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Hall of Famer

The Others – Stefano Rusconi e Vincenzo Esposito, o “Cristoforo Colombo 2.0”

Ogni lega sportiva ha i suoi momenti storici e, come abbiamo più volte ricordato, la NBA è quella che ne produce il maggior numero. Per esempio, la notte del 25 febbraio appena trascorso. Tante partite, tanti bei risultati, ma soprattutto una congiuntura che, a causa di sfortuna, infortuni e scarsa considerazione da parte dei coach, in quasi due anni, non si era mai verificata: Andrea Bargnani, Gigi Datome, Danilo Gallinari e Marco Belinelli tutti in campo nella notte NBA. Si è trattato di un momento importante, una sorta di nuova partenza e, contemporaneamente, di punto d’arrivo. Una partenza verso orizzonti più rosei del recente passato (almeno per tre dei quattro interessati), ma soprattutto l’arrivo di un percorso che è stato aperto quasi 25 anni fa. Perché Andrea Bargnani può anche essere stato il primo italiano (ed europeo) a essere scelto con la scelta #1 del Draft (era il 2006) e Marco Belinelli il primo a vincere una competizione dell’All Star Weekend e il titolo di campione NBA (storia recente, dell’anno scorso appena), ma non sono stati loro i primi italiani a calcare i parquet della lega più bella e spettacolare del mondo. Quell’onore è spettato ad altri due giocatori, i due veri pionieri del basket tricolore nello scintillante e fatato mondo a stelle e strisce. E i nomi di quei due pionieri sono Stefano Rusconi e Vincenzo Esposito.

Stefano Rusconi nasce il 2 ottobre del 1968 in quel di Bassano del Grappa, provincia di Vicenza. È  un ragazzo sportivo, fisicamente dotato e altissimo (2.08 m per 116 kg di muscoli). Nel Veneto amante della palla a spicchi, con quella costituzione fisica e tanto allenamento, Stefano cresce dedicandosi al basket, sviluppando il suo gioco e riuscendo a finire sotto la lente di ingrandimento degli osservatori della Divarese Varese, che lo fa esordire, appena diciassettenne, nel massimo campionato italiano. È il 1985. Ben presto le sue abilità tecniche abbinate alle sue doti fisiche e perfettamente messe a frutto dal gioco della squadra, gli guadagnano un grande apprezzamento nel mondo del basket italiano ed europeo. Si rende protagonista di prestazioni straordinarie, tanto che in Europa si arriva a considerarlo nel ristretto circolo dei migliori centri del Vecchio Continente, in compagnia di un mostro sacro come Arvydas Sabonis, mica uno così. In effetti, in termini numerici, Stefano, alias Rusca, sa farsi valere pesantemente sul campo. Ad esempio nella stagione 1988-89, quando chiude con 13.2 pts e 11.5 rbd di media, segnalandosi all’attenzione di alcune persone che abitano dall’altra parte dell’Atlantico, più o meno sulla costa orientale degli Stati Uniti. Nel Draft NBA del 1990, infatti, Stefano Rusconi viene selezionato al secondo giro, con la scelta #52, dai Cleveland Cavaliers.

