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Hall of Famer

Stanley, Maldetto Stanley!

Ero geloso di Stanley Roberts. Era chiaro che gli allenatori preferivano lui a me. Parlavano sempre di lui, anche se saltava le lezioni e si cacciava spesso nei guai. Stanley aveva davvero talento. Il suo arsenale offensivo sembrava illimitato e aveva mani morbidissime per essere un due metri e quindici. Aveva anche un buon tiro da tre. Il problema di Stanley era che al basket non teneva tanto. Il mio problema era che ci tenevo troppo.
L’autore di queste parole non è esattamente un uomo comune. Al contrario. È un tizio alto 2.15 m, con una casa faraonica a Orlando, un patrimonio personale di svariati milioni di dollari, e una carriera NBA alle spalle che racconta di sei squadre, quattro titoli, tre MVP delle Finals, un MVP della stagione regolare, 28.596 pts, 13.099 reb, 3.026 ast, 2.732 blks e 15 All Star Game. Il suo nome, manco a dirlo, è Shaquille O’Neal. Certo, lo Shaq che ha provato quei sentimenti e pensato quelle parole era ancora all’inizio di questo viale glorioso, ma questo non ne sminuisce l’importanza. Sul finire del 1989 il freshman Shaquille O’Neal, giovane e rampante, fresco vincitore del titolo di Stato con la Cole High School di San Antonio, Texas, si sentiva oscurato agli occhi del suo coach Dale Brown da un altro centro, reclutato l’anno precedente che però, nonostante questo, non aveva ancora giocato un solo minuto per LSU. E vista la difficoltà insita nel fare ombra a un uomo alto e grosso come un grizzly, bisognerà capire chi era Stanley Roberts e perché Shaq lo ha tanto odiato, ma anche tanto amato.

Stanley Roberts era nato il 2 febbraio del 1970 nella ridente cittadina di Hopkins, nel South Carolina. Come giocatore e leader della Lower Richland High School si era distinto in modo sfavillante, trascinando la squadra a due titoli di stato consecutivi, e arrivando a essere considerato uno dei primi cinque giocatori del South Carolina, al pari di Alonzo Mourning, che sfidò tanto nel Dapper Dan quanto nel McDonald’s All Star Game. Un curriculum tanto vincente non poteva non far gola a Dale Brown che lo reclutò nella sua Louisiana State University. Ma Stanley era quel tipo di ragazzo che i professori definiscono con la frase fatta “è intelligente, ma non si applica”. Più che non applicarsi, lui preferiva altre cose allo studio. Molte altre cose. Tipo uscire e andare a ubriacarsi la sera, rimorchiare ragazze, andarsene in giro sulla sua auto a pavoneggiarsi. Il fisico straordinario e il talento cristallino gli avevano sempre fornito l’alibi per cavarsela. Ma non fu così al college. Il primo anno lo passò a guardare i suoi compagni giocare, dalla tribuna, come giocatore sottoposto al regime della Proposition 48. Ergo, i suoi voti non erano abbastanza buoni: niente basket per lui. Così Stanley cominciò a essere disponibile per la squadra solo l’anno dopo, quando LSU riuscì a reclutare il richiestissimo Shaquille O’Neal. Stesso ruolo, stesso fisico da dominatore, stesso potenziale devastante. Probabilmente nei piani di coach Brown l’inserimento di quel ragazzone doveva anche servire da sprone per quello che allora lui considerava il suo miglior prospetto. Ma la risposta di Stanley fu un tantino diversa dalle aspettative. I voti non si alzarono di molto, e le serate in discoteca non diminuirono assolutamente. Piuttosto, Stanley si trovò un autista d’eccezione proprio in Shaq che, facendo un sano sfoggio di nonnismo, costringeva a guidare e ad aspettare poi fuori dai club. Di solito passava più tempo sveglio di notte che di giorno, e quando dormiva non si era mai certi di dove stesse dormendo. Probabilmente il suo compagno di stanza, Wayne Sims, che era anche il capitano di LSU, si ricorderà ancora le balle che era costretto a raccontare a Dale Brown quando chiamava in stanza a sorpresa, negli orari più improbabili, chiedendo che gli fosse passato il suo centro titolare, o dei chilometri di corsa che si dovette fare in sua compagnia alle cinque di mattina quando lui si presentò all’inizio della stagione fuori forma. Stanley continuava a essere refrattario a ogni forma di controllo e di pressione, forte anche della consapevolezza di essere assolutamente irresistibile. In ogni senso.

