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Wilt, l’irraggiungibile-seconda parte

La storia e la vita Wilt Chamberlain, uno dei centri più forti nella storia della NBA.

Gli alti e i bassi nella vita di Wilt Chamberlain sono stati un denominatore comune che lo hanno accompagnato per tutta la sua permanenza su questa Terra. A grandi trionfi sono seguiti repentini fallimenti, con la mancanza di una costanza di fondo, segnata da ripetuti successi. Se fuori dal campo ormai Wilt era visto come un’icona assoluta di una comunità nera che stava, con molta fatica, raggiungendo le prime forme di emancipazione, sul parquet le cose continuavano a non mettersi per il verso giusto.

E’ tramite questa chiave di lettura che si può provare a spiegare come, la stagione seguente all’annata dei record, i Warriors non disputarono i Playoffs, chiudendo con un mesto 31-49. Chamberlain fu nuovamente un iradiddio, chiudendo con quasi 45 punti di media, più i canonici 24 rimbalzi catturati ad incontro. C’è un altro fattore, assolutamente da non trascurare. Per problemi finanziari la franchigia dovette trasferirsi a San Francisco, perdendo molti pezzi-chiave che rifiutarono la nuova destinazione.

Nella stagione 1963-64 entra in scena un altro degli attori principali di questa vicenda, coach Alex Hannum. Ex-militare, ritratto del tipico sergente di ferro, Hannum era stato l’allenatore dei St. Louis Hawks capaci di vincere il titolo nel 1958 alle spese dei Celtics. Con una forte e rispettata guida dalla panchina, Chamberlain si accontentò di qualche tiro in meno, avendo come gradita ricompensa l’arrivo alle NBA Finals. Il copione però fu sempre il medesimo: Wilt sconfitto e Bill, inteso come Russell, a vincere l’ennesimo titolo di una straordinaria carriera. Come annunciato in apertura di questo pezzo, la costanza era quella che mancava per raggiungere i risultati sperati. Nell’annata successiva San Francisco partì malissimo e, per problemi finanziari, fu costretta a vendere Chamberlain ai Philadelphia 76ers nel bel mezzo della regular season.

L’ennesimo ritorno nella terra natia fu circondato da grandi speranze. I Sixers avevano un bel nucleo, capitanato dal futuro Hall of Famer Hal Greer. Nonostante qualche iniziale problema di chimica di squadra, ed un allenatore, Dolph Schayes, non particolarmente rispettato dal numero 13, Philadelphia riuscì ad arrivare sino alle Finali dell’Est contro i soliti sospetti, i Boston Celtics. Dopo essersi divisi la posta in palio nei primi 6 episodi della serie, si arrivò a gara-7, una delle più famose dei playoffs NBA. In un vero scontro tra Titani di stampo mitologico greco, Wilt fece registrare un doppio 30, Bill una quasi-tripla doppia. Col punteggio in parità negli ultimi possessi, il centro di Philadelphia fece tornare sotto i suoi. Russell commise un errore non da lui, sbagliando la rimessa e regalando, di fatto, la palla della vittoria ai 76ers. Nelle concitate fasi successive, con la paura di un fallo intenzionale su Chamberlain, Greer battè la rimessa ma Havlicek capì tutto, intercettando il pallone per la gioia dei tifosi e dell’incontenibile radiocronista dei Celtics, Johnny Most. Ancora una volta aveva vinto lui, Bill.

Gli atteggiamenti di Wilt, eccezion fatta sul parquet, iniziarono col tempo a peggiorare. Nell’Aprile del 1965 uscì una sua intervista pepata, “My Life in a Bush League”, in cui sparava ad alzo zero sul resto della Lega. L’insofferenza verso gli allenamenti, gli shootaround e tutto ciò che non riguardasse la gara si fecero via via sempre più frequenti, con i compagni che non vedevano di buon occhio tutta la vicenda. Amante della bella vita, delle ore piccole e delle donne, l’unica, vera grande costante nella sua esistenza, Chamberlain decise di vivere a New York spostandosi a Phila solo per le partite e gli, eventuali, allenamenti. Con una situazione del genere, è facile capire come i 76ers non riuscissero a fare tanta strada. Anche l’annata successiva alla rubata di Havlicek, la corsa di Philadelphia si fermò nella postseason contro Boston. Wilt quell’anno fu sempre straordinario, vincendo il suo secondo MVP. In un’occasione stoppò con tale violenza una schiacciata di Gus Johnson da provocargli una slogatura alla spalla. Una figura dai contorni così mitici, che incuteva timore agli avversari ancor prima di scendere in campo, si perdeva nel proverbiale bicchiere d’acqua quando il gioco si faceva duro. L’ennesima sconfitta contro Russell, con tanto di allenamenti saltati nel mezzo della serie, fu la goccia che fece traboccare un vaso già stracolmo. C’era bisogno di un cambiamento.