A dire la verità, non era certo la prima volta che un italiano veniva chiamato nella notte delle scelte. Nel 1970 il primo fu Dino Meneghin, indimenticato e indimenticabile centro di Varese e Milano, scelta #12 dell’undicesimo giro, degli Atlanta Hawks. Dino, forse uno dei giocatori più vittoriosi della storia (non a caso l’unico italiano inserito nella Naismith Basketball Hall of Fame), non se la sentì di fare il salto, anche se avrebbe avuto numeri e possibilità. Dopo di lui dovettero passare altri 16 anni prima che qualcuno, nella NBA, guardasse di nuovo allo Stivale. Prima che qualcuno, sempre in quel della Georgia, decidesse di usare la scelta #16 del secondo giro del Draft 1986 per chiamare Augusto Binelli, roccioso centro da 2.15 m della Virtus Bologna. Nemmeno Gus arrivò mai ad Atlanta, ma era evidente che qualcosa nella NBA stava cambiando. Con David Stern al timone e una “globalizzazione sportiva” in corso, la scelta degli International Players cominciò a farsi più frequente. Già nel Draft 1987 Riccardo Morandotti, ala piccola della Berloni Torino, venne scelto alla #22 del sesto giro, di nuovo dagli Hawks, evidentemente guidati da un establishment amante del Belpaese. Oltre a loro, anche altri nomi erano stati accostati alla lega più bella del mondo, pur senza arrivarci mai. A qualcuno, per esempio, era venuta la tentazione, ai tempi, di chiamare Gianfranco Lombardi, detto Dado, livornese, classe ’41, che alle Olimpiadi di Roma 1960, quando la sua Italia incontrò gli Stati Uniti di Jerry West e Oscar Robertson, riuscì a tenerli a bada per tutto il primo tempo, segnando anche più delle due future stelle NBA (mica cosa da tutti). Interesse negli USA avevano suscitato anche Nembo Kid Antonello Riva e Walter Magnifico, oltre che Nando Gentile. E la truppa degli italiani accostati alla NBA non si esaurì certo: Gianluca Basile, Giacomo Galanda, Gregor Fučka (accostato ai Lakers), Carlton Myers, Denis Marconato (vicino ai Wizards), Gianmarco Pozzecco (a un passo dai Raptors), il figlio d’arte Andrea Meneghin, persino Angelo Gigli e Stefano Mancinelli.

Come quasi da “regolamento” anche Rusca, subito dopo la scelta, non si trasferisce negli States. Rimane a Varese ancora un anno, poi, con un’offerta di trasferimento ai limiti della follia (parliamo di quasi venti miliardi di vecchie lire), si sposta a Treviso. È il 1991 e alla Benetton, Rusconi trova la guardia americana Vinny Del Negro (ex Sacramento Kings e futuro San Antonio Spurs) e, soprattutto, un altro nuovo acquisto, proveniente dalla Yugoslavia, che risponde al nome di Toni Kukoč (futuro Chicago Bulls). Sono gli ingranaggi di una macchina da guerra infallibile che porta a casa uno Scudetto (1992) tre Coppe Italia e una Coppa delle Coppe, in quattro anni. Nella stagione 1994-95, Rusca, magistralmente allenato da Mike D’Antoni, gioca in modo esaltante, mettendo a referto 16.4  pts e quasi 10 rbd di media con il 60.9% dal campo. Numeri che impressionano. I Phoenix Suns, che ne avevano acquistato i diritti il 27 giugno 1990 (il giorno stesso del Draft), spedendo a Cleveland Miloš Babić, gli offrono un triennale da 2.1 mln di dollari. Il 14 giugno del 1995 finalmente Stefano, dopo molti tentennamenti, si decide a sfruttare l’occasione datagli da quel Draft e da quel contratto e parte per gli Stati Uniti. È il sogno di una vita, il sogno di ogni singolo giocatore di basket al mondo. È l’NBA.

Ma non tutto va come da programma. Ad un tratto Stefano Rusconi si trova catapultato in una realtà completamente diversa da quella alla quale era abituato. Da titolare fisso e giocatore fondamentale si ritrova spinto al fondo della rotazione, da uomo fisicamente dominante si vede ridotto a un fuscello pronto per essere spazzato via dalla potenza dei centri made in U.S.A. Non è a suo agio, e tutti i dubbi che aveva avuto prima della firma, quando era diviso tra la dolcezza del sogno e la speranza che la Benetton pareggiasse l’offerta dei Suns, tornano a farsi prepotentemente presenti. Tocca il campo per la prima volta il 12 novembre 1995 divenendo il primo italiano in assoluto a calcare un parquet NBA, ma il suo apporto alla squadra è molto meno che limitato. Gioca una sola delle prime sedici partite della regular season, e solo sette fino al 31 gennaio del 1996, data nella quale i Suns decidono di tagliarlo dal roster. Durante la sua deludente esperienza americana colleziona 8 pts (1.1 di media), 6 rbd e 3 ass in 30 min totali (4.3 di media). Se ne torna a Treviso, grazie alla clausola “Italy-escape” inserita nel suo contratto con i Suns, ma non è più lo stesso giocatore.

