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Hall of Famer

50 anni di Postino

24 Luglio 1963: a Summerfield, Louisiana, nasce Karl Anthony Malone, nono figlio in una famiglia gestita interamente dalla madre, Shirley, stante l’assenza del padre, una costante nelle storie di molti giocatori NBA. Il piccolo Malone si adatta presto alla tipica vita contadina, lavorando quotidianamente nella fattoria, andando spesso a pesca e a caccia. Per la fortuna degli appassionati di questo sport, Karl si avvicinò presto alla pallacanestro, facendo intravedere le proprie doti alla locale High School.

Nonostante alcune offerte importanti, il giocatore, una volta giunto il momento di andare al college, preferì rimanere vicino casa. Per questo motivo scelse Louisiana Tech University, che non godeva di grande fama nel panorama cestistico NCAA. Grazie alla presenza di Karl , che già stava iniziando a mettere su un fisico da culturista, la squadra raggiunse il primo torneo NCAA della sua storia. Con la maglia dei Bulldogs Malone fece registrare numeri importanti, con tanto di 20+10 al primo anno, facendo incetta di vari premi e riconoscimenti. Dopo 3 anni decise di tentare l’avventura nel mondo professionistico, dichiarandosi per il Draft 1985.

With the thirteenth pick in the 1985 Draft, the Utah Jazz select..Karl Malone, from Louisiana Tech”. Commissioner solo da un anno, David Stern chiamò sul palco il futuro Hall of Famer, che si presentò con uno dei completi più curiosi di sempre. Col senno di poi, Malone sarebbe stato scelto alla numero 1, massimo la 2, ma col Draft gli abbagli sono sempre stati all’ordine del giorno. Per la fortuna dei Mormoni, quindi, uno dei giocatori più forti di tutti i tempi ha dovuto attendere ben 12 nomi prima di iniziare ufficialmente l’avventura NBA.

I Jazz erano una franchigia relativamente giovane, che veniva da due anni di Playoffs. Sotto la guida di Frank Layden, la squadra poteva vantare ottimi elementi nel proprio roster. Miglior giocatore e top scorer era Adrian Dantley, un’ala piccola sotto i 2 metri ma che dominava all’interno dell’area. Mark Eaton, la sequoia gigante che impediva l’accesso al canestro di Utah, era il centro indiscusso. Poi, scelto nel 1984, c’era un piccolo playmaker bianco, dal fisico normalissimo, che partiva dalla panchina salvo rare eccezioni. All’anagrafe faceva John Stockton lo stesso nome che, curiosamente, compare in cima alla classifica all-time di assist e recuperi.

Malone si inserì subito alla grande nella squadra. Quasi 15 punti e 9 rimbalzi di media, con ovvia inclusione nel quintetto delle matricole. I Jazz si qualificarono per la postseason, venendo però subito estromessi dalla competizione. Nell’annata seguente Karl divenne il top scorer e rebounder di squadra, ma Utah fu fatta fuori al primo turno dai Warriors.

La stagione 1987-88 segnò l’inizio di una nuova era. Malone fece registrare quasi 28 punti e 12 rimbalzi a gara (career-high), guadagnandosi la prima di innumerevoli convocazioni all’All Star Game. Un dato fa riflettere: fu la prima annata da titolare per Stockton, che rispose vincendo la classifica degli assist. Fu quindi 25 anni or sono che vennero gettate le basi per una delle più straordinarie coppie NBA di sempre. “StocktontoMalone”, da leggere rigorosamente tutto d’un fiato, il braccio e la mente, un’incredibile connubio che fece le fortune non solo dei due giocatori, ma anche della squadra e di milioni di appassionati in tutto il mondo. Resa immortale dal celebre telecronista dei Jazz, Hot Rod Hundley, quest’espressione è entrata nell’immaginario collettivo del basket degli anni’90, crescendo di pari passo alla forza della squadra stessa.

