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Hall of Famer

Sugar Ray, che forte che sei

Madison Square Garden, New York. Sono da poco iniziati gli anni’80, una decade che rilancerà definitivamente la NBA e ci consegnerà tantissime pagine immortali di pallacanestro. Quella sera, di scena nella Grande Mela, ci sono i Boston Celtics di un certo Larry Bird. In un’azione il numero 33 tenta uno dei suoi classici passaggi laser da depositare poi dolcemente in fondo al canestro. Improvvisamente, senza preavviso, due mani veloci intercettano la sfera, recuperano il possesso e lanciano il contropiede. L’autore della giocata si ritrova in campo aperto contro Larry. Il movimento è inarrestabile anche per un futuro Hall of Famer, con tecnica e velocità da manuale del gioco 1vs1. Due punti per i Knicks.

Lui? Beh lui è l’unico, ancora oggi, di cui abbia mai avuto paura nel doverlo affrontare su di un campo da basket. Un giorno, prima di una gara, entrò nel nostro spogliatoio e, guardandomi, mi disse che mi avrebbe aperto in due”. Parole e musica di Isiah Thomas, non certo il primo nome che verrebbe in mente se associassimo i concetti di “paura” e “partita di pallacanestro”. Ancora non siete convinti? Ecco un’altra testimonianza: “Era uno che giocava proprio come me. Ogni volta che lo vedevo, ci affrontavamo a viso aperto…con tanto sano trash talking, per tutta la gara”. Questa volta, a parlare, nientemeno che Magic Johnson, uno che non ha bisogno di presentazioni né, tanto meno, che non sappia il fatto suo in materia di playmaker.

Il destinatario degli elogi sperticati di Thomas e Magic è lo stesso che rubò palla a Bird ridicolizzandolo nell’altra metà campo. Questa è una storia di un uomo, eroe di due mondi e forse anche più, ivi compresa anche l’Italia, campionato dove ha militato per ben 7 stagioni. Questa è la storia di Michael Ray Richardson, per tutti Sugar.

La parabola di Sugar Ray sembra ricalcare il classico stereotipo del giocatore che spreca il proprio grande talento a causa di personalissimi demoni personali di cui non riesce proprio a venirne a capo. Cadute, qualche affannosa risalita, l’esilio seguito da un riscatto che però, a differenza dei romanzi o dei film, non ha per forza un lieto fine, non almeno quello sperato. Lingua lunga, carattere focoso e, soprattutto, un rapporto alquanto problematico con una delle principali piaghe della pallacanestro a stelle e strisce dell’epoca, la droga.

Nato a Lubbock, nel Texas, l’11 Aprile 1955, Richardson sembra essere baciato sin dalla tenera età da Madre Natura. In dono riceve sia un talento notevolissimo sia, altro elemento importante, un fisico adatto per la pallacanestro. 1 metro e 96 per una novantina di chili, con mani rapide e veloci ed una grandissima visione di gioco abbinate ad una versatilità che gli permetteva di ricoprire i ruoli dal playmaker all’ala piccola. Uno che giocava proprio come Magic, insomma.

Terminato un interessantissimo quadriennio alla University of Montana, Sugar Ray decise di dichiararsi per il Draft 1978. Questa point guard alta aveva solleticato le fantasie di molti General Managers. Così, con la quarta chiamata assoluta, i New York Knicks decisero di scommettere forte su Richardson, destinato a rimpiazzare, nel giro di pochi anni, l’ormai declinante Earl Monroe. Per una squadra che si era ormai avviata verso il viale del tramonto dopo i due titoli vinti, le aspettative erano logicamente alle stelle. “The Next Walt Frazier”, si auguravano tifosi ed addetti ai lavori nella Grande Mela.

L’impatto nella Lega non fu certo dei più esaltanti. Solo 6,5 punti di media in meno di 17 minuti di utilizzo e Playoffs col binocolo. E mentre il titolo di Rookie of the Year andava a Phil Ford, i maggiori rimpianti dovevano essere riservati altrove. Nessuno poteva saperlo o immaginarlo all’epoca, ma due posizioni dopo Richardson, alla numero 6, i Boston Celtics, consci di doverlo aspettare altri 12 mesi, selezionarono Larry Joe Bird da Indiana State. Proprio quello della palla persa di inizio articolo.

L’anno seguente le aspettative sul giocatore erano lievemente calate. Nella Lega, oltre al 33 appena citato, a calamitare le attenzioni era arrivato un altro giovanotto, dal sorriso smagliante e dal gioco visionario, quel Magic Johnson di cui abbiamo già parlato poc’anzi. Incredibilmente, qualcosa scattò in Richardson. Gli venne garantito maggiore spazio e gli vennero affidate le chiavi della squadra, ma lo stesso l’esplosione fu tanto fragorosa quanto inaspettata. Divenne il primo giocatore della storia a guidare la Lega per assist (10,1) e recuperi (3,2) nella stessa annata, stabilendo contestualmente anche vari record di franchigia. Se ad essi aggiungiamo i 15 punti a gara, si intuisce subito come la convocazione per l’All Star Game fosse più che meritata. Era nata una stella.