Lo stesso Shaq è costretto a confessarlo “il mio problema con lui era che mi piaceva. Piaceva a tutti.” Aveva una personalità solare, dirompente, era un ragazzo divertente, di successo, e in più era fisicamente straordinario. E nonostante tutto, il suo rendimento in campo, non sembrava minimamente intaccato dalla vita che conduceva fuori: per tutta la stagione mantenne una doppia doppia di media che parlava di 14 pts e 10 reb a partita. Shaq ricorda addirittura di una partitella d’allenamento nella quale lui e Stanley si scambiarono una serie di schiacciate mostruose prima che lui decidesse di rincorrerlo per tutta la palestra con un bidone di metallo. L’unica differenza tra i due quella mattina era che Shaq era fresco e riposato, mentre Stanley aveva passato la notte in bianco e si trovava in palestra solo per sudare via un po’ d’alcool. Le sue potenzialità sembravano infinite. Ed era una delle colonne portanti di una squadra che aveva più che altro la forma di una corazzata: oltre a lui e Shaq, devastanti in post basso, c’era infatti una guardia di nome Chris Jackson, che sarebbe poi stato più noto alle cronache NBA e del basket internazionale con il nome di Mahmoud Abdul-Rauf, un tiratore infallibile, già cannoniere del torneo NCAA l’anno precedente. C’era Mo Williamson, figlio del bicampione ABA John Williamson e capace di realizzare, in una partita di liceo, 100 pts (impresa condivisa, con le dovute proporzioni, con ben altro giocatore), e due “schiacciatori seriali” che rispondevano ai nomi di Shawn Griggs e Vernel Singleton. Insomma un mix di talento davvero irresistibile, che condusse quasi automaticamente a un record di 23-8 (tra quelle 23 vinte c’è anche un incredibile 148-141 ai supplementari contro Loyola Marymount, il picco forse più sfolgorante di un Hank Gathers da 48 pts in 38 minuti, a un mese dalla sua tragica morte prematura).

Il torneo NCAA mise di fronte a LSU come primo ostacolo Villanova e, quando la pratica venne facilmente sbrigata, Georgia Tech, una squadra straordinariamente colma di talento. In quella partita Stanley, degnamente coadiuvato da Shaq, si diede a mettere a ferro e fuoco l’area pitturata avversaria, ma quello era un rischio che il coach di Georgia aveva deciso di accettare. La partita si giocò più che altro sul back-court. Chris Jackson e Mo Williamson vennero letteralmente martellati di Nick Anderson e Brian Oliver dalla linea dei tre punti, e furono pesantissimamente limitati in attacco. Il risultato finale di 94-91 a sfavore di LSU deluse tutti.