Nel 1997 vince un altro scudetto, poi si trasferisce a Milano alla corte di Marco Crespi dove gioca tre anni da attore non protagonista. In mezzo vive un anno di non-basket al Baskonia, senza mai toccare il campo. Nel 2002 arriva a Reggio Emilia, in Legadue e dopo due anni la lascia in direzione di Castelletto Ticino, che milita in B1. Dopo aver aiutato la risalita della squadra in Legadue, nel 2006 risolve il contratto per andarsene a Novara. Dopo solo un anno si sposta a Genova, alla Effe 2000, società che milita in B2. Scende poi di nuovo e tra Santa Margherita e Vado Ligure gioca nelle serie dilettantistiche, per andare a chiudere la carriera, solo nel 2010, a Bari e trasferirsi poi con la famiglia a Bologna, dove vive ancora oggi, lavorando come procuratore per alcuni giocatori. Di quell’esperienza evanescente nell’NBA non parla spesso, ma quando lo fa è lucido e onesto:

 

Forse potevo restarci di più, come dicono tutti: avevo un triennale, ma non il fisico per giocare contro certi bestioni. Ma quello era il mio sogno di bambino: a modo mio l’ho realizzato.

Ma torniamo indietro. Torniamo al 1 marzo del 1969, quando Rusca aveva solo pochi mesi e, a Caserta, nasceva un altro ragazzo, tal Vincenzo Esposito. Vincenzo ha la fortuna di amare il basket e di nascere nella sola città del sud Italia che lo viva come un’esperienza a metà tra lo sportivo e il mistico-religioso. Crescendo diventa sempre più evidente quanta stoffa abbia e così la squadra della natia Caserta lo fa esordire nella massima serie già nel 1984, quando lui è appena quindicenne. Si rivela sin da subito una guardia versatile, dall’ottima tecnica, dal buon fisico (1.94 m per 90 kg) e con una spiccata propensione realizzativa. Già nel 1988 arriva il primo titolo con la maglia bianconera, la Coppa Italia conquistata contro Varese (e proprio contro Rusconi), ma è nel 1991 che la Juvecaserta centra il bersaglio grosso, vincendo lo Scudetto in una avvincente e tirata serie contro la Olimpia Milano, con Vincenzo Esposito sugli scudi, seppur protagonista di un grave infortunio al ginocchio destro nella decisiva gara-5 al Forum d’Assago. Un infortunio che gli avrebbe consentito di assentarsi dal match decisivo. Invece Vincenzino, già all’epoca noto come “el Diablo”, se ne rimase a bordo campo per tutto il tempo, soffrendo nel corpo e nello spirito per quel risultato in bilico. Una prova d’amore per la maglia e i colori di una squadra come nello sport se ne vedono raramente. Tuttavia Caserta rimaneva una piccola piazza nel panorama del basket italiano, e sarebbe stato impossibile resistere in eterno alle lusinghe e alle sirene di club più importanti. El Diablo è un realizzatore fenomenale, che fa gola a tutti, ma alla fine è la Fortitudo, la meno blasonata delle due armate che hanno sede a Bologna, ad accaparrarselo, nel 1993.

Il trasferimento a Basket City, capitale ideale del basket tricolore, gli giova decisamente. Per due stagioni si rende protagonista di prestazioni offensive ai confini dell’irrealtà, chiudendo comodamente a 25.7 pts di media la prima e a 24.2 la seconda. Gli occhi della pallacanestro che conta, di quella NBA che è sogno e delizia, si voltano ammirati a guardarlo. Ma nonostante tutto il Draft del 1995 passa, e Vincenzo non viene chiamato. La porta che aveva appena accennato ad aprirsi si richiude bruscamente…

O magari no.

