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“I’m back”, il fax più famoso di sempre

Strike, out!” Che dura la vita nelle Minors di baseball, a stare attenti a velenose palle lanciate da atleti pressoché sconosciuti. Dura la vita ad indossare le maglie dei Birmingham Barons o degli Scottsdale Scorpions, costretti ad interminabili viaggi in pullman e giocare davanti ad un pubblico non sempre d’eccezione.

Forse però, tutto questo era una sorta di benedizione, a bless in disguise come dicono negli States. Perché la vita, prima di questa tappa sui diamanti “di periferia”, aveva preso una brutta piega. Essere sempre, costantemente, illuminati dalla luce dei riflettori, alla lunga può avere controindicazioni, anche se guadagni banconote in verde come se piovessero e sei diventato, semplicemente, l’atleta più conosciuto del mondo. Troppe le pressioni, troppi gli scompensi all’interno del quotidiano, che necessitavano ora di una netta presa di posizione. E Michael aveva detto basta.

Michael Jordan si era ritirato dalla pallacanestro.

Ottobre 1993, a pochi giorni dal via dell’ennesimo training camp. In una conferenza stampa seguitissima, MJ annunciava la sua intenzione di abbandonare l’NBA. La decisione era già nell’aria da tempo, a dire il vero. La fama e l’impossibilità di vivere “normalmente” lo avevano dilaniato. A peggiorare la situazione, la vicenda-scommesse, con alcuni libri ed interviste che delineavano un profilo di His Airness fino ad allora sconosciuto, schiavo del gioco e debitore di svariate migliaia di dollari. E poi, tra capo e collo, ecco abbattersi la notizia peggiore possibile. Subito dopo la conquista del Three-Peat, il padre di Michael, James, venne trovato senza vita. Colpa di due balordi che volevano rapinarlo, dichiarò la polizia. Ma per Jordan era arrivato il segnale definitivo per dire basta a tutto il mondo che lo aveva reclamato protagonista già da anni e anni. Con una decisione sbalorditiva, si ripromise che avrebbe provato ad essere il giocatore di baseball che suo padre aveva sempre sognato che diventasse. Anche se ciò avrebbe comportato ben pochi di quegli agi e di quei dollari di cui aveva goduto negli ultimi anni. Che dura la vita nelle minors.

Michael cercò di adeguarsi alla nuova situazione. Fu rinfrancato dal cameratismo e dallo spirito dei propri poco conosciuti compagni di squadra. Con la dedizione e l’intensità che lo hanno sempre contraddistinto, si impegnò ad eccellere anche sul diamante. C’è chi giura che, con i giusti allenamenti ed un po’ di tempo, sarebbe riuscito ad arrivare nella MLB con i Chicago White Sox, l’ovvia squadra di riferimento. Eppure era chiaro che quel ritiro, quella fuga, erano stati imperfetti, troppo frettolosi.

Era chiaro che a Micheal la palla a spicchi mancasse da morire. Da spettatore vide i suoi Chicago Bulls confezionare un’ottima annata, arrivando ad un passo dalle Finali di Conference nonostante le bizze di Scottie Pippen. Vide l’ascesa di un nuovo, o quasi, protagonista che sembrava essersi preso di forza il ruolo di leader della Lega, quell’Hakeem Olajuwon che voleva legittimare ora quella scelta al Draft dei Rockets nel 1984, proprio due posizioni prima di MJ. Eppure non aveva visto chi potesse competere con il vero Jordan all’apice del rendimento.

Non l’aveva visto quando, nell’estate del’94, dominò in una partita di beneficenza organizzata da Pippen al Chicago Stadium, prossimo alla demolizione, chinandosi poi a baciare il simbolo della squadra al termine della partita. Non aveva percepito un cambiamento generazionale nemmeno quando il proprio numero venne ritirato nell’autunno dello stesso anno, né tanto meno quando venne inaugurata una statua in suo onore al di fuori del nuovissimo United Center. Quella sacra fiammella della competizione, invece che affievolirsi, stava riprendendo vigore.

Le gesta di MJ sui campi da baseball ebbero fine all’inizio del 1995, a causa di uno sciopero che aveva messo a repentaglio l’intera stagione. Le voci di un suo ritorno si intensificarono, così come alcuni allenamenti segretissimi per riprendere la confidenza necessaria con la palla a spicchi. In una gara di regular season, Pippen, accortosi di essere ripreso da vicino da una telecamera, alzò la scarpa, indicò il celebre logo della Nike di uno Jordan stilizzato, e fece un chiaro gesto con le dita ad invitare il compagno a tornare sui parquet. Poi, il 18 Marzo 1995, ecco arrivare il tanto agognato annuncio.

I’m back. Ritorno. Un comunicato laconico ma efficace, spedito via fax e che metteva fino a quell’anno e mezzo sabbatico. Jordan era tornato nella NBA.

