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Hall of Famer

The Sickers, i peggiori di sempre

Uno sconsolato Hal Greer, in primo piano, segue l’ennesima sconfitta dei Sickers

Sam Hinkie non dev’essere un uomo a cui vadano particolarmente a genio i compromessi e le mezze misure. Dietro quell’aria bonaria e un po’ sorniona, da Neville Paciock prestato alla dirigenza sportiva, si cela un personaggio da bianco o nero, mai da grigio, come grigi erano i Philadelphia 76ers al suo approdo nella Città dell’Amore Fraterno nel 2013: roster da media-bassa Eastern, che nel migliore delle ipotesi poteva sperare in un primo turno playoff, ma non così disastroso da poter ambire alle posizioni più alte al Draft in caso di mancata qualificazione. Qualche elemento buono e di prospettiva c’era pure, ma l’ex delfino di Daryl Morey, GM di Houston a sua volta non esattamente campione di prudenza e riflessività, non ne ha voluto sapere e nel giro di un mese ha smembrato la squadra, nel tentativo di costruire letteralmente da zero un gruppo in grado un giorno di competere per il titolo, altroché primo turno e gioirne pure. Il progetto a lungo (lunghissimo?) termine pare avere un senso, ma la conseguenza immediata è stata un roster attuale per buona parte da D-League, deliberatamente infarcito di giovani più o meno promettenti, scaldapanchine NBA e lungodegenti, mandati allo sbaraglio senza remora alcuna al solo scopo di aumentare il più possibile le palline con il 76 alla Lottery.

 

La faccia del tipico dirigente squalo che non accetta compromessi

L’inizio non è dei più promettenti, nel senso che questi contro ogni aspettativa vincono anche troppo; poi, forse richiamati all’ordine da Hinkie, che scambia anche il miglior realizzatore Evan Turner per paura di vincerne troppe, la stagione naufraga in un bel 19-63 ben più consono ai progetti del GM.

Annata dunque ottima per i propositi dell’ex dirigente di Houston, un po’ meno per gli annali. I quali comunque premiano questi Sixers solo con l’argento nella classifica dei peggiori record di franchigia. Quando proprio a Houston questi Sixers con un buon -22 pareggiano la striscia più lunga di sconfitte nella storia NBA detenuta dai Cavaliers post Decision a quota 26, i paragoni si sprecano; ma il record finale li terrà comunque piuttosto lontani da quelli che furono ribattezzati Sickers. Perché quella versione della squadra non era necessariamente scarsa, era soprattutto sick, malata: tanto da passare alla storia non solo come la peggior versione della franchigia di Philadelphia, ma addirittura come peggior squadra della storia della NBA.

 

Il passaggio tra anni ’60 e ’70 non fu esattamente il più facile che la storia del Novecento ricordi. I Sixties si chiusero con un ampio movimento di protesta giovanile, e il decennio successivo si aprì nel segno di quelle tensioni latenti, aggravate da crisi energetiche, guerre sporche, scandali politici senza precedenti. Non faceva eccezione la NBA, che con i ritiri di Bill Russell e Wilt Chamberlain e la contemporanea concorrenza della ABA inaugurava un periodo di sostanziale stagnazione che si sarebbe concluso solo negli ’80 con la Nouvelle Vague di giovani talenti e una struttura organizzativa finalmente consona a una grande lega professionistica. Non giovò nemmeno la prima sconfitta di Team USA alle Olimpiadi di Monaco del 1972, arrivata peraltro con gli odiati rivali sovietici; ma la stagione che seguì quel trauma fu comunque destinata a rimanere nella storia. Perché fu l’ultima di Chamberlain. Perché vide l’ultimo titolo vinto dai New York Knicks. E perché riscrisse il concetto di mediocrità con un record in seguito mai nemmeno avvicinato.

La parte della stagione preferita da Chamberlain: i festeggiamenti

 

