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Inside the NBA #9: Damian Lillard

A tutto Lillard: l’addio di Aldridge, le responsabilità crescenti, la maturazione umana e professionale, il business NBA e molto altro ancora

La puntata di questa settimana di “Inside the NBA” è dedicata a chi è stufo di sentir nominare Damian Lillard solo all’interno di discussioni legate alla convocazione all’All-Star Game. Breakaway, miniserie in formato podcast curata da Rob Mahoney di Sports Illustrated, offre uno spaccato di NBA con un punto di vista particolare.

  • Se si chiedesse a 10 giocatori di descrivere la routine della vita NBA, probabilmente si otterrebbero altrettante risposte diverse: “Molto ha a che fare con la fisionomia della squadra, che tipo di ragazzi hai attorno a te, che staff, dagli allenatori al front-office. Sono loro a modellare l’ambiente scegliendo chi far arrivare, chi lasciar andare, a seconda del contesto che vogliono creare.”
  • Nell’anno da matricola 2012-13, concluso con il premio di ‘Rookie dell’anno’, arrivò a Portland in punta di piedi: “Sin dal primo giorno mi sono guardato molto attorno, ho osservato. Quando mi sono fatto vedere per la prima volta, non parlavo molto. L’unica cosa che mi interessava era ricordare i nomi della gente, conoscere le mansioni e i compiti di ciascuno. Di nome conoscevo già tutti e avevo colto le loro tendenze di gioco perché seguivo attentamente la NBA. Mi interessava approfondire il rapporto con coach Stotts e il suo staff, che non avevo mai incontrato.”
  • La prima impressione è sempre importante, Lillard lo sapeva bene: “[…] Non hanno pensato: ‘Oh, guarda questo che arriva e si crede chissà chi.’ Volevo che sapessero che lavoro duro. Andai sul campo e così feci. Quando mi facevano delle domande sul mio conto rispondevo a tono, come dire, ‘Questo sono io’. Da lì in poi ho confermato le loro sensazioni. Era il momento di lasciare parlare i fatti, ed è stato così in questi anni. All’epoca davvero così semplice.”
  • Titolare della prim’ora a Portland, Lillard ha dovuto assecondare, per la verità senza troppe difficoltà, le necessità del perno della squadra a nome LaMarcus Aldridge: “Cercavo in continuazione un modo per [aiutarlo] ed essergli  complementare. Questo era il mio unico obiettivo, non certo fare della squadra una questione individuale e men che meno rubare la scena a qualcuno.
  • Ricorda l’entusiasmo travolgente con cui accolse la notizia dell’accordo con Portland: “Ai miei amici ripetevo ‘Sto per giocare con LaMarcus Aldridge, sto per giocare con LaMarcus Aldridge. Lui è un All-Star, questo, e quello. Capite?’ Ero entusiasta. Non vedevo l’ora che mi prendesse sotto la sua ala protettiva come un fratello minore. Pensavo [a quando] saremmo andati a cena in trasferta, saremmo usciti insieme. Mi avrebbe parlato della sua vita aiutandomi a raggiungere il mio livello nel ruolo di guardia. Ero convinto saremmo stati un 1-2 da K.O. Il miglior tandem della lega. Quello era il mio pensiero. Semplicemente non si è mai concretizzato.”
  • A distanza di qualche stagione, Lillard non ha cambiato idea sull’addio del texano: “Lo dico sempre: mi è piaciuto da matti giocare con lui. Penso che abbiamo fatto molto bene. Fosse dipeso da me, non avrei mai voluto che se ne andasse. Lo dissi a lui di persona e risposi così a ogni domanda sul tema. Quello era il mio stato d’animo. Volevo rimanesse perché ero convinto che avremmo potuto vincere un titolo assieme. Abbiamo avuto un buon rapporto, mai una litigata, mai in disaccordo. La gente ha sempre cercato di polarizzare il tutto come fosse un ‘me’e ‘lui’. Non abbiamo mai avuto un diverbio. Credo la nostra sia stata una di quelle situazioni in cui il gossip ha preso il sopravvento. La gente ha cominciato a dare per assodato questo e quello e poi, all’improvviso, quella è diventata verità”. 

