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Detroit Pistons

Pistons are back!

La strada per diventare una contender è ancora molto lunga per i Detroit Pistons, ma finalmente coach Van Gundy sembra aver trovato il cocktail di difesa e spacing ideale per far funzionare la sua creatura.

“We wanted to have that old-school Detroit basketball mentality that is going out there, grinding out each and every game and playing defense first and letting the rest of the game come to us”.

La citazione è di Avery Bradley, senza dubbio il miglior acquisto estivo dei Detroit Pistons. Sta dicendo che lui e i suoi compagni vogliono giocare una pallacanestro che prima di esplorare la parte tattica deve esprimere una tenacia e una grinta degna del basket che si giocava a Detroit.

Non lo dice ma la sua mente quasi sicuramente si ferma agli ottanta e novanta, quando la canotta dei Pistons era indossata da un collettivo tra i più indesiderati e indesiderabili da incontrare su un campo da basket. I “Bad Boys” erano soprannominati e chi è un po’ più in là con gli anni non farà fatica a ricordarsene. Quella squadra aveva diverse lacune ma giocarci contro era veramente difficile perché nessuno avrebbe mai desiderato il pallone più di loro e su 48 minuti era una guerra, estenuante e logorante, spesso incurante del regolamento.

Nel 2017 quel modo di intendere la pallacanestro non è più praticabile ma questi Detroit Pistons non sono una contender, non hanno una batteria di giovani su cui costruire, e in panchina non c’è un cultore dello small ball. Anche le statistiche non raccontano di una squadra strabiliante eppure al momento al terzo posto della Eastern Conference ci sono loro. Il motivo? Perché per quanto ci possa provare il lungimirante mondo della statistica non potrà mai imbrigliare lo sforzo, la grinta, la volontà di arrivare per primi su quel pallone o di impedire a un giocatore avversario di concludere a canestro. Non è dato sapere quanto dureranno, ma una squadra con questo tipo di mentalità merita il nostro tempo e la nostra curiosità.

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Credits to hoopshabit.com

Good offense beats good defense, forse

In tempi recenti l’assunto ritenuto leggermente al di sotto di un postulato, “l’attacco fa vendere i biglietti, la difesa fa vincere le partite”, sta subendo nell’universo NBA un ribaltamento di canone stimolato dall’irreale produzione offensiva dei Golden State Warriors che ha spinto la maggior parte delle franchigie NBA ad adottare uno stile di gioco basato su un alto numero di possessi e sulla continua ricerca di tiri ad alto potenziale. Il risultato è il totale burnout della lega che porta ad una delle statistiche più rivelatrici dei tempi moderni.

La fisica tuttavia ci insegna che ad ogni azione corrisponde una reazione uguale o contraria. Sulle imitazioni di Steph&co. ci si potrebbe dilungare fino a stancarsi ma come per ogni fenomeno osservabile sono i dati in controtendenza a suscitare più interesse da parte di chi indaga. Se non altro perché al momento la variante impazzita occupa il primo posto nella lega e nonostante la pallacanestro di Brad Stevens sia costantemente rinfrescata si basa anzitutto su una solidità difensiva dalla quale non può prescindere.

Avere gli uomini giusti aiuta e infatti tra i primi dieci giocatori per Defensive Rating ben cinque sono dei Celtics con la risultante di avere il miglior dato difensivo su 100 possessi e il miglior record della lega nonostante il PACE li collochi al ventunesimo posto. Ancora più in giù, al ventiquattresimo posto per la precisione, ci sono i Detroit Pistons che guarda caso sono anche loro ai vertici della conference.

Da quando Stan Van Gundy è arrivato nel Midwest ha dimostrato due cose: la prima è che la combo head coach+GM non è un gran binomio, la seconda è che nonostante ci abbia messo un po’ di tempo sembra aver capito dove sta andando il gioco e come piegarlo alla sua volontà. Lentamente ma inesorabilmente ha aumentato i possessi giocati dalla sua squadra, il numero di triple tentate, ha ridotto le situazioni in post e i tiri dal mid-range, ma soprattutto ha costantemente sviluppato l’impianto difensivo della squadra. L’arrivo di Bradley, il ritorno di Tolliver, la presenza di giocatori potenzialmente dominanti in difesa come Drummond e Stanley Johnson stanno rendendo questa stagione la prima vera recita dei Detroit Pistons come li avevi pensati coach Van Gundy.

