarie più blasonate degli Stati Uniti. Il suo anno da freshman (appunto l’anno da matricola) fu più che buono: 12.9 pts e 8.1 rbd pg, gli guadagnarono la convocazione nel team USA che si preparava per le Olimpiadi di Mosca 1980, in un’era nella quale gli Stati Uniti ancora non si degnavano di affrontare le altre nazioni del mondo che con degli universitari. Ma l’esperienza olimpica Bowie non la visse mai, perché il clima non proprio idilliaco che spirava tra le due superpotenze portò al boicottaggio dei Giochi da parte degli USA. Così, costretto a rinunciare, si rifece migliorando le sue cifre nella successiva stagione da sophomore, arrivando a far registrare 17.4 pts e 9.1 rbd pg e riuscendo addirittura a stabilire il record di Kentucky, tuttora solo eguagliato, di nove stoppate in una singola partita. Alla fine della stagione venne inserito nel terzo quintetto NCAA. Non tutto però era stato rose e fiori in quella stagione 1980-81. Nella terzultima partita dell’anno, contro Vanderbilt, era andato a canestro con violenza per una schiacciata, ma era ricaduto fuori equilibrio, poggiando tutto il suo peso sulla gamba sinistra. Il dolore era stato forte, ma Bowie provò a giocarci sopra, sia in quella partita che in quelle successive, e anche nel primo turno del torneo NCAA, nella quale la sua  Kentucky (testa di serie numero 2 della Mideast Region) venne sconfitta dagli Alabama-Birmingham (testa di serie numero 7) e lui giocò la peggior partita della vita, venendo espulso per falli nel secondo quarto. Il suo infortunio divenne chiaro in tutta la sua drammatica gravità solo dopo quel match: frattura da stress alla tibia sinistra, il che significava perdere l’intera stagione successiva. Una stagione che poi divenne due stagioni intere, quando la gamba sembrò non guarire. Così il rientro di Bowie slittò fino alla stagione 1983-84, nella quale mise insieme 10.5 pts e 9.2 rbd pg, guadagnandosi un posto nel secondo quintetto NCAA. Bowie e il suo collega di front-line Melvin Turpin (che formava con lui il duo delle “Twin Towers”) trascinarono quell’anno i Kentucky Wildcats a un record di 26-4, ai primi tre posti del ranking nazionale e al South-Eastern Conference Championship, fino alle Final Four NCAA di Seattle, dove la loro corsa venne fermata da Georgetown, forte dello strapotente e dirompente centro Patrick Ewing. L’anno da senior, e con esso la carriera collegiale, di Sam Bowie si chiudeva senza titoli NCAA, ma con una copertina di Sports Illustrated, ottenuta subito dopo l’eroica prestazione nella vittoria contro i rivali di Louisville.

            E così si giunge finalmente a quel giugno 1984. I Portland Trail Blazers avevano acquistato la scelta degli Indiana Pacers in cambio del centro Tom Owens, con la segreta (nemmeno poi tanto segreta) speranza di vincere il lancio della moneta (che era il sistema per assegnare la prima scelta, prima dell’introduzione, l’anno successivo, della Draft Lottery) contro Houston, e arrivare al centro nigeriano della University of Houston, Hakeem Olajuwon, che aveva fatto faville nelle Final Four da due anni a quella parte, vincendo anche un premio come NCAA Tournament Player of the Year. Ma è il caso che, qualche volta, ci mette lo zampino. Il lancio della moneta non guardava in faccia alle probabilità inferiori per i Rockets, non considerava i piani dei Blazers. In sostanza, nulla andò come previsto. Houston vinse la scelta e Portland decise di muoversi. Stando a quanto dice lo stesso Hakeem nella sua autobiografia, i Trail Blazers, intenzionati ad accaparrarsi un lungo a qualsiasi costo, presentarono un’offerta di scambio ai Rockets che aveva il sapore della proposta indecente in miglior stile hollywoodiano: la seconda scelta e Clyde Drexler per Ralph Sampson, prima scelta del Draft 1983 e fresco Rookie of the Year. A pensarci adesso viene l’acquolina in bocca, con la possibilità di mettere in piedi il primo “Big Three” della storia messa lì a portata di mano. Ma la storia, questa storia in particolare, è fatta di scelte, e la scelta dei Rockets fu quella di non sentirsela proprio di cedere Sampson (da tutti considerato un futuro All-Star) e di provare a mettere insieme un sistema di “Twin Towers” con lui e Hakeem. Così Portland, con Olajuwon fuori dal tabellone, si ritrovava con una seconda scelta e con tanti nomi in mano. Con un nome in particolare: Michael Jeffrey Jordan. Ma il posto di guardia tiratrice in Oregon era già occupato da due giocatori come Clyde Drexler e Jim Paxsons, mentre la partenza di Owens aveva lasciato una voragine in quello di centro. Così, alla fine, la scelta di Portland ricadde sui 2.16 m per 107 kg di un 23enne Bowie.