Gli anni a New York furono un qualcosa di indescrivibile. Sul campo Sugar Ray era nell’elité NBA, una guardia che era forte nei contatti, veloce, in grado di dare una mano a rimbalzo (quasi 7 di media) e che non aveva paura di niente e nessuno. Inevitabili furono altre due selezioni per la parata delle stelle. Richardson era diventato uno dei giocatori più spettacolari del basket a stelle e strisce, capace ad esempio di chiudere una gara contro Cleveland con una decente stat line: 27 punti, 15 rimbalzi e 19 assist. Per due anni di fila venne incluso nel primo quintetto difensivo della Lega. Tuttavia, in agguato stava appostato il lato oscuro della Forza, dall’aspetto per alcuni affascinante ma con dei pericoli insiti.

The Dark Side of The Big Apple lo aveva colto di sorpresa. Le luci e le attrazioni tentacolari della città accolsero a braccia aperte Sugar Ray. L’incontro con la femme fatale, la cocaina, gli avrebbe cambiato per sempre la vita. Entrò nel vorticoso tunnel della droga, dalla quale non sembrava in grado di venirne fuori. Nonostante le proprie grandi giocate, Richardson non riuscì a trascinare di peso i Knicks verso grandi traguardi. Fuori dal campo, il carattere del giocatore divenne sempre più ingestibile. Frequenti furono i contrasti con compagni e allenatori, spesso per mere questioni economiche. Le feste, le macchine di lusso e la bella vita avevano come contraltare comportamenti immaturi che scaturivano, talvolta, in vere e proprie sparizioni. A nulla valse l’essere diventato un beniamino del pubblico; New York lo cedette nell’Ottobre del 1982 ai Golden State Warriors come compensazione dell’arrivo ai Knicks di Bernard King.

La permanenza nella Bay Area fu di breve durata. Dopo 33 gare venne ceduto ai New Jersey Nets in cambio, sostanzialmente, di Sleepy Floyd. Chiuse l’annata rivincendo la classifica dei recuperi, ma le tendenze autodistruttive si ripresentarono in massa, stante anche il ritorno nella zona d’influenza della Grande Mela. Nella stagione successiva, la 1983-84, saltò quasi metà regular season. La cocaina scandiva il ritmo delle sue giornate in modo compulsivo. Nel giro di 5 mesi entrò in 3 cliniche diverse per cercare di porre un freno ad una situazione che stava decisamente sfuggendo di mano. I Nets lo tagliarono ma, nel giro di poco tempo, decisero di reinserirlo in squadra. Il ragazzo dall’andatura particolare e che doveva essere uno dei migliori playmaker della Lega, si ritrovava ormai ai margini della stessa.

Le cose non sembrarono volgere al meglio nell’autunno seguente. In preda ad una crisi di astinenza Michael fuggì dall’allenamento dei Nets per trovare rifugio in un motel e dare sfogo ai propri demoni. Il coach di New Jersey, Stan Albeck, lo rintracciò e decise di fargli un discorso a cuore aperto, dimostrandogli come l’organizzazione intera lo volesse aiutare a ritrovare la retta via. Le parole di Stan lasciarono il segno. Sugar Ray disputò una grandissima annata, firmando il proprio career-high di punti di media (20,1), rivincendo la classifica dei recuperi (3 a gara) e ritrovando la convocazione per l’All Star Game. A fine anno venne insignito del Comeback of the Year, un trofeo, ormai in disuso, che veniva assegnato ai giocatori che tornavano di prepotenza sul proscenio dopo una certa inattività. Era pensato per coloro i quali fossero ritornati da seri infortuni ma, di fatto, nell’albo d’oro figurano alcuni consumatori incalliti di stupefacenti.

Nella off-season firmò un nuovo contratto e partecipò ad alcune campagne anti-droga volute dalla Lega. Sembrava finalmente un uomo nuovo, pulito e pronto a riconfermarsi come stella luminosa nel firmamento NBA. Poi, dolorosa, l’ennesima ricaduta.

Nel Dicembre 1985 Richardson scomparve di nuovo. Nessuno seppe più nulla di lui per giorni ma, quando riapparve, era chiaro che era risprofondato negli abissi della cocaina. Per aver fallito per tre volte i test anti-droga il Commissioner David Stern decise di bannarlo dalla Lega il 25 Febbraio 1986, dopo l’ennesimo caso di cronaca nera che lo vedeva coinvolto. Era la prima volta che un giocatore di quella caratura veniva estromesso in maniera così brutale, ma servì da caso esemplare e monito per tutti gli altri. La NBA stava cercando in tutti i modi di ripulire la propria immagine, che aveva subito già discreti colpi in tal senso sin dagli anni Settanta. Pochi mesi dopo, con la scomparsa prematura di Len Bias per overdose, si sarebbe raggiunto l’acme, costringendo Stern ad adottare un necessario pugno duro.

