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Cleveland Cavaliers

NBA Heroes: LeBron James [parte 2]

La seconda parte dell’incredibile parabola di LeBron James

(Se vi siete persi la prima parte potete trovarla cliccando qui)

I compagni come al solito lo cercano, e dopo aver ricevuto la sua partenza, con svizzera regolarità, lascia sul posto l’avversario diretto. Nonostante le gambe ancora piuttosto corte, con due soli palleggi ha già raggiunto il pitturato, e può dunque raccogliere quel pallone per lui gigante senza apparente fatica. Fa un passo con quel cocomero arancione fisso sotto la linea degli occhi, pronto per essere lanciato con due mani verso l’alto, dove vedrà come sempre solo tabellone e retìna; ma stavolta l’aiuto è arrivato più rapido del solito, e l’avversario esasperato non ci va certo per il sottile. Il contatto è duro, il ragazzino cade a terra, dal fischietto dell’arbitro non esce alcun suono. Si rialza stizzito e protesta con veemenza, mentre l’azione prosegue e gli avversari segnano; mentre la sua squadra sta tornando in attacco, non smette di parlare con quell’arbitro non di molto più anziano di lui, il quale non può far altro che mettere le due mani a forma di grande T. E’ benzina sul fuoco per il giovane talento locale, che costringe il coach a sostituirlo prima che la lettera gestuale si ripeta decretando la fine della sua gara. Dagli spalti, intanto, il pubblico avversario non si è fatto certo scappare l’occasione, coprendo di ululati di disapprovazione il giocatore che stava distruggendo la loro squadra.

Il padre del ragazzo resta seduto, in silenzio, e assiste alla scena con irreale distacco, mentre il pubblico continua a prendere di mira il figlio. E’ dispiaciuto, ma anche, per così dire, rallegrato, perché quel giorno il suo ragazzo sta imparando una lezione importante: essere il migliore in campo, o magari del torneo, o addirittura della nazione, comporta che ogni tua azione sia proporzionalmente criticabile e criticata. Soprattutto quelle controverse, discutibili, che la gente non comprende, che prendi di petto senza pensare alle conseguenze, a come gestirle, a come presentarle. Basta un errore e gli ululati, come in quella palestra, saranno assordanti.

Credits to: www.jonathanyurek.com

Credits to: www.jonathanyurek.com

Il lussuoso orologio appeso alla parete del grande e luminoso salone non fa quasi in tempo a segnare il primo minuto dopo mezzogiorno quando il cellulare comincia a suonare. Squilla per un po’ senza che nessuno risponda, poi smette. Il silenzio dura forse meno di un secondo prima che la suoneria riparta da capo con un’altra chiamata.

Seduto sul divano, il proprietario del telefono pare gustarsi quella canzoncina che continua a ripetersi sempre uguale a sé stessa, senza preoccuparsi minimamente di vedere i mittenti delle chiamate che si susseguono quasi senza interruzioni, né tantomeno di rispondere. Richiamerà certamente i gentili signori che lo cercano con tanta, seppur interessata, dedizione, ma sarà poco più di un pro forma: perché nella sua mente la Decisione è già stata presa da tempo.

 

Se l’estate 2006 rievoca infatti dolci ricordi negli sportivi italiani, non lo stesso si può dire per gli appassionati a stelle e strisce, in particolare per quelli della palla a spicchi. Team USA, come al solito favoritissima nel Mondiale che va in scena in Giappone, perde inopinatamente in semifinale con la Grecia, con coach K che in conferenza stampa dimostra di non conoscere nemmeno i nomi degli ellenici. E’ un altro bronzo, come due anni prima curiosamente proprio ad Atene, e la delusione è palpabile. In particolare per chi, da poco nella Lega, ancora non ha vinto né a livello di club, né con la Nazionale.

E’ in quel momento che tra tre esponenti della nouvelle vague NBA, esattamente come nella Roma tardo repubblicana, prende forma il Triumvirato. Ne fanno parte Chris Bosh, Lebron James e Dwyane Wade, l’unico ad aver vinto il titolo proprio quello stesso anno col Diesel nel motore. Tutti Draft class 2003 e in scadenza l’anno successivo, si danno altri tre anni nelle rispettive squadre, per poi darsi appuntamento al 2010, quando saranno free agent.