            La sua carriera NBA non cominciò poi così male (10 pts e 8.6 rbd di media in 76 partite nell’anno da rookie, e un posto nell’All Rookie Team), non fosse per il fatto che, nel frattempo, molti di quelli che erano stati scelti dopo di lui, a partire proprio da Michael Jeffrey Jordan, cominciavano a fare la storia della NBA. Fu un inizio a suo modo buono, ma forviante. Nel 1985, infatti, Bowie si ruppe la gamba sinistra, saltando praticamente l’intera stagione e rientrando l’anno successivo, solo per spezzarsi la gamba destra e rimanere fuori un’altra stagione. Di nuovo rientrò per la pre-season del 1987-88 e, durante uno shootaround si spezzò la tibia destra, saltando di nuovo la stagione. In tre stagioni dopo il suo anno da rookie aveva giocato solo 63 partite su 328. Esasperato per i suoi continui problemi alle gambe, il front office di Portland decise di cederlo nell’estate del 1989 ai New Jersey Nets in cambio di Buck Williams. All’improvviso Bowie sembrò tornare a essere un giocatore che poteva dire la sua: nella sua prima stagione ai Nets (1989-90) fece registrare una doppia doppia di media con 14.7 pts e 10.1 rbd pg, ma, anche se quelle stagioni furono le sue migliori in NBA (riuscì addirittura a giocare 79 partite) le sue prestazioni andarono inesorabilmente in calo, finché si ritrovò persino a non toccare nemmeno la doppia cifra di media alla voce punti (furono 9.1, con 7 rbd, nel 1992-93). Fu probabilmente per questo che i Nets infine lo inserirono in una trade, direzione Los Angeles Lakers, dove arrivò in cambio di Benoit Benjamin (terza scelta del Draft NBA del 1985) e dove i suoi gravi problemi alle gambe sembrarono riemergere, portandolo infine al ritiro nel 1995. Ma il fatto più curioso e divertente della sua vita si pone, per assurdo, dopo la fine della sua carriera. Come accogliendo all’improvviso tutto di un colpo i ripetuti inviti dei tifosi di Portland, Bowie si diede letteralmente all’ippica, dedicandosi ad alcune corse di trotto.

            Questa la storia di Samuel Bowie, colui che nel 2005 venne etichettato come “la peggior chiamata al Draft dello sport professionistico nordamericano”. Un giudizio forse inclemente, stando alle sue cifre, e dovuto più che altro al fatto che, in quel Draft del 1984, venne selezionato prima di Michael Jordan (#3) Sam Perkins (#4) Charles Barkley (#5) Alvin Robertson (#7) Otis Thorpe (#9) e John Stockton (#16).

 