La migliore risposta ai rumors

  • La fase di transizione post-Aldridge fu resa certamente meno brusca dall’esplosione del talento di C.J. McCollum, compagno ideale di Lillard in cabina di regia. La firma del rinnovo contrattuale fu solo una formalità e l’obiettivo era—parole del diretto interessato— “Plasmare un contesto duraturo e vincente nella NBA”.
  • Forte dell’esperienza pregressa con Aldridge, Lillard ha accettato progressivamente di fare un passo avanti, assumendo il ruolo di spirito-guida dello spogliatoio: “Quando Nurk è arrivato ha guardato a me … pensavo fra me: “Non voglio  farmi sfuggire un’opportunità del genere. Conosco l’impatto che posso avere su di lui. Voglio che sappia che ci sono.”
  • Status e reputazione, buona o cattiva che sia, non lo preoccupano: “È divertente per me perché quando arrivano nuovi in squadra mi guardano come a dire: “Ragazzi, quello è Dame Lillard.”  Mi considerano qualcuno. Qualcuno magari penserà anche fra sé: ‘Mi chiedo se è davvero così forte [come dicono].’ Vorrei sapere se la pensano così sul mio conto. Per quello che ho potuto vedere mi considerano tale e sento la necessità di influenzarli positivamente, facendo il possibile in svariate situazioni.”
  • Crede molto nel concetto di squadra e lo difende strenuamente: “Credo che il tutto sia rilevante perché frutto di un [lavoro] collettivo. Non devo fare il grande capo ed espormi con [frasi del tipo]: ‘Ok, questa è la nostra squadra, così si va d’accordo con i ragazzi.’ Non c’è bisogno di farlo perché sono tutte persone a modo. È divertente perché ogni volta che arriva un nuovo giocatore non facciamo tutti i convenevoli: ‘Benvenuto nella squadra’ o cose di questo genere. Li trattiamo come se fossero con noi da sempre”.
  • L’approccio sembra aver portato i suoi frutti, almeno stando alle parole di McCollum: “[…] Ci siamo sempre trovati bene. Tutti hanno detto la loro e nessuno aveva paura di dire certe cose. Se qualcuno aveva giocato male o non stava facendo le cose nel modo giusto, potevi affrontare il problema e nessuno avrebbe battuto ciglio o ti avrebbe guardato storto”.
  • Lillard prosegue argomentando: “È come se eliminassi tutti i mormorii o ripensamenti che  un giocatore potrebbe avere nell’approcciare a un nuovo spogliatoio perché, in automatico, vengono accettati per quello che sono. Bazz [Shabazz Napier, ndr] arriva e sarà se stesso. [Io] entro nello spogliatoio e sarò me stesso. Ed Davis sarà se stesso. Per un nuovo arrivato significa entrare con l’idea: ‘Ok, bene, non si stanno nascondendo. Questo ragazzo ha fatto/detto queste cose.’ Credo ci sia un livello di comfort che ottieni dal fatto che la gente si mostra per com’è, a prescindere dal tuo essere nuovo o dalle circostanze contingenti.”
  • Insiste sul tema della squadra: “Condividiamo molto del nostro spazio personale. Sei docce: condividi la doccia con quei ragazzi. Hai una vasca d’acqua calda e una fredda e un aereo. Dormi con loro. Lo spogliatoio. C’è molto di tutto questo — è così… sentimentale. Sanno molto di te. Stanno con te più della tua famiglia e per questo vuoi conoscerli a fondo, al di là di tutto”.
  • A Portland i nuovi innesti sono tempestati di domande: “È tipico della nostra squadra”. Cita l’esempio di Evan Turner, arrivato ai Blazers da free agent nel 2016. Per prima cosa segnalò che i membri della squadra non erano soliti indossare bigiotteria sul campo di allenamento, indicando i suoi orecchini.  “Gli chiesi – Com’è stato a Indiana? Sai cosa intendo? Perché ci sei finito, perché Philly si è sbarazzata [di te] – gli feci domande sulla sua situazione e lui le avrebbe fatte a me – Com’era giocare con LaMarcus?— È una conversazione per rompere il ghiaccio e avremmo imparato cose dell’uno e dell’altro in questo modo.”
  • Benedizione: “Mio padre, quando venni scelto al Draft, mi disse che una delle mille sfaccettature e possibilità che quella benedizione mi avrebbe offerto sarebbe stata quella di avere impatto sugli altri. Non sai mai quale possa essere su chiunque passi per lo spogliatoio.”
  • Si rivede nelle difficoltà di alcuni compagni ancora inesperti: “Tim Quaterman era un rookie da noi l’anno scorso. È arrivato ed era un tipo tosto. Non aveva un’idea molto chiara circa diversi aspetti che gravitavano attorno allo sport professionistico e veniva dal ghetto. E io, io sono di East Oakland. Colsi molto di lui. I suoi manierismi, la sua postura, il suo approccio alle cose. Sapevo da dove veniva il tutto perché così mi ero sentito anche io prima di accumulare esperienza al college e poi nella lega. Lo guardavo e sapevo di poter captare ciò che provava o stava pensando.”
  • Sente di essere arrivato a un punto di maturazione, innanzitutto dal punto di vista umano: “Le mie origini sono in me. Sono una parte importante […] di ciò che sono […] Penso che la cosa più importante sia la mia crescita nel passaggio da giovane ragazzo che era orgoglioso di quel ‘Sono di Oakland’, e ‘Sono un duro’ […] a una sfaccettatura più intellettuale, dove penso ‘Sì, sono pronto a tutto’. Sai, posso essere molto meglio di così. [Posso] fare il mio al tavolo con milionari o tornare al quartiere. È importantissimo essere in grado di fare entrambe le cose pensando che hai tutto dalle basi. Anche se le fondamenta sono super importanti, ci sono molte cose da costruire su di esse per diventare la miglior versione di te stesso.”
  • Nonostante abbia vinto il Magic Johnson Award, conferitogli dalla Professional Basketball Writers Association (PBWA) per l’approccio con addetti ai lavori, fatica ad accettare certe logiche speculative dei media: “Accendi la TV e la gente dice: ‘Bene, questa squadra dovrebbe fare questo, […] dovrebbero scambiare questo giocatore, sta danneggiando la squadra”. Da ciò scaturiscono anche situazioni di imbarazzo: “[Se mi chiedono un’opinione] poi penso che quel dato giocatore [tirato in ballo] ce l’avrà con me perché ho sostanzialmente insinuato che altri potrebbero fare il suo lavoro meglio di lui.”
  • Lillard vuole slegarsi in ogni modo da qualsiasi sorta di dualismo o confronto con C.J. McCollum: “Siamo due giocatori dominanti e abbiamo bisogno l’uno dell’altro per vincere in ogni caso. Perché dovrebbe essere rilevante chi è più forte? […] Sono dicerie che la gente alimenta  e tutti vi si avventano e vi ci fanno sopra un problema. [All’epoca] non era importante di chi fosse la squadra, mia o di LaMarcus. Non mi interessava, probabilmente nemmeno a lui. L’hanno messa giù così rendendola credibile ai più. […] Sono dinamiche che credo tutti conoscano.”