Anche per i Sixers il passaggio tra i due decenni non fu fortunatissimo. La squadra di Philadelphia aveva infatti vinto il titolo nel 1967, grazie a una squadra che poteva contare proprio sul citato Chamberlain, affiancato addirittura da altri tre Hall of Famer come Billy Cunningham, Hal Greer e Chet Walker. Ma proprio lo Stilt, mai banale, era in rotta con la nuova proprietà, che non voleva concedergli le quote societarie promesse dal precedente proprietario, e nel giro di un anno, con la minaccia di andare in ABA lasciando così i Sixers a mani vuote, forza la cessione ai Lakers in cambio di 3 giocatori (Darrall Imhoff, Archie Clark e Jerry Chambers, non esattamente dei Robertson…) che avranno un impatto praticamente nullo a Phila, venendo presto ceduti (Chambers nemmeno indossò mai la casacca della squadra). Lo segue a ruota Walker, anch’egli malauguratamente spedito a Chicago nel 1969; persi i pilastri, il problema grosso diventa però il ricambio, visto che il Draft tanto amato da Hinkie in 5 anni non porta sostanzialmente nulla alla causa: il migliore della nidiata di fenomenali prime scelte di quel lustro fu tale Al Henry, scelto alla 12 nel ’70, ritirato nel ’72, media carriera di 4 punti a sera.

 

Anche il coach del titolo, Alex Hannum, lascia già la stagione successiva per stare più vicino alla famiglia sita in California, e viene dapprima sostituito dal GM, Jack Ramsay. All’inizio bene, poi, dopo una stagione 1971/72 da 30 vittorie e prima assenza dalla post season nella storia della franchigia, il recentemente compianto Jack avverte probabilmente aria di catastrofe imminente e se ne va per altri lidi, che lo porteranno fino al Larry O’Brien coi Blazers nel ‘77. A Phila invece la sua partenza genera un certo caos, testimoniato dal fatto che per assoldare il nuovo coach, dopo i rifiuti di Al McGuire di Marquette e Adolph Rupp di Kentucky, viene messo un annuncio sul giornale, neanche cercassero la baby sitter per i figli. Risponde un allenatore di college che da 11 anni sta ottenendo più che discreti risultati a Long Island e vorrebbe tentare il grande salto: si chiama Roy Rubin, è un esordiente nella Lega, ma ottiene comunque il posto. Billy Cunningham, star della squadra che sta seguendo con una certa preoccupazione gli sviluppi, è talmente soddisfatto che il giorno stesso lascia la barca che affonda mettendo in pratica la vecchia minaccia di Chamberlain: accordandosi cioè con i Carolina Cougars in ABA.

Lo sdoganatore del fist bump, nonché noto fumatore, Fred Carter

 

Che ci sarà da soffrire, per usare un eufemismo, è abbastanza palese a tutti il primo giorno di training camp. Non aiuta l’atteggiamento di Rubin, che si presenta come sergente di ferro dedito alla disciplina, salvo lasciare subito concessioni ai giocatori maggiormente di spicco (emblematico il permesso di fumare accordato alla stella designata Fred Carter dopo averlo espressamente vietato agli altri), giocandosi così la credibilità ancor prima d’iniziare. Va anche peggio quando effettivamente si comincia: il povero Roy ci mette un mese di regular season e 15 partite prima di festeggiare la sospirata prima vittoria tra i professionisti. Esulta a tal punto da stirarsi il quadricipite.

Che sia inadeguato non c’è il minimo dubbio (propone una zona 1-3-1 antiquata anche per l’epoca), ma il roster, costruito alla bell’e meglio e orfano anche di Cunningham, non è che sia esattamente da titolo: il go-to-guy come detto è la guardia Fred Carter, figlio di Philadelphia soprannominato emblematicamente The Mad Dog e famoso più per aver reso popolare il fist bump al di fuori della comunità afro che per i pur discreti meriti cestistici. Intorno a lui, sostanzialmente unico intoccabile, ruotano durante quell’incredibile stagione qualcosa come 18 giocatori, un’infinità per l’epoca, nel vano tentativo di raddrizzarla in qualche modo: Bill Bridges, ruvida ala forte sottodimensionata tipica degli anni ‘70 (tuttora detentore del record di falli per singola stagione con un rispettabilissimo 366 nel ‘67/’68), dopo le prime 10 sconfitte viene mandato a Los Angeles per il centro Leroy Ellis e l’ala John Q. Trapp. Poi sarà la volta di John Block, PF da oltre 17 di media spedito a Kansas City per Tom Van Arsdale, che terrà medie personali e di squadra sostanzialmente identiche. Ci sarebbe ancora il vecchio play Hal Greer, l’ultimo eroe del titolo del 1967, ormai agli sgoccioli e condannato a chiudere la carriera in modo tanto inglorioso; in regia spazio dunque al non indimenticabile rookie Freddie Boyd. Tanti movimenti, ma risultati invariati: sconfitte, sconfitte e ancora sconfitte.

