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Hall of Famer

The Others – Bob Houbregs o “the Road to the Hall”

Negli Stati Uniti non c’è la stessa concezione dello sport che abbiamo in Europa, e questo è un fatto. Al di là della maggiore o minore popolarità di una data disciplina (del calcio, o soccer, come dicono loro, rispetto al basket, ad esempio), il modo che gli americani hanno di intendere lo sport è molto lontano, tanto da risultare quasi incomprensibile, da quello che abbiamo noi. Per dirne una, nel nostro modo di intendere lo sport non esiste il concetto di integrazione del percorso sportivo con quello educativo. Manca, insomma, la struttura “collegiale”, che negli Stati Uniti è poderosa e capillare, e soprattutto, estesa a ogni sport (soccer incluso). Nel loro modo di intendere lo sport, invece, non esiste il concetto di “retrocessione”. Una delle più interessanti tra queste differenze è, comunque, l’idea di avere un luogo dove ricordare e venerare tutti coloro che si siano distinti all’interno dell’ambito sportivo. In sostanza, l’idea di una “Hall of Fame”, letteralmente di una “Sala della Gloria”. Certo, un concetto simile è presente anche in Europa, ma è quasi sempre qualcosa di più limitato, l’iniziativa singola di un club che si costruisce il proprio “museo” glorificando la sua, più o meno blasonata, storia sportiva. Insomma non è mai diventato (e forse mai diventerà) tanto organico e unificante come è negli Stati Uniti, dove, anche a causa di uno spasmodico culto della personalità, ogni sport professionistico sente l’esigenza di avere non solo una ideale “Sala della Gloria”, ma un luogo fisico, immanente, nel quale porre la memoria e la venerazione. Il basket, disciplina “americana” per antonomasia, non poteva essere estraneo a questa esigenza, e nel 1959 l’NBA ha fondato il suo edificio della memoria, il Naismith Memorial Basketball Hall of Fame.

 

Il luogo prescelto è estremamente simbolico, quella Springfield, Massachusetts, dove il buon James Naismith, di professione, professore di educazione fisica, in un lontano giorno del 1891, inventò il gioco del pallone e del canestro. Situata all’inizio in un comprensorio del Colby College, nel 1960 l’Hall of Fame poteva già permettersi la costruzione di un proprio edificio indipendente, nell’area dello Springfield College. Nel 1979 divenne il main sponsor del Tip-Off Classic, l’ultima exhibition della pre-season collegiale. Nel 1985 la popolarità del basket era talmente aumentata e l’afflusso di visitatori era così ampio, che la Hall of Fame decise di costruire un nuovo edificio, estremamente scenografico per architettura e scorcio paesaggistico, sulla riva del fiume Connecticut. I vantaggi di questa nuova struttura furono di molto superiori alle attese: la scelta di inserire nella Hall anche i grandi personaggi del basket femminile, unita alla bellezza dell’edificio stesso ebbero l’effetto di aumentare ulteriormente l’interesse (già di per sé crescente) intorno alla NBA. Aggiungeteci il fatto che da poco più di due anni calcava i parquet un prototipo di Dio del Basket chiamato Michael Jordan, e avrete servito il vostro cocktail perfetto. Il successo della Hall of Fame andò di pari passo con quello della lega, e portò infine, alla costruzione, nel 2002 del nuovo, avveniristico edificio che ancora oggi se ne sta lì, luminescente e argenteo sulle rive del Connecticut a custodire le memorie e i cimeli dei più grandi di sempre nel mondo della palla a spicchi.

Al giorno d’oggi, dopo l’introduzione della “classe 2014”, la Hall of Fame conta 335 membri individuali (divisi in contributors, arbitri, giocatori e coach) e 10 squadre. Un numero straordinario di persone, a partire dal First Team, il gruppo eroico di 18 studenti che giocò la prima partita (conclusa con l’impressionante punteggio di 1 a 0) per arrivare a David Stern, ornati di questa onorificenza per i motivi più vari. È scorrendo questa lunga e straordinaria lista di nomi che possiamo leggere la storia del basket come lo conosciamo oggi, incontrando di anno in anno personaggi sempre più meravigliosi: George Mikan nel 1959, Bob Cousy nel 1971, Bill Russell nel 1975, Elgin Baylor nel 1977, Wilt Chamberlain nel 1979, Oscar Robertson e Jerry West nel 1980, Willis Reed nel 1982, John Havlicek e Sam Jones nel 1984, Rick Barry, Walt Frazier, “Pistol” Pete Maravich e Bob Houbregs nel 1987… Ma come? Bob Houbregs? Perché questo nome, perlopiù ignoto, accostato a quello delle stelle più splendenti della storia dell’NBA? Bhe, è semplice: Bob Houbregs, canadese, classe 1932, è il primo international player della storia ad essersi meritato l’inserimento nella Hall of Fame.