 

Mancava un’ulteriore tassello nella costruzione del team. Nonostante avesse guidato i Jazz sino a gara-7 della Semifinale di Conference, perdendo contro i Lakers poi campioni, all’inizio della stagione successiva Frank Layden venne rimpiazzato da un assistente, Jerry Sloan. Sarebbe rimasto seduto su quella panchina per 23 anni. Con la squadra che iniziava a seguire gli schemi del coach, giocando a regola d’arte il pick&roll, anche i numeri di Malone iniziarono a lievitare. Il numero 32 vinse quell’anno il titolo di MVP dell’All Star Game, finendo contestualmente nel primo quintetto NBA. La squadra venne però eliminata al primo turno, copione che si ripeté anche la stagione successiva, nella quale Malone fece registrare la sua più alta media realizzativa, 31, ed il career-high di punti, 61, tutti cuciti sulla pelle dei Milwaukee Bucks. Anche quell’anno però i Jazz non riuscirono a superare le colonne d’Ercole del Primo turno.

Grazie ad un fisico imponente che risultava indigesto ai pari-ruolo, ad un grande lavoro tecnico, ai miglioramenti ai tiri liberi ed agli assist di Stockton, i numeri di Malone divennero impressionanti. Fu in quel periodo che venne coniato il soprannome che lo accompagna da una vita, Il Postino, dato che “consegnava” sempre il pallone dentro il canestro. La squadra, dopo le delusioni iniziali, divenne una delle corazzate della Western Conference. Tra il 1992 e il 1996 Utah raggiunse per 3 volte le Finali di Conference. La prima volta si arresero in 6 gare ai Portland Trail Blazers nonostante il grande contributo del Postino. Nel ’94 furono i Rockets, futuri campioni, a sbarazzarsi di Malone e soci in 5 partite. Infine, nel 1996, Karl e compagni si arresero in 7 gare ai Seattle Sonics di Payton e Kemp, complice anche una brutta partita del numero 32. Per Utah scalare l’ultimo passo prima della vetta sembrava impossibile.

Oltre ad un altro titolo di MVP dell’All Star Game, in coabitazione con Stockton, per Malone arrivò nel 1992 la chiamata nell’unico, inimitabile Dream Team. Da sempre molto fiero del suo paese, Karl fu uno dei dodici eletti della squadra dei sogni che dominò le Olimpiadi del 1992. Il postino riuscì a bissare il successo anche quattro anni più tardi in quel di Atlanta, portando a 2 le medaglie d’oro nel suo personale palmarès. 

Insieme ai meriti sportivi, Karl assunse agli onori della cronaca per due fatti particolarmente controversi. Nel Dicembre del 1991, nel corso di una partita contro i Detroit Pistons, Malone colpì con una violenta gomitata Isiah Thomas, che ebbe bisogno di ben 40 punti di sutura. Circa un anno dopo, criticò la decisione di Magic Johnson di tornare al basket giocato dopo il primo ritiro causato dal virus HIV. Nonostante fossero stati compagni pochi mesi prima a Barcellona, il Postino fu uno dei più ostici avversori di Magic che, di fatto, mise in un angolo la sua voglia di comeback.

1996-97 e 1997-98. Due stagioni che resteranno vivide nella mente dei tifosi dello Utah e in quella di Malone. I Jazz riuscirono a compiere l’ulteriore salto di qualità, raggiungendo per due volte consecutive le NBA Finals. Nel primo caso Karl vinse anche il titolo di MVP della regular season, con un’annata da incorniciare. Sfortunatamente, mancò alla squadra il guizzo finale: in ambedue le circostanze, infatti, furono i Bulls di Jordan ad avere la meglio, con alcune tra le partite più belle nella storia delle Finali. Proprio Malone, a dire il vero, ebbe sul groppone le sconfitte più brucianti. In gara-1 nel ’97, giocata di domenica, col punteggio in parità sbagliò i due tiri liberi del sorpasso a pochi secondi dal termine, con Scottie Pippen a pronunciare la famosa frase “I Postini non consegnano di domenica”. In gara-6, un anno dopo, fu lui a farsi rubare il pallone da Jordan nell’azione forse più famosa nella storia dell’NBA, cancellando di fatto due partite da dominatore assoluto. Epici furono anche i duelli con Dennis Rodman, dentro e fuori il parquet, con tanto di sfida sul ring della WWE. Come per molte vittime di Michael, una delle squadre più forti di sempre chiudeva la propria parabola restando a bocca asciutta.