E proprio in quell’anno il rapporto tra Lebron e la sua città tocca il minimo storico. Con l’MVP in casa (e no, non è il pur volenteroso Boobie Gibson), i Cavs escono al secondo turno con i Celtics, mentre si rincorrono le voci di flirt tra Delonte West e Gloria James, e mentre il di lei figlioletto, dopo un’orribile gara 5, per la prima volta viene fischiato dal suo pubblico. L’idillio è ormai compromesso, James sente la claustrofobia di una città e una franchigia non in grado di metterlo nelle condizioni di vincere, unita all’ansia di riuscirci, di rompere quella che sta diventando una maledizione marchiata a fuoco nella sua fin qui comunque straordinaria carriera individuale. La quale, without rings, rischia di relegarlo nello scomodissimo posto di ottimo singolo, ma loser, non adatto ad arrivare in fondo.

Il primo luglio 2010, mentre il telefono squilla di continuo per le chiamate dei GM di mezza Lega, il Re ha già fatto la sua scelta. Una settimana dopo, Wade annuncia il ritorno a Miami, cui fa seguito l’annuncio di Bosh di passare anch’egli agli Heat; la sera successiva, in diretta TV nazionale, le labbra di Lebron Raymone James scandiscono l’iconica “this fall I’m going to take my talents to South Beach”.

Credits to: New York Daily News

Credits to: New York Daily News

Il dado è tratto, e nulla sarà più come prima. La NBA, in parte anche spaventata dal potenziale infinito di questi Heat, si ribella, e quasi unanimemente critica la decisione presa a tavolino di vestire la stessa maglia da parte di tre All Star emergenti. L’immagine dei triumviri, e in particolare del Cesare Lebron, non ne esce benissimo per usare un eufemismo, e non aiuta certo l’annuncio, alla presentazione della squadra, di voler vincere “not one, not two, not three…”, e via così fino a 7, titoli NBA. A Cleveland le maglie col 23 vanno letteralmente a fuoco, ma non è che nel resto della Lega siano viste molto più di buon occhio.

Ma come al solito, è il campo a parlare. Ovviamente gli Heat scherzano in stagione, volando in Finale con irrisoria facilità anche quando incrociano i Bulls dell’MVP Derrick Rose con il miglior record della Lega. A Ovest invece, dopo svariati upset nei vari turni, la spuntano a sorpresa i Dallas Mavericks, terza forza di Conference e, sulla carta, vittime sacrificali per il primo dei famosi seven di cui sopra. E invece, qualcosa si rompe: Lebron, dopo una stagione da 26.7 di media, chiude a soli 17.8 nella serie, con qualcosa come 3 punti totali nei 6 quarti periodi disputati. Dall’altra parte, l’imperatore tedesco non perdona, e Dallas mette la freccia dopo il suo buzzer in gara 4, chiudendo la serie 4-2 ed aggiudicandosi il primo e meritato titolo della propria storia. Per James, pizzicato anche a prendere in giro lo stesso Nowitzki dopo un attacco influenzale, è una disfatta inenarrabile: ormai è palese, non è un vincente. Il Re, dopo aver dominato la Lega in solitaria, stavolta è veramente nudo.

A 27 anni, di cui 8 passati nella Lega con due Finali disputate ed entrambe perse, la carriera di colui che doveva essere il Prescelto si trova davanti a un bivio: da una parte, continuare in questo modo e passare alla storia come il più forte loser mai visto, dall’altra reagire, evolvere ulteriormente il suo gioco già devastante. Passa l’estate a migliorare i movimenti in post con un altro che ha dovuto aspettare parecchio prima di vincere come Hakeem Olajuwon, e torna al via ricaricato, più aggressivo in area, accontentandosi molto meno del non sempre continuo tiro da fuori. I risultati si vedono subito, con l’ennesima stagione chiusa da MVP; ma come al solito è la post season il vero banco di prova. Miami vola ancora in finale di conference contro i Celtics dei più esperti Big Three, e si porta subito avanti 2-0. Poi, di nuovo, il crollo: 3 doppie vu consecutive per i biancoverdi, serie ribaltata sul 2-3 con la decisiva gara 6 da giocarsi al Garden. This is the end, gli Heat sono di nuovo a un passo dal baratro, a una sconfitta, peraltro probabile, che segnerebbe forse la fine prematura e ingloriosa dell’ambizioso progetto. Lebron è di nuovo di fronte ai suoi fantasmi, alla sua leadership che spesso, in carriera, finora l’ha tradito quando più contava. Ma la reazione arriva, e il Re torna a riprendersi il regno proprio in un tempio sacro della Lega: chiude a quota 45 con 19/26 dal campo, aggiungendo anche 15 rimbalzi. Tutti gli altri Heat insieme ne mettono 53: manda insomma al tappeto da solo la corazzata avversaria, una delle migliori difese della Lega, chiudendo partita e poi serie in gara 7. Ha finalmente sconfitto i suoi demoni, ha risposto presente (e che presenza) a un no tomorrow match, e i risultati, mentali prima che tecnici, si vedono subito, visto che le successive Finals con i Thunder del rivale Kevin Durant sono poco più che una formalità. Lebron Raymone James, il Prescelto divenuto Re, ha ottenuto anche la corona, si è tolto quel macigno che stava per schiacciarlo.