Complimenti sinceri

  • Business e contratti: “Abbiamo lavorato tutta la vita per trovarci in questa posizione. Non si tratta di voler fare i conti in tasca ad altri, ma vuoi essere ricompensato e massimizzare i guadagni prima della fine della carriera. […] Se esiste un momento in cui essere egoista credo sia quello [delle trattative di mercato], dove fai una scelta di vita personale.”
  • Il retro della medaglia: “Se l’organizzazione avesse l’opportunità di prendere LeBron James, mi scambierebbero, anche se stiamo benissimo insieme. Capisci? È una decisione legata al business che prenderebbero egoisticamente. Sono scelte che da leader vanno rispettate, in entrambe le situazioni e da ambedue le parti.”
  • Prosegue il ragionamento di cui sopra: “È una questione che affronto quotidianamente. Se so che un mio compagno sta avendo una grande stagione e sarà free agent in estate non mi faccio illusioni. Se la questione dovesse emergere nei discorsi, ne parleremmo francamente, senza nasconderci.”
  • Momento on fire, marzo 2016:Stavamo facendo fatica ed eravamo in un giro di trasferte a Est— sei partite in nove giorni. Stavo segnando 30 punti ogni sera perché eravamo in difficoltà e mi ero ripromesso di dominare e fare a pezzi gli avversari. […] Da leader mi viene già dato molto credito quando le cose vanno bene. Alcuni ragazzi, nelle piccole cose che fanno, non hanno la stessa considerazione.”
  • Ragazzo di sostanza: “[…] Alle parole faccio seguire i fatti, lavoro duramente, non mi tiro mai indietro in allenamento. I miei compagni sanno che quando segnalo qualcosa non lo faccio per egoismo.”
  • È un grandissimo amico di Tim Frazier, ora a Washington: “Era a Philly, venne tagliato, messo sotto contratto, tagliato di nuovo. Fece il training-camp con Boston e venne tagliato. Andò nell’allora D-League dove fu Rookie dell’anno e vinse l’MVP nello stesso anno. Con l’infortunio di Wes Matthews firmammo lui per il resto della stagione. […] È uno dei miei migliori amici, non solo nella NBA. […] D’estate sono sempre con lui e durante la stagione parliamo sempre. Mi scrive all’intervallo delle partite, uno guarda le sfide dell’altro. Di solito non esco con gli avversari, con lui andrei a cena anche la sera prima di una partita. Un anno andammo a pattinare dopo un match.”
  • Lillard conclude: “È super intelligente. Forse è destinato a fare il GM un giorno. Chissà, il mio lavoro potrebbe essere nelle sue mani. […] So di essere fortunato per il fatto di essere stato scelto alla lotteria del Draft, per essere un All-Star e avere un contratto al massimo salariale. È ciò che tutti sperano. Il fatto che molti ragazzi non godano di questi [privilegi] non toglie loro merito o importanza.”

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