Nato il 12 marzo 1932 a Vancouver, Bob era un ragazzone di due metri e poco più con le idee molto chiare: voleva giocare a basket. Per raggiungere questo obiettivo era disposto a tutto, anche ad abbandonare il luogo natio e gli affetti per andare a cercare fortuna in quel degli Stati Uniti d’America, patria indiscutibile e indiscussa dello sport che amava. Fece il liceo alla Queen Anne High School di Seattle, e qui divenne una star, tanto da essere notato dagli osservatori della University of Washington, che, sebbene lavorassero per quello che non era esattamente il college più vincente della storia, sembravano essere abbastanza bravi nel loro lavoro, e decisero di portarselo in casa. Era il 1950. Bob giocava ala grande, e occasionalmente, centro, sebbene fosse un po’ sottodimensionato per il ruolo. Ma dove non arrivava il fisico suppliva la sua intelligenza cestistica. Grazie a lui il livello di gioco degli Huskies si alzò notevolmente rispetto agli standard, tanto che la squadra cominciò ad ambire a posti di rilievo nel torneo NCAA. Allo stesso modo, lavorare con Tippy Dye, coach della University of Washington in quel periodo, lo aiutò a crescere come giocatore: per stessa ammissione di Houbregs, fu proprio Dye ad insegnargli il gancio che lo trasformò in un giocatore dominante e gli guadagnò il soprannome di Hooks.

Ma il nome di Bob Houbregs è indelebilmente legato a quella stagione sportiva 1952/53, quando la University of Washington partecipò alle sue prime (e uniche) Final Four. Ma non precorriamo i tempi, rivelando subito il finale. Torniamo al principio di quella straordinaria stagione, quando gli Huskies guidati da Houbregs, dopo aver compilato un record di 28-3 (vincendo per la terza volta consecutiva la Pacific Coast Conference, con il record di 15-1), si presero un posto tra le 22 squadre del torneo NCAA. Al primo turno, nell’opener, c’era la Seattle University, un piccolo derby del cuore per Bob, che però non risentì minimamente della pressione: la sua prestazione da 45 punti condannò gli avversari, sconfitti con un sonoro 92-70. Stesso destino subì, al turno successivo, Santa Clara, abbattuta con un 74-62 che spianò la strada delle Final Four per la University of Washington. Ma i tempi non erano maturi per lui. In semifinale contro Kansas ebbe problemi di falli, che lo portarono a un’uscita prematura nel terzo quarto. Gli Huskies, senza di lui, si sciolsero come neve al sole. Il risultato fu una sconfitta per 79-53 che infranse tutti i sogni di gloria di quella piccola università e la spedì a giocarsi la “finalina” per il terzo posto contro Louisiana State. Tutti sapevano che sarebbe stata l’ultima partita di Bob Houbregs con la maglia degli Huskies della University of Washington, lo sapeva benissimo anche lui, e per questo decise di lasciare quei colori che amava con una prestazione degna del trascinatore che era stato. E così in quella vittoria per 88-69 che regalò a Washington il suo miglior risultato di sempre, Bob mise in cascina una prestazione che parlava di 42 punti. Così si chiuse la sua carriera collegiale.

Una carriera durante la quale aveva segnato 1.774 punti, un record destinato a resistere, roccioso e granitico, per ben trentun anni. Ancora oggi Bob Houbregs detiene il quinto posto tra i marcatori di tutti i tempi della University of Washington (qualcosa di ancor più impressionante se si pensa che, dati i regolamenti del tempo, non aveva potuto giocare l’anno da freshman) e le tre migliori prestazioni offensive della storia dell’università. Una di queste è la partita da 49 punti del 10 gennaio 1953 che fu il suo massimo in carriera, in una stagione nella quale segnò più di 25 punti di media. Chiaramente i riconoscimenti individuali non tardarono ad arrivare: NCAA Tournament Player of the Year, Consensus All-America, All-Tournament Team, ma probabilmente il riconoscimento più bello, per lui, sono le parole di Lorenzo Romar, attuale coach (ed ex giocatore) della University of Washington:

Era un giocatore speciale. Ma la cosa che mi impressionava di più di lui era la sua umiltà, e la persona che era. Ragazzi, era un uomo veramente solido.”