 

Nell’anno del lockout Malone rivinse il titolo di MVP della Lega, ma la squadra non seppe approfittare del ritiro di Jordan, perdendo al secondo turno contro i Blazers. Il copione fu pressoché identico negli anni seguenti. Karl era irreale, giocando come un ventenne, battendo rivali di molti anni più giovani e prendendosi il lusso di dominare come ai vecchi tempi. La squadra aveva ormai esaurito il suo ciclo e non aveva più molto da dire, venendo eliminata per 3 volte di seguito al Primo Turno. Sul finire di gara-5 contro Sacramento nel 2003, con sconfitta ed eliminazione ormai certe, il vecchio guerriero venne richiamato per l’ultima volta sulla panchina dei Jazz assieme al fidato Stockton, con il pubblico dell’ARCO Arena a tributare una commovente standing ovation.

 

Con il ritiro di John, sembrava certo anche il commiato di Karl, stante le tante frizioni negli anni col proprietario Larry Miller. Volendo soddisfare la malsana voglia di anello, Malone firmò tuttavia con i Los Angeles Lakers in cerca di nuova linfa dopo il recente Three-Peat. Indossando la maglia numero 11, Malone fu tra i più motivati e assetati di vittoria. La sfortuna però si accanì su di lui. Saltò 40 partite di stagione regolare per un infortunio al ginocchio che lo condizionò pesantemente anche durante le Finali contro Detroit. Proprio lui che era mancato solo in 10 gare in 17 anni, squalifiche comprese. Con la terza sconfitta in altrettante Finali, calava così il sipario sulla carriera di uno dei mostri sacri di questo gioco.

Si ipotizzò un rientro ai Lakers, ma un alterco con Vanessa Bryant e relativo marito fece saltare il possibile rinnovo. Si parlò di un interessamento anche di Knicks e Spurs, ma fu lo stesso Karl a smentire i rumors e ad annunciare ufficialmente il ritiro. Dopo poco tempo gli venne ritirata la maglia e dedicata una statua posta fuori da quel palazzetto infuocato che era il Delta Center. Scontatissima anche l’elezione nella Hall of Fame, nella quale entrò nel 2010.

Oggi Malone, ancora grande appassionato di caccia e pesca, è rientrato in seno all’organizzazione dei Jazz. Attualmente, infatti, lavora con i big men del futuro della franchigia, Favors e Kanter. Nonostante abbia dichiarato di non voler essere una distrazione per la squadra, per la gioia dei tifosi potrebbe un giorno tornare a sedersi su quella panchina, anche come assistente allenatore.

 

I freddi numeri possono far capire la portata del fenomeno Malone. Il Postino ha chiuso come secondo realizzatore all-time (36928 punti), quarto in partite giocate, secondo in minuti, primo in liberi tentati e realizzati, settimo rimbalzista, undicesimo nei recuperi e primo in palle perse. Da molti considerato come la più forte power forward di tutti i tempi, la carriera di Karl Malone è riassumibile in un unico aggettivo: eccezionale. Poco importa se quel maledetto titolo non è arrivato; il Postino dai muscoli strabordanti e dalle mani dorate è entrato di diritto nell’Olimpo della pallacanestro mondiale. Auguri King Karl!

Alessandro Scuto

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