All’inizio della stagione 1966-67 a guidare i Sixers venne chiamata una vecchia conoscenza del numero 13, Alex Hannum. Il coach, anche lui prestante fisicamente, non si tirò indietro nel momento di dire in faccia a Wilt come stavano le cose. Ci fu tensione iniziale, si sfiorò la crisi diplomatica e le mani addosso, ma Chamberlain alla fine capì. Capì che era giunto il momento di tirare di meno, di coinvolgere di più i compagni, di mettere da parte l’ego. Capì che era giunto il momento di vincere. Per la prima volta non si aggiudicò la classifica marcatori, una tendenza che da lì in poi mantenne sino al termine della carriera. Al contempo, i rimbalzi, tanti, rimasero immutati, aumentarono gli assist, la percentuale di realizzazione e gli apprezzamenti verso gli altri Sixers. Risultato dell’equazione fu il terzo MVP nel personale albo d’oro. E, cosa ben più importante, nei Playoffs questa volta non fallì. I Celtics furono finalmente sconfitti per 4-1, la loro prima serie persa dopo 8 titoli consecutivi. Chamberlain fu semplicemente devastante, a suon di triple e quadruple doppie che soverchiarono gli avversari. Uno sportivissimo Russell, così come diversi compagni, gli fecero sentiti complimenti.

In Finale, Wilt trovò la sua vecchia squadra, i Warriors, trascinati dal giovane Rick Barry. Prendendosi cura di difesa e rimbalzi, chiudendo con meno di 20 punti di media, Chamberlain vinse il suo primo titolo NBA, chiudendo una stagione trionfale con i Sixers che compilarono uno dei migliori record della storia, 68-13. La scimmia era stata tolta dalla spalla, l’anello di campione era suo e nessuno poteva più toglierglielo.

Nella regular season successiva Wilt continuò a strabiliare; il suo carisma, la sua figura e, cosa non da poco, la sua prima vittoria lo avevano elevato a simbolo di uno sport che raccoglieva sempre più seguaci. Chamberlain vinse il suo quarto MVP, terzo consecutivo, raggiunse la soglia dei 25,000 punti e, incredibile per un centro, fece registrare il più alto numero totale di assist. Nella postseason, però, gli infortuni complicarono la vita a Philadelphia. Ancora una volta i destini di Chamberlain e Russell si incontrarono, per l’ennesima finale dell’Est. Prima di gara-1 ci fu l’assassinio di Martin Luther King, che sconvolse l’intera comunità afro-americana. In una gara che rischiava la cancellazione e dai toni chiaramente annacquati, a prevalere fu Boston; nondimeno, i 76ers vinsero le 3 gare successive. Mai nessuno aveva rimontato sotto 1-3 in una serie. Mai nessuno fino ad allora. Incredibilmente, Philadelphia dilapidò il vantaggio accumulato, soccombendo in casa nella decisiva ultima sfida. Wilt prese sì una trentina di rimbalzi, ma segnò solo 14 punti, senza tirare nella ripresa. Il trionfo, le celebrazioni, l’estasi di soli 12 mesi prima erano di nuovo un lontano ricordo.

Gara-7 del 1968 fu l’ultima partita in maglia Sixers di Wilt Chamberlain. Nell’estate successiva una combinazione di beghe contrattuali unita al sempre crescente desiderio di godersi la vita fuori dal campo, lo spinse a chiedere una trade. Per lui si aprirono quindi le porte di Los Angeles, sponda Lakers.

Vittima sacrificale, al pari di Philadelphia, dei Boston Celtics, i giallo-viola avevano assemblato uno squadrone, con la speranza di vincere il primo titolo dai tempi di Minneapolis. Chamberlain, ormai 32enne, aveva realizzato che c’era bisogno di sacrifici personali, vedi voce punti segnati, pur di rimpinguare un palmares che non rendeva degna giustizia ad un giocatore del suo calibro. Mentre fuori dal campo le conquiste amorose aumentavano a dismisura e veniva perfezionata la costruzione della villa personale a Bel Air, sul parquet le cose non giravano alla perfezione. Il rapporto col coach, William Van Breda Kolff, fu, per usare uno dei più grandi eufemismi ever, tutt’altro che idilliaco. Wilt, il mitologico Wilt, subì l’onta della panchina in alcune partite, proprio lui che aveva giocato più di 48 minuti di media in una stagione. Le medie finali si attestarono sempre sul 20+20, ma era chiaro che qualcosa non poteva funzionare. L.A. arrivò all’ennesima Finale, dove ad attenderla c’era la nemesi bianco-verde, giunta all’ultimo giro di giostra dell’epoca Russell. Vecchi, malandati, logori: la serie non sembrava esistere. Eppure il vecchio cuore Celtics trascinò i Lakers fino a gara-7. Prima dell’ultimo atto il proprietario dei giallo-viola, sicuro della vittoria, fece predisporre una serie di palloncini che dovevano servire al momento della celebrazione per il titolo. Mai arroganza fu così tanto invisa agli dei del basket e punita dagli stessi. Chamberlain semplicemente scomparve, così come aveva fatto per buona parte della Finale. Fu tenuto fuori gli ultimi sei minuti della contesa, col punteggio in equilibrio; aveva infatti chiesto di uscire per un lieve infortunio. E così, mentre Boston compiva l’ennesimo capolavoro, l’ultima gara della rivalità tra Bill e Wilt non ebbe il suo giusto e appropriato epilogo. Russell la prese malissimo, criticò Chamberlain come non aveva mai fatto, voleva sul campo il tributo alle tantissime battaglie che avevano avuto in quei meravigliosi anni.

Calava così il sipario sullo scontro leggendario tra i grandissimi protagonisti degli anni’60. Solo una volta il numero 13 ne era uscito vincitore. Con il chilometraggio NBA a trascorrere troppo in fretta ed un’età non più freschissima, restavano poche occasioni a Wilt per provare a bissare il titolo del 1967.

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