Scaricato dai Nets, emarginato dal Commissioner e senza un dollaro, Sugar Ray si ritrovò ad un bivio importante della propria vita. Dopo aver provato a girovagare nelle Minors, capì che il suo posto non poteva più essere negli Stati Uniti, nonostante fosse stato “graziato” dal grande capo in persona, suo amico fraterno da allora. In suo soccorso arrivò un’offerta dal Belpaese. Nel 1988 venne ingaggiato dalla Virtus Bologna, sotto consiglio di un certo Dan Peterson.

Le avventure di Richardson in Italia sarebbero degne, probabilmente, di un libro a sé stante. La Knorr, col suo biennale, era arrivata prima di alcune squadre NBA che avevano offerto al giocatore un contratto annuale. La classe, un po’ annacquata a dire il vero, lo fece diventare uno degli idoli della curva, che gli perdonarono i classici atteggiamenti del Ray di sempre e qualche prestazione indolente in campo. Il genio aveva la precedenza sulla sregolatezza, sulle risse causate, le sospensioni, le richieste economiche e le tante bizze che facevano parte, ormai, del repertorio del numero 20. Con lui Bologna vinse due Coppe Italia ed una Coppa delle Coppe, fallendo però l’obbiettivo-scudetto. Tanti numeri e magie, con alcuni All Star Game da assoluto padrone, ivi compreso quello in cui ne mise 50 al cospetto di tanti ottimi giocatori, in uno dei periodi più smaglianti della pallacanestro italiana.

Nell’agosto del 1991, tuttavia, ecco l’ennesimo colpo di scena. La Virtus lo licenzia in tronco, adducendo gravi inadempienze disciplinari. La cocaina era tornata a bussare, si vociferava negli ambienti. La FIBA era sul punto di radiarlo ma Richardson con veemenza si difese dalle accuse. Trovò un accordo in Croazia con Spalato, dove vinse la coppa nazionale. Le sirene italiane lo indussero a tornare nuovamente entro i nostri confini. Per un biennio vestì la maglia di Livorno, dove visse costantemente sul filo del rasoio, tra le minacce di tagli immediati ed alcune prestazioni rimarchevoli, soprattutto nel primo anno.

Nel suo girovagare europeo, Sugar Ray si ritrovò per 3 anni in Francia, dove vinse nel 1995 il campionato con la maglia dell’Olympique Antibes. Terminata anche questa esperienza, ecco il terzo ritorno nel Belpaese, dapprima con Forlì ed infine, a 45 anni suonati, nuovamente a Livorno, dalla cui squadra venne tagliato nel Febbraio del 2000. Dopo un’altra comparsata in Francia, a quasi 50 anni Michael Ray Richardson decise di porre fine alla propria carriera agonistica.

Storia finita? Nemmeno per sogno. Nel 2003, tramite intercessione di Stern, tornò nella NBA come Community Ambassador per i Denver Nuggets. 12 mesi dopo ecco iniziare l’avventura da allenatore nelle Minors. 3 anni ad Albany nella CBA, stessa lega ma pochi mesi negli Oklahoma Cavalry ed infine Lawton-FT Sill Cavalry, condotta a due titoli CBA nel 2008 e nel 2009. Il temperamento ed i comportamenti? Sempre focosi e spesso discutibili. Come quando, nel Marzo del 2007, se ne uscì con commenti poco tempestivi e dal sapore stereotipato sugli Ebrei e su come, parole sue, “fossero bravi ed industriosi in certe cose in quanto odiati nel mondo”. Oppure come quando nel 2010 venne espulso durante le finali della PBL per aver protestato veementemente contro una chiamata arbitrale, dando il la ad un parapiglia che coinvolse anche i tifosi sugli spalti.

Il pellegrinaggio di Richardson lo ha portato, infine, in Canada dove, allenando i London Lightning, ha vinto gli ultimi due titoli nazionali. L’uomo, oggi, dichiara sicuro di essere stato finalmente recuperato. I tanti errori del passato sono stati riposti in un cassetto, che deve però rimanere sempre a vista per ricordare, comunque, la grande occasione persa negli anni Ottanta, quando la cocaina era diventata l’unico avversario che non poteva essere battuto in crossover. Suo malgrado, è diventato uno degli esempi da non dover mai seguire, una fonte d’ispirazione al contrario, il manuale di come non dover sprecare il talento ricevuto in dono da Madre Natura. Pazienza se la lingua lunga dovesse tornare ogni tanto a fare capolino tra le notizie del giornale. Sugar Ray è stato amato, tanto, anche in virtù di quella sregolatezza che lo ha reso celebre in due continenti lungo trent’anni dedicati, non sempre con profitto, alla pallacanestro.

Alessandro Scuto

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