Ma, come si suol dire historia magistra vitae

            L’adagio ciceroniano, o meglio, la sua più chiara confutazione, ci serve a fare un salto di otto anni e a passare dal 1995, dove siamo arrivati in compagnia di Sam Bowie, al 2003 dove giungiamo accompagnati dai Detroit Pistons che ereditavano, da uno scambio del 1997, la prima scelta al Draft dei Vancouver Grizzlies. Una scelta che si era rivelata essere incredibilmente alta, fino addirittura alla seconda assoluta. I Pistons in realtà non sembravano averne troppo bisogno. Il processo di ricostruzione post-Bad Boys, cominciato con l’arrivo di Joe Dumars (ritiratosi nel 1999) alla presidenza della franchigia nel 2000, aveva portato a dei grandi risultati: lo scambio che aveva condotto Grant Hill a Orlando ma aveva portato sulla strada opposta, a Motown, “Big Ben” Wallace, l’arrivo in panchina di Rick Carlisle (che avrebbe restituito credibilità e un’attitudine vincente alla franchigia), gli innesti di Chauncey Billups (dal mercato free-agent), Richard Hamilton (dai Wizards) e Tayshaun Prince (scelta #23 al Draft del 2002), e infine la Finale di Conference del 2002 (persa per 4 a 0 contro i New Jersey Nets di Jason Kidd). Proprio come il Draft del 1984, quello del 2003 era pieno, colmo di future star, primo tra tutti un ragazzone di Akron, Ohio, che aveva fatto il salto direttamente dall’high school e che rispondeva al nome di LeBron James. I Cleveland Cavaliers, franchigia dell’Ohio che aveva ottenuto la prima scelta, non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di draftare il ragazzo di casa, che tutti avevano già etichettato come “il Prescelto”. Adesso la seconda scelta toccava proprio ai Pistons che, però, erano una squadra fatta, completa, in grado di giocarsi agevolmente le sue chances per il titolo (durante quella stagione 2003-04 avrebbero inoltre ottenuto in una trade, dagli Atlanta Hawks, Rasheed Wallace, l’ultimo tassello per la squadra perfetta). Con tanti nomi sul piatto, con una scelta così tanto ampia da far girare la testa, alla fine i Pistons decisero, e consegnarono il loro foglio a Stern, che si avviò verso il palco: With the 2nd pick of the 2003 NBA Draft the Detroit Pistons select Darko Miličić, from Serbia”.

 

            Darko Miličić era nato il 20 giugno 1985 a Novi Sad, in Serbia, e fin da piccolo, vista la promettente struttura fisica, era stato avviato sulla strada del basket, sport dal vastissimo successo in tutta l’area della ex Jugoslavia. Esordendo giovanissimo e con grandi prestazioni nel Košarkaški Klub Hemofarm Vršac, si era attirato addosso la fama di miglior prospetto europeo. Ed effettivamente gli elementi c’erano tutti: era giovane, era fisicamente imponente, tecnicamente dotato e ricopriva una posizione, quella di centro, nella quale la qualità generale stava calando. Così il front office di Detroit non ci vide niente di male nel selezionare la sorpresa europea piuttosto che un Anthony Carmelo da Syracuse, o un Wade Dwyane da Marquette. E il giovane Darko arrivò in NBA all’età di 18 anni e 6 giorni aggregandosi al roster di una squadra da titolo, allenata da un ottimo coach come l’Hall of Famer Larry Brown.

