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Hall of Famer

Hall of Fame: il discorso di Stern, Zo, Mich e il primo sovietico, l’imbattibile Immaculata. Tutti i protagonisti della classe 2014

“Se sono qui oggi lo devo a migliaia di persone. Se dovessi ringraziare personalmente tutti quelli che mi hanno aiutato durante la mia carriera di commissioner vi terrei qui tutta la notte”. Per una volta David Stern mette da parte quella vena di personalismo che l’ha sempre contraddistinto per raccontare, in modo coinvolgente e a tratti quasi toccante, aneddoti e curiosità di quella Lega così pittoresca, la sua Lega, che ha contribuito in modo decisivo a far diventare grande, in ogni senso. E’ l’ospite d’onore tra coloro che ieri sono stati inseriti nella Naismith Basketball Hall of Fame di Springfield, Massachusetts, là dove questo simpatico sport ha preso vita più di un secolo fa dalla creativa mente del dottor James Naismith, e oggi ne ricorda i suoi interpreti più importanti, in ogni ruolo e ambito.

L’ex commissioner è l’ultimo a salire sul palco, accompagnato da alcuni personaggi cruciali nel corso della sua trentennale esperienza alla guida della Lega. Il primo è Bill Russell, insignito da Stern dell’intitolazione del premio all’MVP delle Finals poiché Bill, su 11 titoli vinti, incredibilmente non conseguì mai il trofeo. Seguono Magic Johnson e Larry Bird, la cui rivalità ridiede linfa alla Lega creando il terreno fertile per il rilancio su larga scala attuato dallo stesso commissioner, insidiatosi nel 1984; presenze d’obbligo anche quella di Russ Granik, suo fedele vice per 22 stagioni, e di Bob Lanier, primo presidente dell’associazione giocatori, elogiato soprattutto per gli sforzi compiuti al suo fianco per debellare le sostanze stupefacenti dalla Lega. Saluta tutti e li ricorda uno ad uno, questo piccolo avvocato newyorkese di origine ebraica che, nonostante qualche scheletro nell’armadio, ha speso l’intera esistenza per la NBA, trasformandola da Lega professionistica colma di problemi di ogni tipo e a un certo punto anche a rischio di scomparsa, a potenza sportiva ed economica di livello mondiale.

Stern con i 5 accompagnatori: da sinistra, Russell, Magic, Granik, Bird e Lanier. Cinderella who?

Quest’anno insomma spazio a un contributore per il posto d’onore, ma non è che i giocatori, che in genere la fanno da padrone tra i nuovi eletti, siano poi così da buttare. Si comincia con Alonzo Mourning, il centro che doveva essere l’alternativa a Shaq nel periodo tra anni ’90 e Duemila, a lungo considerato l’unico in grado di limitare il Diesel in uno contro uno. Seconda scelta assoluta nel 1992 proprio dietro a O’Neal da parte degli Charlotte Hornets, sbarca a Miami nel 1995 ed è proprio in Florida, sotto la guida di Pat Riley, che vive le stagioni migliori della propria carriera, prima che un’insufficienza renale, diagnosticatagli subito dopo l’oro olimpico di Sidney 2000, lo costringa a pesanti sessioni di dialisi proprio negli anni migliori della propria carriera. Fallite le cure meno invasive, nel 2003 Zo sarà costretto a ricorrere a un trapianto di rene, da cui recupera a tempo di record, riuscendo anche a tornare in campo di nuovo coi suoi Heat dopo la breve parentesi a New Jersey, risultando elemento preziosissimo dalla panchina nella trionfale cavalcata fino al Larry O’Brien nel 2006 (peraltro, proprio come cambio di Shaq e di nuovo con Riley in panchina). La sua figura entra nell’olimpo del basket soprattutto per l’esempio di tenacia e lotta alle avversità della vita, oltre che per una carriera che, seppur fortemente penalizzata dalla malattia, rimane da incorniciare (7 volte All Star, 2 volte Difensore dell’Anno, secondo marcatore di ogni epoca degli Heat dietro Dwyane Wade).