Perché in quel 1995 c’è una nuova franchigia ad arricchire il panorama delle squadre NBA e il suo nome è Toronto Raptors. E a Toronto, che chiaramente, per il suo primo anno, è sostanzialmente priva di ambizioni, serve spregiudicatezza. Serve una guardia in grado di segnare. Così, qualche tempo dopo il Draft, una chiamata raggiunge Vincenzo Esposito, in arte “el Diablo”. C’è un’offerta. Un’offerta importante. Si tratta solo di prendere un aereo e raggiungere il Canada, e poi vivere il sogno vestendo la maglia dei Raptors. El Diablo decide di viversela. Firma un contratto come undrafted player (un po’ una situazione alla Datome, per capirci) e si unisce a un roster che può contare soltanto sulla guardia Damon Stoudamire (scelta #7 del primo giro al Draft 1995). È qualcosa di più di una ghiotta occasione. Ma durante il training camp un altro crack. Il nuovo infortunio lo ferma fino a novembre. Nel frattempo Rusconi fa il suo esordio, rubandogli la palma di primo italiano a calcare un parquet NBA. Ma la sera del suo esordio Rusconi non segna, e allora Vincenzino pensa di aver ancora qualcosa a cui puntare. Ancora un primato da prendersi. Il 15 novembre del 1995 fa il suo ingresso in campo per la prima volta nella partita tra i Raptors e i bicampioni NBA uscenti, gli Houston Rockets di Hakeem Olajuwon e Clyde Drexler. In quella partita infila il suo primo canestro “americano” (in realtà si tratta di un tiro libero), che coincide con i primi punti “italiani” in NBA. Quella particolare palma diventa sua e sua soltanto. Ma la strada non si spiana. Tra una certa generalizzata diffidenza nei confronti delle guardie bianche, e uno Stoudamire in rampa di lancio (alla fine della stagione si prenderà il titolo di Rookie of the Year) el Diablo non trova molto spazio e le sue apparizioni sul parquet sono brevi e sporadiche. Toronto, però, è un ambiente piacevole e il GM, l’ex leggenda dei Pistons Isiah Thomas, è duro ma giusto. Quando capisce che la stagione è ormai compromessa (il record alla fine sarà un imbarazzante 21-61, ma del resto le stagioni dei Raptors saranno un disastro fino al 1999, anno dell’arrivo di un certo Vince Carter), fa pressione su coach Brendan Malone perché conceda spazio anche a quei giocatori considerati meno “da rotazione” e dia loro modo di dimostrare di che pasta sono fatti. Di questo orientamento beneficia anche Vincenzino, che, con più minutaggio e la possibilità di mostrare il suo gioco, riesce a togliersi qualche soddisfazione: come i 12 pts segnati in una pur imbarazzante sconfitta contro i Miami Heat, la vittoria conquistata contro i Chicago Bulls dei record (una delle sole dieci sconfitte collezionate quell’anno dai Tori) davanti al pubblico impazzito di uno SkyDome stracolmo come mai a Toronto si era visto. E infine il suo capolavoro. Il palcoscenico, uno scintillante Madison Square Garden, gli avversari, i New York Knicks di Patrick Ewing, Charles Oakley, Anthony Mason e John Starks. Una sfida difficile, quasi impossibile. Ma el Diablo è tale per gioco e temperamento, competitivo deciso e ambizioso. In partita ne segna 18, che corrispondono precisamente al suo career high nella NBA e al maggior numero di punti realizzati da un italiano nel campionato di basket a stelle e strisce fino al 14 dicembre 2006, quando Andrea “il Mago” Bargnani, sempre con la maglia dei Dinosauri addosso, ne mette 23 contro gli Orlando Magic. La stagione del Diablo sembrerebbe finalmente ingranare, ma anche lui sa che le cose non vanno. Alla fine dell’anno decide di tornarsene in Italia e si fa tagliare dalla franchigia canadese. Lascia l’NBA dopo 30 partite giocate, con una media di 9.4 min e 3.9 pts, per un totale di 116 pts in tutta la stagione. Il che è già un bottino meno scarno di quello dell’illustre collega Rusca, sedotto e abbandonato in quel dell’Arizona. Anni dopo Vincenzino dichiarerà:

 

L’NBA è un mondo troppo circense, finto, politico o legato allo star system per i miei gusti. Quando negli ultimi due mesi mi sono tolto delle discrete soddisfazioni in fatto di minutaggio, cifre e prestazioni, è stato più che sufficiente per me.”

 

Tornato in Italia firma con la Scavolini Pesaro, che ha appena ultimato la costruzione di un palazzetto, la Adriatic Arena, che, con i suoi 10.000 posti, ha poco da invidiare, in quanto a tifo e calore, ai campi NBA. Chiude la stagione da dominatore a 25.3 pts di media. Ma alla fine se ne va a Pistoia, dove però non incontra la stessa fortuna. Per questo nel 1998 cambia aria di nuovo e firma con l’Andrea Costa Imola, squadra dove trova una nuova dimensione. Torna a segnare e a incantare, vincendo per tre anni consecutivi il titolo di miglior marcatore del campionato (24.5; 30.9 e 28 pts di media), è una vera e propria macchina da canestri. Dal 2001, però, inizia un pellegrinaggio di rara complessità e lunghezza che lo porterà a toccare varie mete (Udine, Gran Canaria, Scafati, Roma, Murcia, Casale Monferrato, Capo d’Orlando, fino al Gargano e a Ozzano) con alcuni ritorni nell’amata Imola. E in tutti questi luoghi continua a segnare a ripetizione, vincendo anche alcuni altri riconoscimenti personali (come la classifica marcatori di Legadue nel 2004-05, con Imola). Nel 2009 sembra mettere fine alla sua carriera e accetta un ruolo da allenatore in squadre minori, prima a Trento, poi ad Agrigento. Ma nel 2013, dopo essere tornato di nuovo a Imola come coach, decide di scendere ancora in campo, riaprendo la sua carriera infinita, da vero Highlander del canestro. È solo con la fine del campionato, nel 2014, che lascia il parquet per accomodarsi definitivamente sul pino, proprio in quella Caserta che, circa trent’anni prima, l’aveva lanciato sul panorama del grande basket. Chiude la carriera come quarto marcatore di sempre del campionato italiano, dietro ad Antonello Riva, Oscar Schmidt e Carlton Myers, con più di 11.000 punti all’attivo.

 

 

Quindi, se al giorno d’oggi ci sono quattro italiani in NBA, se la loro importanza e la considerazione di cui godono è sempre crescente, sappiamo chi dobbiamo ringraziare. Sappiamo chi ha aperto la strada, chi si è messo in mare, su caravelle fragili e incerte e ha raggiunto con fatica quelle coste tanto sognate e agognate, senza trovare però fortuna. Una fortuna toccata in sorte agli altri che, dopo aver ripreso quelle antiche carte nautiche, undici anni dopo, hanno seguito quella rotta, hanno ripercorso le tracce di Stefano Rusconi e Vincenzo Esposito, i Cristoforo Colombo 2.0, gli italici scopritori di un’America del basket, destinata a dimenticare il loro nome. L’onore del ricordo rimarrà per altri. Per Bargnani, per Belinelli, per Gallinari, persino per Datome e per le schiere di italiani che li seguiranno, novelli Amerigo Vespucci, pronti a dare un nome e un marchio “made in Italy” a quella terra che, in fondo in fondo, è ancora in debito con noi della sua Scoperta.

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