La stagione era finita, ed era ora di exit interviewes. Stanley si avviò nell’ufficio di Brown dopo Chris Jackson (che aveva deciso di rendersi eleggibile per il draft), e si sentì dire dal coach che il suo tempo a LSU era finito. Il ragazzo era sempre stato un ribelle. Lo era per natura e per vocazione. Se la sua volontà aveva vacillato prima di quell’intervista, adesso era ferma e salda. Stanley rispose a Dale Brown che, se proprio voleva farlo fuori per dare minuti e tiri a Shaq, lo avrebbe fatto ricredere e lo avrebbe costretto a tornare sui suoi passi. Gli disse che non se ne sarebbe andato. Ma prima di tutto c’era il problema dei suoi voti da sistemare. Avrebbe dovuto passare l’estate a studiare e a seguire un corso di recupero, ma alla fine, quando venne il momento di fare i conti, nel settembre 1990, venne bocciato e a quel punto, perso il draft, gli rimasero poche chance: rimanere a LSU e sedere in panchina a guardare Shaq muovere i suoi passi sulla strada dell’Hall of Fame, oppure andare in Europa. Così Stanley decise di seguire questa seconda corrente di pensiero, e venne ingaggiato dal Real Madrid. E fu qui che acquisì tutta una consapevolezza nuova. Si rese conto che il basket era diventato il suo lavoro e che non poteva più viverlo con lo spirito con il quale l’aveva vissuto nell’high school e al college. Così Stanley, il maledetto Stanley, si mise a giocare molto più seriamente di quanto non avesse fatto negli anni precedenti e diede una mano sostanziale al Real nel conquistare la fine di coppa Korać, poi persa contro Cantù. Soprattutto, si guadagnò di nuovo l’attenzione della NBA. Nel draft del 1991 gli Orlando Magic decisero di puntare su di lui, e lo selezionarono con la 23esima scelta del primo turno. La sua stagione non fu esattamente un successo, visto che venne martoriato dagli infortuni, ma i numeri non erano proprio da buttare: 10 pts e 6 reb pg, oltre all’inclusione nell’All Second Rookie Team.

Ma Shaquille O’Neal stava per attraversare la strada di Stanley Roberts di nuovo, stavolta a ruoli invertiti. Orlando ottenne la prima scelta al draft del 1992 e già in sede di lottery quella scelta era stata riservata al centro da LSU (in barba a Laettner, che si avviava a vincere l’Olimpiade come parte del primo, storico, Dream Team, e di Alonzo Mourning). La scelta ebbe tutta una serie di piccoli contraccolpi in Florida, tra i quali anche quello che andò a sconvolgere la carriera di Stanley. Il suo contratto con i Magic era infatti garantito per un solo anno, con opzione sui tre successivi. La volontà del giocatore alla fine di quella prima stagione era stata quella di andare via, ai Dallas Mavericks, i quali si erano dimostrati molto interessati alle sue prestazioni, ma aveva poi ricevuto da Pat Williams, GM dei Magic, l’assicurazione che il suo futuro fosse legato a Orlando vita natural durante. Su quell’assicurazione Stanley basò tutte le sue scelte, senza sapere che stava per andare a infrangersi su un muro. Con l’arrivo di Shaquille a Orlando la sua posizione era drasticamente cambiata: “Non lo ammetteranno mai, ma Williams, praticamente, mi disse:«Shaquille non vuole giocare con te. Se rimarrai, sarai ai margini della panchina.»” Così Stanley se ne andò dalla Florida per ritrovarsi a Los Angeles, sponda Clippers, a lavorare con Larry Brown, che l’aveva voluto e con il quale avrebbe stretto una solida amicizia. Sportivamente le cose migliorarono (77 partite giocate quell’anno, e con un ruolo di maggiore importanza rispetto a quello ricoperto a Orlando), ma la sua vita privata era più caotica che mai. Spese immediatamente quasi tutto quello che guadagnava in macchine costose e in una casa che alla fine abbandonò alle sanguisughe che gli gravitavano intorno. Anni dopo avrebbe ricordato “Ero lì fuori da solo, ero lì fuori con persone che sono squali, e non sapevo di chi fidarmi”. La stagione successiva ricominciarono i guai fisici e tutto sembrò implodere. Stanley perse quasi due stagioni consecutive (’93-’94 e ’94-’95) per la rottura del tendine d’Achille, poi ebbe un furioso litigio con Bill Fitch, il coach che aveva sostituito Larry Brown ai Clippers quando quest’ultimo era passato ai Pacers, all’inizio del camp del ’96, con il risultato di farsi buttare fuori squadra e di essere riammesso solo grazie all’intervento del GM Elgin Baylor. Intanto la frustrazione della sua situazione lo aveva spinto di nuovo sulla cattiva strada: “Cominciai a uscire con gente di strada, i Bloods e i Crips. Mi sentivo a mio agio. Loro mi capivano.