Mourning, Richmond e Marciulionis durante la cerimonia

Dopo un lungo, urge un esterno a riequilibrare i ruoli, ed ecco dunque che arriva il turno di Mitch Richmond, fenomenale realizzatore che ha speso gli anni migliori della propria carriera tra fine anni ’80 e anni ’90: entra infatti nella NBA nel 1988 come quinta chiamata dei Golden State Warriors e ci mette pochissimo per diventare subito uno dei pilastri di una delle squadre più spettacolari del periodo, i mitici Run TMC guidati dal pioniere dello small ball Don Nelson. Acronimo di Tim (Hardaway, Mr. Crossover il cui figlio gioca oggi nei Knicks), Mitch appunto e Chris (Mullin, ala mancina paragonato addirittura a Bird per la tecnica sublime), i Run vinsero poco ma divertirono moltissimo col loro gioco spumeggiante basato su uno dei più riusciti run & gun. Richmond divenne poi uno dei più prolifici realizzatori dei Sacramento Kings (terzo di ogni epoca), prima di essere ceduto nella Capitale in cambio di Chris Webber e concludere poi la carriera ai Lakers, coi quali vinse l’agognato titolo all’ultimo anno di carriera, nel 2002. Rookie of the Year nel 1989, 6 volte All Star e MVP dell’ASG nel 1995, oltre 20.000 punti segnati in carriera: la Hall of Fame insomma se l’è abbastanza guadagnata.

Non era presente nella sigla, ma sempre nei Golden State Warriors del Run TMC giocò anche Sarunas Marciulionis, lituano tra i pionieri degli europei di scuola non americana nella Lega ieri inserito a Springfield. Tra i più luminosi prodotti della scuola cestistica di Kaunas, un po’ la Divina Scuola di Hokuto del basket europeo, Marciulionis viene ovviamente quasi completamente ignorato al Draft del 1987 in una Lega ancora sospettosa verso i non americani, specie verso chi al tempo era formalmente un sovietico. I Warriors lo chiamano comunque addirittura al sesto giro e lo portano a Oakland nel 1989, facendo di lui il primo sovietico in NBA e ritrovandosi per le mani un altro buonissimo realizzatore con la non disprezzabile tendenza ad aumentare di colpi nelle fasi più importanti, in particolare nei playoff. Dopo Golden State finirà a Seattle, anch’egli a Sacramento ancora con Richmond per concludere la carriera a Denver nel 1996; nella NBA il palmares è un po’ scarno, ma sarà uno degli eroi che nel 1992 parteciperà alla prima Olimpiade come nazionale lituana portando in patria il bronzo.

Guy Rodgers nelle classiche pose plastiche tanto di moda nei ’50

Bisogna fare un deciso salto indietro nel tempo per l’ultimo giocatore di questa classe 2014, che risponde al nome di Guy Rodgers e potrà purtroppo insignirsi di un tale onore solo post mortem. Playmaker puro, eccellente passatore, Rodgers fu una star al college con Temple, andando due volte alla Final Fuor e sfiorando anche i 20 di media. Scelto nel 1958 dagli allora Philadelphia Warriors, nella più fisica NBA si ritagliò uno spazio importante come eccellente assist-man, chiudendo 2 volte come leader della speciale classifica e venendo convocato 4 volte per l’All Star Game nel corso dei suoi 12 anni di carriera spesi tra Philadelphia, Chicago (tuttora detentore del record dei Bulls per assist in singola stagione con 908), Cincinnati e Milwaukee. Il suo nome è legato anche a una delle notti più memorabili della storia della Lega, essendo stato in campo in quel mitico 2 marzo del 1962 e contribuendo all’impresa con 20 assist serviti a un Chamberlain che chiuse in tripla cifra.

Neanche Nat Clifton è esente dalle citate pose

Ma per quanto abbiano ovviamente un ruolo centrale, la NBA e in generale il basket non sono solo sinonimo di giocatori eccezionali, ma anche di figure ugualmente fondamentali che ogni anno l’Hall of Fame ricorda tra le proprie nuove leve. Tra i cosiddetti contributors, persone cioè che hanno contribuito in qualche modo allo sviluppo del basket, oltre a Stern è stato inserito quest’anno Nat Clifton, che fu peraltro un giocatore, dei Globetrotters prima e dei Knicks poi; ma il motivo della sua elezione, arrivata anche per lui dopo la sua dipartita (è scomparso nel 1990), è sito nel fatto di essere stato, nel lontano 1950, il secondo afroamericano a firmare e poi a giocare nella Lega, spianando la strada a un’apertura verso le persone di colore che, per quanto importante da un punto di vista tecnico, fu soprattutto cruciale socialmente e culturalmente. Fu pure All Star nel 1957, a riprova di quanto questi ragazzotti di colore potessero non solo stare in questa Lega ma pure risultare tra i migliori; e il tempo non farà che confermare questa tesi.

