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5 retroscena sui Chicago Bulls del secondo three-peat

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QUESTO E’ PER TE PAPA’

Miachel con suo padre James

Non è affatto scontato che i giocatori professionistici americani abbiano un buon rapporto con le loro radici e i loro affetti famigliari. Molti di loro infatti provengono da quartieri difficili e poveri, aggettivi che calzano a pennello anche alle loro famiglie, dove spesso la madre è l’unico punto di riferimento, visto che il padre è uscito una volta a prendere il latte e le sigarette per non fare più ritorno come da tristissima abitudine afroamericana e non solo.

Storie che se contestualizzate nelle nostre città sembrano estreme e rare, ma che nelle immense dowtown statunitensi tra i palazzoni dell’edilizia popolare e gang con il ferro nei pantaloni rappresentano la dura realtà quotidiana.

Un background comune a molti in NBA, ma non a tutti, e tra questi fortunati c’è Michael Jordan.

Suo padre James infatti era un uomo pieno di speranza e con un sorriso sempre stampato sul volto; aveva insegnato fin da bambino a Michael come si sta al mondo: da uomo retto.

Non gli ha mai risparmiato neppure in tenera età critiche e frecciatine cercando di motivare MJ a dare sempre il meglio.

Certo voi direte che Michael non abitava a Compton o a Coney Island e che quindi molti problemi non lo sfioravano neanche, e conseguentemente anche il ruolo del padre era in un certo senso più semplice, ma commetteremmo un errore se semplificassimo le cose in questo modo, infatti non si deve sottovalutare Wilmington (North Carolina).

Wilmington è verso il sud degli Stati Uniti, un luogo dove fino a pochi decenni prima della nascita di Jordan se un afroamericano veniva visto giocare per strada con la palla poteva venire frustrato a norma di legge e linciato a norma di popolo, un posto dove c’erano i bus per i bianchi e i bus per i neri, di fatto un luogo razzista a pieno titolo.

James questo lo sapeva bene, e proprio perché ne era pienamente conscio pensava che Michael doveva imparare a convivere con ciò senza mai abbassare la testa, affrontando l’odio dei bigotti e degli ignoranti in modo non violento ma costruttivo, come un’enorme serbatoio di motivazione dal quale attingere per cercare di essere migliore di ciò che lo circondava.

Negli anni seguenti alla sua infanzia ed adolescenza come tutti ben sappiamo la carriera di Jordan decollo, e sul sedile del copilota James prendeva sempre posto puntualmente, in modo da essere sempre in grado di intervenire nel caso Michael avesse dovuto affrontare qualche turbolenza inaspettata, pronto a dispensare quei consigli disinteressati che solo un padre sa donare al proprio figlio.

Una situazione ideale per MJ ma destinata a terminare tragicamente.

E’ il Luglio del 1993 quando James torna in North Carolina per assistere ad un funerale di un vecchio e caro collega di lavoro, le cose vanno per le lunghe al rinfresco (classica tradizione statunitense) dopo la funzione e J.J. perde l’aereo che lo avrebbe dovuto riportato il giorno dopo a Chicago, James tuttavia non aspetta la mattina seguente e decide di affrontare il viaggio di ritorno in macchina.

Ovviamente si fa notte, è stanco, e decide di accostare per riposarsi sul ciglio della strada, inconsapevole che poco più avanti alcuni delinquenti ispanici avevano appena cercato di rapinare un distributore e che ora avevano puntato proprio quella bella macchina sul ciglio della strada, quella di James.

Il seguito non è difficile da immaginare, il padre di Michael si sveglia spaventato e i delinquenti lo freddano istintivamente

Il colpo è duro, profondo, e colpisce Michael dritto al cuore, ha perso il suo copilota, e con lui inizia a perdere molti degli stimoli che lo hanno spinto fino a quel giorno a donarsi anima e corpo alla pallacanestro; se prima il ritiro era una sbiadita strada nella testa di Michael, ora gli sembra la cosa più giusta per se stesso da fare, ed effettivamente è quello che accade.

Come tutti sappiamo Michael sarebbe tornato, eccome se darebbe tornato, sul finire della stagione 1994 decide di riprendere in mano la sua carriera da cestista e aggiungere ad essa pagine indimenticabili.

Sicuramente la più commovente di queste è quella che riporta la vittoria del titolo contro Seattle nel 1996.

Gara 6 si gioca il giorno della festa del papà, Chicago vince partita e serie, Michael è MVP e dopo aver abbracciato Pippen raccoglie a centrocampo la palla della vittoria per tornare silenzioso e solitario negli spogliatoi.

Jackson lo ritrova steso sul pavimento, supino con la palla sotto il braccio, le lacrime gli rigano il volto.

Dopo alcuni minuti riesce a riprendere il controllo su se stesso per cercare di articolare una testimonianza ai microfoni dei giornalisti, che nel mentre si erano accalcati nei pressi dello spogliatoio dei Bulls.

Michael dedica la partita e la vittoria al padre ” Questo era forse il giorno più difficile per me per giocare a Basket, avevo tante cose che mi passavano per la mente e nel cuore… E forse il mio cuore non era in sintonia con quello che dovevo fare e con il luogo in cui mi trovavo. Ma dentro di me sapevo che era in sintonia con quello che è più importate per me, ovvero la mia famiglia e mio padre che oggi non era qui a vedermi. Sono solo felice che la squadra mi abbia trascinato alla vittoria, perché è stata una serata molto difficile per me”.

Le immagini originali e la breve intervista in link

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