Alla fine del ’97 il suo contratto in scadenza non venne rinnovato dai Clippers e Stanley si accasò ai Minnesota Timberwolves. Ma nonostante i numeri accettabili e il supporto di Kevin Garnett, la sua battaglia sotterranea contro i suoi fantasmi finì con la sua capitolazione totale. Tutta la facciata del ragazzo scapestrato si rivelò soltanto una maschera contro le fragilità emotive di un uomo che forse non aveva mai creduto in se stesso. L’abuso di cibo, alcool e droghe, la prodigalità spinta ai limiti della follia e della rovina economica, erano il suo modo di dimostrare il suo malessere al mondo.

Nel ’98-’99, con la stagione accorciata dal lock-out, giocò prima in Grecia, poi firmò con i Rockets. Anche quest’avventura non durò molto: sei partite giocate soltanto. Ma nell’ottobre del ’99 Larry Brown decise di dargli un’altra (ultima) possibilità, e lo portò alla sua corte, che al tempo aveva lo stendardo e i colori dei Philadelphia 76ers. In squadra con Allen Iverson, Stanley aveva delle possibilità che mai gli erano state offerte nella sua carriera. Ma un nuovo uragano si stava per abbattere su di lui, un uragano che, in gran parte, era di nuovo colpa della sua personalità, delle sue insicurezze, della sua vita sregolata. Il 24 novembre Larry Brown gli chiese di arrivare prima all’allenamento, e visto che era una delle poche persone alle quali Stanley avesse mai dato ascolto, lo fece. Così quella mattina in palestra c’erano solo Stanley, Larry, e un agente disciplinare dell’NBA che lesse con voce asettica la lettera che stava per stroncare la carriera di quel ragazzo bello e maledetto. Stanley era stato trovato positivo a un alto livello di anfetamine. Due anni di squalifica, ai sensi del nuovo regolamento anti-droga dell’NBA. La mannaia calò impietosa, e Stan fu il primo a caderci sotto. Si abbandonò di nuovo alla frustrazione, e nel 2000 venne trovato in possesso di una grossa quantità di cocaina. La squalifica venne estesa a tre anni, e non gli lasciò più speranze.

La spirale discendente sembrava inarrestabile. Assalito dai debiti tentò un ritorno in NBA nel 2003 con la maglia dei Toronto Raptors, ma non riuscì a mettersi in forma per l’inizio del camp e tutto quello che ottenne fu un nuovo flop. Così fu costretto a reinventarsi la sua vita, a rimettersi in carreggiata. Riprese gli studi, abbandonò i comportamenti da folle che avevano caratterizzato la sua carriera da professionista, e ebbe come compagno in questo percorso un instancabile Dale Brown che, come con molti altri suoi ex giocatori, non lo abbandonò mai.

I don’t even think I’m going to be remembered”. Non penso nemmeno che sarò mai ricordato, sosteneva amaramente qualche anno fa Stanley Roberts quando, durante un’intervista, faceva il bilancio della sua carriera. Ma in quella stessa intervista disse anche qualcosa di più importante e di molto più maturo: “I loved the game. I didn’t like everything else that come with it. You know, I enjoyed going out and playing in front of the fans, but everything else I coulda did without. The autographs signings, the money, I didn’t care about that.” Non serve nemmeno tradurlo per capire la bellezza e la purezza di queste parole. Forse davvero nessuno si ricorderà mai di Stanley Roberts, eppure sarebbe più giusto e più bello tenere a mente ciò che Stanley Roberts è stato, quello che Stanley Roberts ha fatto, e chiedersi che cosa sarebbe stato in grado di fare se non fosse stato lasciato solo ad affrontare i suoi fantasmi. E viene da chiedersi, anche solo un po’, quanto diversa sarebbe potuta essere la storia della NBA, se lui avesse continuato ad essere quello che era stato nel suo secondo anno a LSU: l’uomo che riusciva a dominare Shaq.

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