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Bad Boys forever- Seconda Parte

In diverse circostanze sono i capitomboli, anche fragorosi, a presentare le occasioni più importanti di crescita, riscatto e cambiamento. Nei Playoffs del 1986 i Pistons erano considerati la vera e propria mina vagante ad Est. Invece, al Primo Turno, arrivò un secco rovescio contro gli Atlanta Hawks di Dominique Wilkins, che segnarono nelle prime due partite, rispettivamente, 140 e 137 punti. Daly aveva visto troppo. Decise che da quel giorno in poi la filosofia della sua squadra sarebbe cambiata per sempre, ponendo un’enfasi particolare sulla propria metà campo, cambiando radicalmente l’approccio difensivo con un’iniezione energica di testosterone. Fu proprio in quella off-season ed in quel training camp che nacquero, di fatto, i Bad Boys. Il quinquennio successivo sarebbe stato indimenticabile.

L’arrivo di Adrian Dantley, terrificante realizzatore nei pressi del ferro nonostante un’altezza non certo proibitiva, contribuì ad alzare il tasso tecnico della squadra, che nel frattempo, come abbiamo già visto, era stata ultimata del tutto con i neo-arrivati dal Draft. Motivati dal proprio allenatore e dalla sconfitta dell’anno precedente, i Pistons travolsero la Lega con uno stile di gioco ed una durezza che erano inusuali, anche considerando quel particolare momento storico. Nella postseason, superate di slancio Bullets e Hawks, i Pistons si ritrovarono alle Eastern Conference Finals per la prima volta dal 1962. Avversari, ancora una volta, i Boston Celtics. Le prime 4 gare vennero equamente ripartite, con la squadra di casa a portarsi la parte buona del referto. Detroit, con quel gioco fisico e muscolare, aveva messo una rotellina nei proverbiali ingranaggi dei propri avversari. Nella terza partita, per esempio, Larry e Laimbeer vennero mandati fuori dopo esser venuti alle mani. In gara-5, poi, avviene l’incredibile. Dopo l’espulsione di Parish, per un pugno al solito numero 40 di Detroit, i Bad Boys sono in vantaggio al Garden di un punto a pochi secondi dalla fine. Bird viene stoppato, il pallone carambola fuori e la rimessa è ospite. Thomas se ne incarica, ma il suo gesto è pigro e prevedibile. Bird sbuca dal nulla, la ruba ed in una frazione di secondo serve Dennis Johnson per il canestro della vittoria sulla sirena, col pubblico in delirio che non ha ancora compreso cosa sia successo. Detroit non riuscirà a sovvertire i pronostici, perdendo gara-7, sempre in volata.

Nel dopo partita la tensione era ancora alle stelle. Il rookie Rodman, desideroso di farsi conoscere dalla platea mondiale, affermò urbi et orbi che Bird era acclamato solo per il colore della pelle. Fosse stato un nero, “sarebbe stato solo uno dei tanti”. Le dichiarazioni di quel giovanotto semi-sconosciuto sarebbero rimaste abbastanza vaghe, se non fosse che Thomas rincarò la dose. I successivi Pistons-Celtics sarebbero state tante altre battaglie all’ultimo sangue, col povero Johnny Most impegnato in vere e proprie filippiche contro gli odiati Laimbeer e Mahorn.

Motivati dallo spirito di rivalsa che li avrebbe sempre contraddistinti, i Bad Boys si tuffarono a capofitto nella stagione ’87-88. Le tenaglie difensive si strinsero ulteriormente, con una pressione soffocante che impediva all’attacco avversario anche solo di entrare nei giochi previsti. In attacco poi, soprattutto grazie alle guardie, non c’erano problemi di sorta nell’andare spesso e volentieri sopra i 110 a gara. Il primo risultato fu il nuovo record di franchigia per vittorie in regular season, 54, ma i Pistons miravano in alto, molto più in alto.

Superate Bullets e Bulls (i quali ovviamente meritano un capitolo a parte), ecco la redde rationem contro gli odiati Celtics nelle Eastern Conference Finals 1988. In gara-1, dopo ben 21 sconfitte consecutive al Garden, i Bad Boys riuscirono ad espugnare Boston, sfiorando per poco l’incredibile bis nella partita successiva, perdendo in doppio overtime. Con la posta in palio spartita negli incontri al Silverdome, a 12 mesi di stanza si tornava nel Massachusetts per un’altra decisiva gara-5. I bianco-verdi erano avanti di 16 lunghezze ma una sfuriata di Thomas permise agli ospiti prima di raggiungere il supplementare, poi di vincerlo. La partita seguente fu un altro massacro finito sul filo di lana, ma i Pistons avevano raggiunto l’obbiettivo tanto agognato: 4-2 e prime Finals dal trasferimento a Detroit. Quando erano a Fort Wayne, infatti, avevano compiuto tale impresa nel 1955.