            Il suo anno da rookie fu un incubo. Mentre i suoi “compagni di draft” facevano meraviglie, disegnando i contorni delle città di Cleveland, Denver, Toronto e Miami sulla carta geografica del basket USA, lui svernava sulla panchina a Motown, calcando il parquet per meno di cinque minuti a partita per 34 partite. Ma nonostante questo, la squadra era competitiva, molto, e lui si poté togliere il piccolo sfizio di piazzare lì un record: più giovane giocatore di sempre a giocare in una Finale NBA (18 anni e 356 giorni, provate a batterlo…) quando nel 2004 i Pistons sconfissero i Los Angeles Lakers del duo Kobe-Shaq (supportati pure da certi tizi mica da poco come Gary Payton e Karl Malone), procurandogli anche qualche altra soddisfazione, come quella di mettersi un anello di campione al dito.  Nonostante le rassicurazioni di Dumars, che vedeva (a parole) in lui il futuro della franchigia, nonostante un cambio di allenatore (da Brown a Filip Saunders, famoso per la capacità di sviluppare i giocatori, come aveva fatto, per esempio, con Kevin Garnett e Stephon Marbury), nonostante la cessione di Elden Campbell e l’arrivo del veterano Dale Davis, che poteva fargli da mentore, Miličić continuò a trovare poco spazio, fino anche alla sua esasperazione. “L’ho già detto diecimila volte. Il miglior modo che ho per crescere è giocare” sarebbe arrivato a dire, guardando il suo minutaggio che non si smuoveva dai 5.6 min pg. Alla fine la sua frustrazione e quella dei Pistons furono risolte con uno scambio: nel 2006 il giovane serbo fece armi e bagagli e si spostò, insieme al compagno Carlos Arroyo, in Florida, sponda Orlando Magic, in cambio di una prima scelta al Draft 2007 (che sarebbe stata convertita in Rodney Stuckey) e di Kelvin Cato. All’improvviso Miličić sembrò esplodere. In una partita contro i Knicks giocò per 32 minuti mettendo insieme 13 pts (non roba da poco per uno che ne segnava 1.6 di media) e 7 rbd. Ma il miglioramento delle sue statistiche (2.4 blk di media, e addirittura 12.3 pts pg ai play-off del 2006-07) non convinse completamente il front-office di Orlando che, alla scadenza del suo contratto da rookie lo lasciò andare. Nell’estate del 2007 firmò un accordo di tre anni a 21 mln $ complessivi, ma nel 2008 ebbe una stagione funestata dagli infortuni (in estate il tendine d’Achille durante un allenamento con la nazionale serba, e a dicembre la rottura delle articolazioni delle dita in un match contro gli Indiana Pacers) e da una serie di prestazioni altalenanti che finirono per costargli il posto a favore di ben altro giocatore (per la cronaca, Marc Gasol). Nel giugno 2009 Memphis decise di spedire lui e il suo contratto a New York, prendendo in cambio Quentin Richardson. Un nuovo calo nel suo minutaggio (e nel suo rendimento) lo spinse a pensare al ritorno in Europa, dove avrebbe potuto dominare facilmente tutti i campi. Invece venne scambiato di nuovo nel 2010 per Brian Cardinal, approdando ai Minnesota Timberwolves. E qui si pone la fase più splendente della sua carriera: ottenuto un rinnovo da 20 mln $ in 4 anni, Miličić si gettò con entusiasmo nella nuova avventura, raggiungendo, nella stagione 2010-11 i migliori risultati della sua carriera NBA: la media di 8.8 pts pg, il quinto posto nella classifica dei migliori stoppatori della stagione, e le sue due migliori prestazioni in carriera (23 pts, 16 rbd e 6 blk contro i Los Angeles Lakers e 25 pts, suo career high, e 11 rbd contro i Golden State Warriors). Anche la stagione 2011-12 sembrò iniziare sotto una stella migliore rispetto alle precedenti, con la prestazione da 22 pts e 7 rbd contro i Los Angels Clippers, ma ben presto Minnesota cominciò a pensare di poter fare a meno di lui e arrivò a tagliarlo via Amnesty. La sua successiva esperienza, con i Boston Celtics, con i quali firmò un contratto nel 2012, durò meno del tempo di leggere queste righe, ad essa dedicate (un mese di allenamenti e cinque minuti totali sul parquet). La franchigia lo lasciò andare su sua richiesta, per risolvere alcune questioni personali. L’esperienza di Miličić in NBA si concluse così, con il solo atto dovuto del ritiro effettivo, annunciato nel 2013.

            Letta questa storia non si può non chiedersi, insieme a Darko stesso, perché i Pistons avessero deciso di draftarlo, ma di nuovo, il problema non è tanto il giocatore, il cui valore, in realtà, era indiscutibile, all’epoca, ma più che altro una serie di situazioni collaterali. Prima di tutto il fattore ambientale: il ritrovarsi in una squadra di talenti, costruita per l’attacco al titolo, non ha favorito la crescita cestistica di un giovane che forse avrebbe avuto bisogno di qualche altro anno in Europa per arrivare a far maturare tutto il suo potenziale. La frustrazione e la mancanza di minutaggio devono aver avuto il loro peso sul resto. Ma soprattutto Darko deve aver sofferto il confronto inclemente tra la sua carriera e quella dei suoi “compagni di draft” e non solo di quel fenomenale LeBron che era stato scelto prima di lui, ma soprattutto di quei fenomenali Carmelo Anthony (#3) Chris Bosh (#4) Dwyane Wade (#5) che l’avevano seguito.

            È fin troppo facile starsene qui seduti a pensare agli “e se”, a farsi costruzioni mentali sul “butterfly effect” e sulle “sliding doors” della vita. Ma c’è una cosa certa: non è facile vestire i panni della scelta sbagliata nei Draft delle stelle. Per un motivo Bowie per un altro Miličić, hanno avuto delle carriere funeste, ma non peggiori di quelle di tanti altri giocatori mediamente dotati della NBA. Il perché abbiano fatto rumore è di nuovo presto detto. Perché ancora oggi, nelle liste Draft i nomi di Sam Bowie e Darko Miličić si leggono prima di quelli di Michael Jordan, Charles Barkley, Carmelo Anthony e Dwyane Wade.

Simone Simeoni

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