 

 (AP Photo/Charles Krupa)

(AP Photo/Charles Krupa)

Tutta un’altra vita senza il Mondo sulle spalle, e il novello Atlante può rialzarsi e giocare con una leggerezza mai vista: Miami domina in lungo e in largo la stagione chiudendo addirittura a quota 66 vittorie, piazzando anche una striscia di 27 consecutive, e Lebron fa il repeat al premio di MVP stagionale. Per il Larry O’Brien, invece, la strada ha una pendenza ben diversa, visto che i piccoli Heat faticano non poco ad aver ragione dei grandi e grossi Pacers di un tarantolato Paul George pre terribile infortunio, e poi dei soliti Spurs dell’astro nascente Kawhi Leonard, che con le sue leve infinite sembra fatto in laboratorio per marcare il Re. Di nuovo sotto 2-3, Lebron pare ormai averci preso gusto nelle gare 6 senza domani e piazza una tripla doppia, ma stavolta dovrà ringraziare sentitamente anche l’ex avversario ai Celtics Ray Allen per quel Tiro che forza l’overtime ed entra nella storia. Nella decisiva gara 7 invece ne mette 37 su ciò che resta degli Spurs mentalmente devastati proprio da The Shot, e dopo il repeat come MVP stagionale arriva anche quello come campione NBA e ovviamente MVP delle Finals.

 

E’ il punto più alto fin qui raggiunto da Lebron e dal progetto Big Three: la stagione successiva, complici parecchi infortuni e non poca stanchezza accumulata nelle ultime cavalcate (nel 2012, dopo il titolo, James sarà anche a Londra a prendersi l’oro olimpico), il sogno threepeat s’infrange sugli Spurs assettati di vendetta più di Di Caprio in Revenant. Il secco 4-1 con cui la banda di Popovich regola quella di Spoelstra ad un solo anno dalla sconfitta pare indicativo di come questa squadra abbia ormai intrapreso una fase calante, con un Wade sempre più acciaccato, un Bosh mai realmente inserito nel sistema se non come specialista stretch four, una serie di comprimari utili ma spesso avanti con l’età o con evidenti limiti tecnici. Anche Lebron ha per la testa un nuovo, complicatissimo tarlo: lui stesso infatti non si è mai del tutto perdonato il tradimento fatto alla sua città, alla sua gente, pur di inseguire quel maledetto titolo che non voleva saperne di andare verso i laghi del nordest. Ma ora che l’ha acciuffato, che ha imparato a vincere, che si è tolto questo peso immane, pensa di essere in debito verso Cleveland, e sogna di ripagarla dal baratro in cui il suo addio l’ha gettata negli ultimi anni con un’impresa titanica: portare un titolo professionistico nella Big Mistake on the Lake, una città sportivamente maledetta dove non si vince nulla, in qualsiasi sport, da mezzo secolo. Ad incoraggiarlo, una squadra, i Cavaliers, non certo da titolo (forse nemmeno da playoffs a Est…) ma in rampa di lancio, con una giovane star come Kyrie Irving, le ultime due Lottery vinte, margine salariale da spendere. E il suo contratto è in scadenza proprio in quell’estate del 2014… Gli astri sono insomma allineati, e anche stavolta il suo cellulare, a partire dal primo luglio, squilla a vuoto: dopo qualche giorno dall’inizio della free agency, in modo molto meno teatrale della Decision, annuncia via social il suo coming home.