Ad attendere i Bad Boys un’altra nemesi particolarmente agguerrita, i Los Angeles Lakers. Il leader della formazione californiana, Magic Johnson, era amico fraterno di Isiah. Entrambi passavano lunghe giornate l’uno a casa dell’altro, a parlare di tutto e condividere le proprie esperienze e sensazioni da amici fraterni. Addirittura il numero 32 aveva fatto preparare nella propria abitazione una camera da letto destinata esclusivamente a Thomas. La serie finale iniziò col celebre bacio nella guancia a centrocampo tra due dei più grandi playmaker della storia. Da lì in poi fu una vera e propria battaglia.

I Lakers erano alla ricerca dello storico back-to back, che mancava nella Lega dai Celtics di Russell. Dopo aver vinto il titolo nel 1987, faticarono moltissimo nei Playoffs della Western Conference, avendo la meglio di Utah e Dallas sempre e solo in 7 gare. Con la stanchezza evidente nelle gambe, la prima partita al Forum venne vinta abbastanza agevolmente dalla formazione ospite. Di classe, Los Angeles rispose vincendo le successive due sfide, prima di soccombere nettamente in gara-4 contro una spiritata difesa dei Bad Boys. Nella quinta ed importantissima partita, davanti ad un pandemonio di 41 mila spettatori, nell’ultima sfida disputata al Silverdome, Detroit batté nuovamente i Lakers, andando sul 3-2 e ad un passo dal titolo.

Tornati in California, Los Angeles si trovava per l’ennesima volta con le spalle al muro in quella postseason. A complicare l’assunto, un Thomas in versione 5 stelle extralusso. Nel terzo quarto il folletto dei Bad Boys segnò 14 punti consecutivi, ma la fortuna sembrò voltargli le spalle. In una penetrazione a canestro, la caviglia si infortunò seriamente. Isiah non riusciva a restare in piedi, ma volle tornare ugualmente sul parquet pur zoppicando vistosamente. In uno dei momenti più incredibili nella storia delle Finali, forse nella miglior prestazione di sempre all’atto conclusivo della stagione, Thomas realizzò altri 11 punti su di una gamba sola, 25 nel quarto e 43 totali. Detroit era ad un passo dal sogno, in vantaggio di tre punti ad un minuto dal termine. Scott segnò in sospensione e, dopo un errore dei Pistons, venne chiamato un contestatissimo fallo su Abdul-Jabbar, che segnò i due liberi della vittoria. Nel finale si sfiorò la rissa per un contatto tra un frustratissimo Rodman e Scott, ma la contesa era rimandata a gara-7. I Bad Boys diedero nuovamente battaglia, nonostante gli evidenti problemi fisici di Thomas. A guidare i Lakers fu James Worthy, che fece registrare un’incredibile tripla doppia, coadiuvato dal solito Magic. Los Angeles triturò gli avversari nel terzo quarto, andando anche sul +15, ma alzò le mani dal manubrio troppo presto. Laimbeer mise la tripla del -1 con 6 secondi da giocare, prima che Green segnasse in layup dopo passaggio a tutto campo di Johnson. C’era spazio per un’ultima preghiera, ma Thomas non ebbe nemmeno il tempo di prenderla, col pubblico in visibilio che aveva invaso il parquet. Lakers campioni sul 4-3, Bad Boys sconfitti ed incapaci di compiere l’ultimo gradino verso la gloria.

La stagione 1988-89 doveva essere, a tutti i costi, quella della consacrazione. Thomas, Dumars e compagni lo sapevano bene, sin dal training camp l’obbiettivo era stato prefissato, qualsiasi risultato diverso sarebbe stato considerato un fallimento. Quell’incredibile gruppo di ragazzi non aveva bisogno di ulteriori stimoli per pungolare il già altissimo livello di motivazioni. Detroit partì a razzo, con 8 vittorie consecutive e record eccellente per tutti i primi mesi di regular season, battendo puntualmente le solite rivali. A metà stagione, tuttavia, il management optò per un movimento di mercato che sconvolse l’usuale line-up della squadra. Con i Dallas Mavericks, infatti, venne architettato uno scambio che avrebbe portato nel Michigan Mark Aguirre in cambio di quella macchina da punti che rispondeva al nome di Dantley.

I tifosi, sulle prime, non la presero benissimo. Erano pessimisti riguardo alla decisione di scombinare la rotazione della squadra, perdendo un realizzatore di primissimo piano in cambio di un giocatore che, nei suoi ultimi tempi in Texas, aveva avuto tante frizioni con compagni e dirigenti. Aguirre era comunque un talento purissimo, prima scelta assoluta nel Draft 1981, All-Star e, non da ultimo, grande amico di Thomas da quando erano giovanissimi in quel di Chicago. Nonostante le perplessità iniziali, in breve Mark si calò alla perfezione nei meccanismi di Daly, accettando di buon grado un ruolo di secondo piano pur di arrivare alla vittoria finale. La scommessa si sarebbe rivelata azzeccata.