Alcune emblematiche espressioni di coach Rubin

Nelle 51 partite prima dell’All Star Game coach Rubin arriva a fatica al poker di doppie vu, confermando la non proprio eccelsa adattabilità degli allenatori di college al mondo NBA. In compenso la sua pittoresca esperienza è ricca di aneddoti: come quando John Q. Trapp esce accusando un infortunio dopo uno scontro con Loughery (suo compagno di squadra), per passare poi il resto della partita a sorseggiare barboun in panchina. O come quando lo stesso Trapp sta sparacchiando e Rubin lo richiama dunque in panchina, ma l’ala si rifiuta di uscire, indicando le tribune; quando il malcapitato coach si gira scorge sugli spalti un amico di Trapp  che scosta teatralmente la giacca per mostrargli il classico ferro. “Continua pure Johnny, come se niente fosse” “Grazie coach”.

L’esonero durante la pausa per l’All Star Game è quasi un sollievo. L’esperienza è così traumatica che Rubin chiuderà definitivamente col basket per andarsene nella nativa Florida a vendere puncake: il suo record tra i professionisti recita un clamoroso 4-47 che non raggiunge l’8% di vittorie.

Loughery versione coach con tanto di fluente chioma anni ’70

Giocata la carta annuncio sul giornale, ai Sixers non resta che optare per l’allenatore-giocatore, promuovendo sul campo il 32enne Kevin Loughery, che se possibile ha ancor meno autorità sullo spogliatoio del predecessore. Si parte con l’ormai tradizionale 0-11 per ingranare (che sommato alle 9 con cui aveva chiuso Rubin porta la striscia di sconfitte a quota 20), ma poi ha la fortuna di avere una reazione dai suoi nel momento in cui si accorgono che stanno per entrare nella storia, ma dalla parte decisamente sbagliata. A febbraio per ben 2 volte vincono 2 gare di fila, uscendo clamorosamente vincitori anche con squadre come i Bucks di Jabbar e Robertson e i Knicks di Reed e Frazier, campioni uscenti. Ma è un fuoco di paglia, a marzo sono altre 13 sconfitte filate per chiudere l’epica stagione e la Storia iscrive questa squadra tra i propri annali: sono 9 vittorie e 73 sconfitte, per una percentuale dell’11%.

 

L’assenza di Lottery in quel periodo porta alla più meritata delle prime scelte assolute al Draft, che si tramuterà in Doug Collins. Ma è nel bicentenario dell’indipendenza americana, che dà pure il nome alla franchigia, che accade il miracolo, visto che la ABA chiude baracca e burattini e i 76ers si aggiudicano il suo giocatore più rappresentativo, Doctor J Julius Erving; un anno dopo Philadelphia è di nuovo in Finale (persa coi Blazers di Ramsay), quattro anni dopo la peggior stagione di sempre.

I Sickers insomma tornarono presto Sixers; ma quella stagione ovviamente non si poté più cancellare. “Eravamo la panacea della Lega: se una squadra attraversava un brutto periodo, giocare contro di noi era il modo migliore per riprendere fiducia” ironizza, a distanza di anni, l’eroe solitario di quel team, Fred Carter, ventello di media nel deserto in perfetto Ricky Davis style. E paradossalmente, furono anche la panacea dell’intera NBA, in un periodo non facile della propria storia: se lo Spectrum infatti era tendenzialmente disertato, in giro per la Lega nessuno voleva perdersi i Sickers, vedere quanto avrebbero perso ancora, e finirono così per avere quasi più seguito di Chamberlain nel suo ultimo anno. Perché non è facile vincere, ma nemmeno essere i peggiori: e infatti solo i sempre competitivi Charlotte Bobcats riuscirono nel 2012 a ritoccare la percentuale più bassa (7-59 nell’anno del lockout, 10.6%), mentre nelle annate complete nessun altro andò al di sotto delle 11 vittorie.

 

Insomma, Hinkie può rivoltare la squadra finché vuole e mettere in campo i peggiori elementi possibili: nonostante l’accorata difesa ancora di Mad Dog (recentemente ha dichiarato che secondo lui “i Sixers di questa stagione sono peggiori anche di noi”) sarà veramente difficile battere il record negativo di franchigia. Certo che, dopo aver perso Wiggins, perché purtroppo per loro oggi la Lottery c’è, la scelta è stata rimandare ancora la risalita chiamando altri giocatori che non scenderanno nemmeno in campo per un po’ (Embiid, infortunato, e Saric, che rimarrà in Europa), a cui si aggiunge la sempre ventilata cessione di Thaddeus Young. A Hinkie non piaceranno le mezze misure, ma le sfide evidentemente sì…

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