Bob Houbregs era stato così importante per la University of Washington che la sua canotta #25 fu la prima a essere ritirata, e oggi penzola dal soffitto della Alaska Airlines Arena in compagnia di un’altra sola canotta, quella di Brandon Roy. Ma soprattutto, Bob Houbregs era stato importante per Washington in generale. “Bob è stato un’icona nella nostra comunità. – ha detto non troppo tempo fa Scott Woodward, athletic director della University of WashingtonI suoi sforzi sul campo hanno aiutato ha disegnare Washington sulla mappa del basket, ma quello che lo ha reso importante era il suo carattere al di là del basket. Aveva un modo di unire le persone in una maniera genuina.

Ma la fine della carriera collegiale, per un atleta nel mondo dello sport americano, significa soltanto l’inizio di una nuova esperienza. Significa “draft”. E fu così che Bob Houbregs si rese eleggibile per il Draft del 1953, nel quale venne selezionato come seconda scelta assoluta dagli allora Milwaukee Hawks. Ma la sua carriera tra i professionisti non fu all’altezza delle aspettative che gli si erano create intorno. Per il primo anno e mezzo fu un vero girovago della lega: da Milwaukee venne scambiato ai Baltimore Bullets. L’anno dopo Baltimore lo mandò ai Boston Celtics che, a metà stagione, trovarono l’accordo per spedirlo ai Fort Wayne Pistons. Qui finalmente Bob trovò nuovamente la sua dimensione, rimanendo nel roster dal 1954 al 1958 (anno del suo ritiro), ma vivendo comunque un nuovo trasferimento, quando, nel 1957, tutta la franchigia, in blocco con la baracca e i burattini, si spostò dalla sperduta Fort Wayne (Indiana) alla più popolosa, e vertiginosamente in ascesa, Detroit (Michigan), in arte Motown. In cinque anni nella NBA, Bob totalizzò 2.611 punti (con una media di 9.3 a partita), 1.552 rimbalzi (5.5 a partita) e 500 assist (1.8), cifre, comunque, da buon giocatore.

Dopo il ritiro Houbregs fece ritorno all’amata Seattle, dove entrò a far parte dell’establishment dei Super Sonics, ricoprendo posizioni sempre più importanti, fino a diventare, nel 1970, GM della franchigia. In quel ruolo lavorò con passione per tre anni, portando a casa anche il successo di draftare, nel 1971, la star Fred Brown. Dopo il 1973, quando lasciò il suo lavoro per i Sonics, si trasferì definitivamente a Olympia, piccola e tranquilla cittadina dello stato di Washington. E fu proprio a Olympia, nel 1987, che lo raggiunse la notizia di aver fatto la storia. I suoi meriti sportivi con la University of Washington gli avevano meritato qualcosa di più del titolo di NCAA Player of the Year: nel 1987 Bob Houbregs, da Vancouver, Canada, venne eletto, primo tra gli international players, nella Naismith Memorial Basketball Hall of Fame. Un vero passo da giganti, in quegli Stati Uniti, in quel periodo.

Bob Houbregs, ha potuto vedere a che punto siano riusciti ad arrivare i suoi “eredi”, gli international players di tutte le epoche. Lo hanno seguito su quella strada tracciata con fatica e sudore, personaggi della caratura di Drazen Petrovic, Arvydas Sabonis, Oscar Schmidt e, con un certo grado di certezza, anche il suo compatriota Steve Nash, e lo hanno seguito perché è stato lui il primo profeta della grandezza assoluta tra noi “poveri” altri. È stato lui il primo a mostrare al mondo che stars and stripes” non è un requisito necessario per entrare a far parte della “Sala della Gloria” più bella e splendente del mondo, adagiata, mansueta e sonnacchiosa, sulle rive del fiume Connecticut.

Purtroppo Bob Houbregs non potrà mai leggere queste righe di ricordo e ringraziamento, e questo non perché siano scritte in italiano (lingua che è, in effetti, altamente probabile non conoscesse), ma perché se ne è andato poco più di sei mesi fa, il 28 maggio, spegnendosi, ottantaduenne a Olympia. E il rimpianto non è solo dei tifosi della University of Washington, che ne ricordino o meno le prodezze sul parquet, ma anche del basket tutto, che lo onora per quello che è stato in grado di fare.

E se mai vi capitasse di fare una visitina alla Hall of Fame di Springfield, tra i vari Wilt Chamberlain e Michael Jordan, Elgin Baylor e Scottie Pippen, Bill Russell e Alonzo Mourning, ricordatevi anche di andare a guardare lo spazio dedicato a Bob Houbregs, il primo, tra gli “altri” a percorrere la strada verso l’Hall of Fame.

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