Tra i coaches spicca invece il nome di Nolan Richardson, leggendario allenatore di un ateneo non certo di primissima fascia come Arkansas, che guidò i Razorbacks a 15 apparizioni nel torneo NCAA durante la sua gestione tra il 1985 e il 2002, conquistando anche il titolo nel 1994 e perdendo solo in finale l’anno successivo con UCLA. Vincitore anche di un titolo del Torneo NIT nel 1981 alla guida di Tulsa, Richardson è noto per i famosi “40 Minutes of Hell”, l’asfissiante pressione difensiva marchio di fabbrica delle sua squadre; grazie ad essa, a tutt’oggi, ormai sostanzialmente ritirato, detiene uno straordinario 71% di vittorie da head coach in carriera.

L’arzillo 82enne Bobby “Slick” Leonard alla cerimonia

Sempre dal mondo del college basket arriva Gary Williams, altro coach dalla straordinaria carriera vincente in quel di Maryland. Dopo una lunga gavetta, comprendente anche Boston College e Ohio State, Williams approda nella sua alma mater Maryland nel 2000, ereditando sanzioni della NCAA dalla precedente gestione che ne limitarono i reclutamenti. Ciò nonostante, nei suoi 11 anni sulla panchina dei Terrapins non mancò mai l’appuntamento con il Torneo NCAA, togliendosi anche la soddisfazione di vincerlo nel 2002, allenando futuri giocatori NBA del calibro di Steve Francis, Joe Smith e Steve Blake, per fare qualche esempio, e chiudendo con il 63% di vittorie in carriera.

L’ultimo coach di questo 2014 viene invece da un’altra Lega professionistica: Bobby “Slick” Leonard è infatti il più vincente allenatore della breve avventura della ABA, legato indissolubilmente alla storia degli Indiana Pacers, che guidò anche nella loro transizione alla NBA dal 1976 al 1980. Ma è nella Lega rivale che Slick si tolse le maggiori soddisfazioni, vincendo 3 titoli e chiudendo con un 387-270 di record in ABA, con 69 vittorie nei playoff (entrambi record dell’American Basketball Association). Anziano e con problemi di cuore, è comunque ancora all’interno dell’organizzazione Pacers in qualità di commentatore.

Chiudiamo questa rassegna con un’intera squadra che da oggi viene ricordata nell’olimpo della pallacanestro di ogni epoca. Tra il 1972 e il 1974 il college basket fu dominato in lungo e in largo da un team che chiuse il triennio con un irreale 60-2 e ovviamente 3 titoli consecutivi. L’ateneo che fece ancora meglio della UCLA di Alcindor e Wooden si chiama Immaculata University ed è una squadra di college femminile, che riscrisse il concetto di imbattibilità nella pallacanestro. Guidate dalle già Hall of Famer Theresa Shank, Marianne Crawford e Mary Scharff, le Mighty Macs della Pennsylvania contribuirono fortemente a sdoganare il basket e in generale lo sport femminile, aiutando a creare i presupposti per una lega professionale, importante e riconosciuta come la WNBA.

Le imbattibili Mighty Macs di Immaculata University

Perché, giova ricordarlo, l’Hall of Fame non è solo il mausoleo delle glorie della NBA, per quanto esse abbiano un posto ovviamente importante; è un’istituzione atta a conservare e tutelare la pallacanestro nella sua interezza e in ogni suo rappresentante, sia esso giocatore o allenatore, bianco o nero, uomo o donna. “Tutto gira attorno a questo magnifico sport: lo devi amare e tutto ciò che facciamo noi tutti è sempre per il suo bene”: David Stern non avrebbe potuto trovare parole migliori per chiudere un’altra serata da mandare agli annali.

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