Il resto della regular season continuò sulla stessa falsariga. Alla fine le vittorie sarebbero state ben 63, nuovo record di franchigia e secondo di tutti i tempi, dietro solo alle 64 W del 2005-06. Al primo turno dei Playoffs, di nuovo i Boston Celtics per la quarta volta in cinque anni, questa volta senza Bird. La serie fu una mera pratica, come quella al turno successivo contro i Bucks. Qualche patema in più nelle Finali di Conference contro “certi” rivali divisionali, con tanti colpi proibiti e momenti di tensione col solito Laimbeer sugli scudi, ma l’obbiettivo minimo era stato centrato: i Bad Boys avrebbero disputato la seconda Finale consecutiva.

Ad attenderli nuovamente, come 12 mesi prima, i Los Angeles Lakers. I favori del pronostico erano ancora dalla parte dei Californiani, alla caccia di uno storico triplete che li avrebbe proiettati verso l’Empireo della NBA. Tuttavia, la fortuna li abbandonò proprio all’atto conclusivo della stagione. Prima di gara-1, infatti, Byron Scott si infortunò gravemente, dovendo saltare a piè pari le Finals. Con tale iniezione di fiducia, i Pistons, nel nuovissimo Palace di Auburn Hills, ebbero vita abbastanza facile, vincendo la prima sfida. Il peggio per Los Angeles, tuttavia, doveva ancora venire.

In gara-2, infatti, nel bel mezzo di una battaglia senza quartiere, arriva un nuovo crac. Questa volta è Magic a dover abbandonare partita e serie, colpito dallo stesso problema muscolare che aveva afflitto Scott. Colpa dei carichi di lavoro di Riley, si disse. Ma il danno era stato fatto. I Lakers lottarono pur privi delle loro due stelle. Nel finale ebbero la possibilità di mandare la contesa all’overtime ma Worthy sbagliò il libero della parità, consentendo ai Pistons di andare sul 2-0 nella serie.

Johnson provò eroicamente a giocare sul dolore in gara-3, ma dopo pochi minuti fu costretto definitivamente agli spogliatoi. Los Angeles si aggrappò letteralmente a Worthy e Abdul-Jabbar, alle ultime gare della propria leggendaria carriera. Nel terzo quarto, col punteggio in bilico, Detroit aveva bisogno di qualcuno che si prendesse la squadra sulle spalle con coraggio e determinazione. A rispondere fu Joe Dumars. La guardia segnò ben 17 punti consecutivi nel periodo, ma il meglio doveva ancora venire. Nell’ultimo quarto, complice qualche leggerezza degli ospiti, i Lakers ebbero l’opportunità di pareggiare la partita. David Rivers si trovò solo in angolo, sembrava potesse prendere la mira e sparare la tripla agognata. Con un mirabile gesto atletico Dumars rimontò l’avversario stoppando il tiro, salvando di fatto capra e cavoli.

Los Angeles, nonostante il cuore dimostrato, si arrese anche in gara-4, seppur sempre negli ultimi possessi. L’incredibile risultato finale era stato un sonoro 4-0 a favore dei Pistons, il che voleva dire solo e soltanto una cosa: i Bad Boys erano Campioni del Mondo. Una soddisfazione immensa per un gruppo di ragazzi temuti ed odiati dal resto della Lega, che aveva sempre sovvertito ogni pronostico andando ben al di là dei propri mezzi, giungendo infine al traguardo massimo per un giocatore di basket. L’MVP delle Finali venne assegnato a Dumars, un grandissimo riconoscimento per il silenzioso prodotto di McNeese State, che aveva contribuito con 27,3 punti nelle 4 gare, con la solita grande efficacia nella propria metà campo.

Thomas aveva messo a tacere ogni critica, riuscendo a conquistare il benedetto anello e provando, se ancora ce ne fosse stato il bisogno, che nonostante la ridotta statura era, ormai a tutti gli effetti, un vero campione. Anche i vari Laimbeer, Mahorn, Rodman e Salley, che non avevano mai fatto mancare il proprio apporto in termini di cattiveria ed intimidazione, potevano finalmente fregiarsi di un titolo che nessuno avrebbe mai potuto toglier loro.

Con i festeggiamenti che imperversarono nella Motown, in tutta la Lega vi era la convinzione che i Pistons sarebbero stati la squadra da battere anche nella stagione seguente. La certezza assoluta, tuttavia, non vi poteva proprio essere, dato che la NBA era stata investita in pieno da un tornado di proporzioni epiche, che infuriava nella Central Division spazzando ripetutamente i parquet di tutta America.

Come se non fossero bastate le randellate e le sfide all’OK Corral contro i Celtics ed i Lakers, era arrivato, già da qualche anno invero, il più fiero eversore dei Bad Boys. Era giunto il momento, infatti, di affidarsi alle Jordan Rules.

Alessandro Scuto

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