Credits to: SI.com

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L’avvio della nuova avventura è in fase rodaggio, normale considerata la squadra completamente rivoluzionata; ma ormai è palese che a Est la squadra di Lebron va in Finale col volo diretto, anche senza Kevin Love per tutti i playoffs dopo l’infortunio al primo turno con i Celtics. Per i maligni, non una gran perdita nel gioco fisico e difensivista dello scacchiere di coach David Blatt, come invece lo risulta quella di Irving in gara 1 delle Finals con gli inarrestabili Warriors di Steve Kerr e dell’MVP Stephen Curry. Con il pur volenteroso Matt Dellavedova in cabina di regia, il Regno è piuttosto sguarnito e il Re, pur portandosi incredibilmente avanti 2-1 dopo 3 gare, alla fine deve cedere all’infinito roster avversario. E sa tanto di occasione persa a causa della sfortuna, visto che nella rivincita dell’anno successivo gli Warriors tornano ancor più rodati e competitivi, reduci dalla miglior regular season di sempre, simboleggiata dall’irreale stagione del di nuovo MVP Curry. Hanno mostrato qualche segno di stanchezza nei playoffs, ma sono una macchina da guerra, che annichilisce senza tanti problemi i malcapitati Cavs, pur stavolta al completo, portandosi avanti 3-1 nella serie. Di nuovo quel no tomorrow land, quei piedi tanto vicini al baratro da far scivolare giù i sassolini senza che si riesca ad avvertire il rumore dell’atterraggio, tanto è lunga la caduta; ma anche, di nuovo, quel territorio che ormai tanto piace al Re, che l’ha già fatto scattare in passato rendendolo artefice di gare memorabili. Con l’unico dettaglio che stavolta sono tre e non una sola… La prima è la più delicata, è in trasferta e serve vincere per tornare in Ohio. La sorte ci mette lo zampino, e arriva la squalifica per il calciatore Draymond Green proprio per quella partita, la quale, grazie agli 82 equamente divisi della coppia Irving-James, va ai Cavs. In Ohio, per gara 6, sono altri 41 per il Re, che costringe a riportare di nuovo il carrozzone in California, per l’ultimo e decisivo atto stagionale. Quello che, di nuovo, entra nella storia: tripla doppia da 27-11-11 per Lebron e una stoppata su Iguodala che diventa forse il gesto tecnico del decennio. Nessuno aveva mai ribaltato uno svantaggio di 1-3 in Finale nella storia, per di più contro una squadra da 73 vittorie in stagione: ma la storia è fatta per essere riscritta, i record per essere abbattuti, e pochissimi l’hanno cambiata tanto come Lebron Raymone James. Che ormai veleggia a livelli jordaniani senza che sia più eresia accostarne i nomi, e che è riuscito a infrangere persino la maledizione di un’intera città: Cleveland, this is for you, come quell’urlo che sa di liberazione unita a definitiva consacrazione nell’Olimpo della storia NBA.

 

Il ragazzino è rientrato in campo dopo qualche minuto a sbollire. Il pubblico lo punzecchia ancora, qualcuno fischia quando riceve, ma pare un’altra persona: concentrato, aggressivo il giusto, attacca ancora il ferro, e stavolta si protegge quando arriva l’inevitabile contatto. Canestro e fallo, uno sguardo appena accennato a quegli spalti, per poi andare verso la lunetta, incurante delle provocazioni avversarie.

Il papà non esulta, rimane seduto al suo posto, ma sotto la barba curata fa capolino un sorriso spontaneo. Oltre che talentuoso, è sempre stato sveglio, il piccolo Bronny. Nel corso di una singola gara, ha capito dove ha sbagliato, come non perdere il focus sull’obiettivo e ritrovare la concentrazione dopo le difficoltà. Forse, e gli piace pensarlo, ha imparato la lezione così in fretta anche grazie alle gesta del padre, di cui porta lo stesso nome, Lebron James Jr. Perché oggi è solo una partita tra ragazzini, domani magari sarà la finale NCAA, poi una free agency non facile da gestire, o il dover scendere in campo con tutto il peso di una città, di uno stato, del mondo sulle spalle. Non sarà facile, di sicuro, ma quantomeno troverà un percorso già spianato da un padre che prima di lui ha rischiato di essere schiacciato da quello stesso peso, dalla responsabilità del proprio infinito talento, ma ha imparato col tempo il modo migliore per sorreggerlo. Fino a farne la propria forza, fino a tenerlo sul dito di una mano, come una palla da basket, ancora enorme per il principino Bronny, non più tale per Sua Maestà Lebron Raymone James.

Lebron James osserva il figlio Lebron Jr. in azione. Con lui un italoamericano già visto da qualche parte nel mondo del college basket... (Credits to The Hoops Doctors)

Lebron James osserva il figlio Lebron Jr. in azione. Con lui un italoamericano già visto da qualche parte nel mondo del college basket… (Credits to The Hoops Doctors)

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