La sera successiva, esattamente 19 anni or sono, andava in scena la prima gara di MJ dalle 1993 NBA Finals. Avversari di turno gli Indiana Pacers di Reggie Miller, in una Market Square Arena infuocata ma che tributò una calorosa ovazione al figliol prodigo. Michael decise di indossare il numero 45, dato che, per questioni burocratiche, il vecchio 23 non poteva essere riutilizzato per quella stagione. La partita, seguitissima in televisione, vide i Bulls sconfitti in overtime e Jordan chiudere con 19 punti, frutto di un pessimo 7-28 dal campo. A parte la prevedibile ruggine, in molti si era instillato un dubbio: era possibile che ad MJ fosse sparita la magia di tutti gli anni precedenti?

La risposta non tardò ad arrivare, fragorosa come era lecito aspettarsi. Il 25 Marzo Chicago è di scena ad Atlanta. La formazione dell’Illinois è sotto di uno ad una manciata di secondi dal termine ma ha il possesso. Michael prende il pallone, percorre il campo ed in faccia a Steve Smith si prende il tiro mentre suona la sirena. Solo rete. Vittoria Bulls. Il pubblico della Georgia, tutt’altro che ostile, è in visibilio. Tre sere dopo altra trasferta, questa volta al Madison Square Garden contro gli ostici New York Knicks. Jordan ha sempre fatto del male alla Grande Mela, quasi fosse un novello Godzilla o King Kong, noti distruttori degli edifici della città. Per non essere da meno, anche in quell’occasione MJ si scatenò. Fu semplicemente immarcabile. 55 punti, il double nickel, alla sesta partita dal rientro dopo l’inattività. Irreale. Per la seconda gara di seguito si andò all’ultimo tiro. Col punteggio in parità, forte di tutti quei canestri che avevano tormentato NY, Michael andò in penetrazione ma, stupendo tutti, scaricò la palla al liberissimo Bill Wennington che, indisturbato, segnò il canestro della vittoria. Era cambiato qualcosa in Jordan. Era sicuramente un po’ meno esplosivo ma sembrava possedere una fiducia nei compagni ed una comprensione del gioco ulteriormente migliorate. Una prospettiva terrificante per gli avversari.

Chicago, che a metà Marzo aveva un record in parità, chiuse la regular season con 13 successi in 17 gare disputate da Michael, che terminò il suo primo rientro a quasi 27 punti e 7 rimbalzi di media. Nonostante il fattore campo avverso, c’era un’attesa spasmodica per vedere il cammino dei Bulls nella postseason.

48 punti, 9 rimbalzi e 8 assist. Questo il pesante tributo che in gara-1 MJ richiese ai propri avversari al Primo Turno, gli Charlotte Hornets, una pratica che venne archiviata in 4 incontri. Alle Semifinali di Conference, alquanto improbabili sino ad un mese prima, ecco gli Orlando Magic, trascinati dalle due giovani superstar, Shaquille O’Neal e Penny Hardaway. Gara-1 in Florida è tiratissima, Chicago gioca sulle ali dell’entusiasmo e contro ogni pronostico. Col punteggio in bilico Jordan, autore di una prestazione tutt’altro che memorabile, si fa rubare palla da Nick Anderson, che propizia così il contropiede vincente dei padroni di casa. La magia sembra finita. Lo stesso Anderson, in conferenza stampa, dichiara che questo 45 è bravo, ma il 23 era tutta un’altra cosa. Indispettito da tali parole, ferito nell’orgoglio e desideroso di riscatto immediato, Michael decide di tornare al vecchio numero, incappando nella puntuale multa della Lega. MJ effettivamente sembra trasformato, segna 40 punti in una gara e 39 in un’altra, ma non c’è niente da fare. I Magic, lottando e di misura, vincono per 4-2 la serie. Il Re è stato costretto ad abdicare. Si concludevano così 60 giorni paragonabili, per frenesia e concitazione, ai 100 di Napoleone tornato dall’esilio nell’Isola d’Elba.

Jordan non perdeva una serie di Playoffs da gara-7 coi Pistons nel 1990. Lì, tra la difesa dei Bad Boys e l’emicrania di Pippen, aveva subito l’ultima sconfitta nella postseason con Chicago. Ed ora, nonostante tante ottime prestazioni, veniva di nuovo messa in discussione la supremazia di MJ sul resto della Lega. Sarebbe riuscito a riprendersi lo scettro di Imperatore della NBA? Quella Waterloo contro i Magic avrebbe avuto ripercussioni sul prosieguo della carriera?

Il resto, come noto, è storia. MJ, di slancio, evitò per il successivo triennio la propria personalissima Sant’Elena. In una rapida carrellata di immagini, davanti ai nostri occhi passano le 72 vittorie del 1996, il titolo vinto contro i Sonics, il Flu-game e The Shot, il momento che forse, più di tutti, sublima l’effettiva essenza di Michael Jordan. Eppure, nonostante la caduta contro i Magic, quel ritorno nel 1995 fu strumentale allo spirito di rivalsa e competizione di MJ, quel passo falso indispensabile per tornare più forte di prima e più forte di tutti, come poi puntualmente avvenne. E senza il fax più famoso della storia della pallacanestro, la Leggenda del più grande di sempre sarebbe rimasta sicuramente incompleta.

Alessandro Scuto

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