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Quando capisci che forse quest’anno ci si diverte

Partendo proprio dalla difesa i Pistons hanno l’ottavo DefRtg in NBA, hanno uno dei migliori difensori su cento possessi dati alla mano (Tolliver) e uno dei primi cinque difensori perimetrali della lega in Bradley. Più in generale la protezione del perimetro è affidata a giocatori atletici, in grado di cambiare sistematicamente sui blocchi e reattivi nei close-out. Ad un primo sguardo si potrebbe immaginare che si tratti di una squadra ossessionata dal non concedere tiri puliti agli avversari, ma in realtà il piano gara dei Pistons di solito è un altro.

Nelle rotazioni non sono ineccepibili, soltanto Magic e Clippers contestano meno tiri a partita, eppure l’idea di sfidare gli avversari al tiro, specialmente dopo che hanno dovuto sudarsi quel tiro contro difensori aggressivi come Bradley, Johnson, Galloway o Tolliver non è poi una cattiva idea se hai un totem a prendere rimbalzi. In questo inizio di stagione Drummond viaggia a 15,7 rimbalzi a partita. Il secondo è Whiteside, non il peggior rimbalzista che possiate incontrare, che ne recupera quasi due in meno. Addentrandoci ancora di più nel magico mondo di Andre scopriamo che è primo anche per REB% e subisce appena 6,2 punti a partita da seconde chance. Per dire, vi piace DeAndre Jordan come rimbalzista? Contro di lui gli avversari segnano 7,9 punti sulle seconde chance. È più facile vincere alla lotteria che contestare un rimbalzo difensivo a Drummond e cavarci fuori qualcosa di buono.

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Per quanto i meccanismi lasciano ancora margini di miglioramento anche la coppia Steph-KD si deve sudare il tiro che poi va corto. Drummond nemmeno si impegna a rimbalzo…

Stare al passo

Tuttavia la maturazione tattica dei Pistons parte dalla difesa ma trova la sua più evidente manifestazione nella metà campo avversaria, dove finalmente è diventata una squadra pericolosa in svariate situazioni. Nel giro di un anno le percentuali da 3 sono schizzate dal 33% al 38% attuale, più nel dettaglio gli unici due tiratori sotto il 30% da oltre l’arco sono Bullock e Ish Smith. I Pistons adesso sono consapevoli di avere una batteria di tiratori notevoli e quando entrano in fiducia adottano il tiro pesante come soluzione principale. Questa fiducia unita ad un momento particolarmente favorevole al tiro sta portando risultati molto positivi.

Bradley sta tirando con il 45%, Galloway con il 42%, Kennard, che oltre ad essere uno shooter di primissimo livello sta dimostrando di meritarsi un posto nella lega, con il 39%, il tutto sugellato da un Tobias Harris in un multiverso tutto suo in cui tirare con il 48% su 6,1 conclusioni da 3 a partita è perfettamente normale. Durant che ha lo stesso volume di tiri accarezza il 44%. Vale? A quanto pare.

Non parliamo certo di una squadra che fa del tiro perimetrale il suo mantra (in quindici tirano da 3 più dei Pistons) ma che ha recepito i segnali del modernismo ed è passata dalle 23 conclusioni da oltre l’arco della scorsa stagione alle 29 di questa. Molto deriva proprio dalla volontà di giocare più possessi e quindi prendere tiri ad inizio azione, meglio se da oltre i 7,25m. Anche perché giocatori che amano andare in post up e giocare in isolamento ce ne sono parecchi ma nessuno domicilia in Michigan. Reggie Jackson è il giocatore della franchigia che gioca più possessi in isolamento per partita e si ferma a 2,1, Drummond gioca appena 1,3 possessi in post.

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Dove sono? Perché ci sono? Dov’è il tiratore?

Non sono cambiate soltanto le dinamiche ma anche gli uomini tanto da rendere Detroit una squadra perimetrale che abusa di situazioni di hand-off (nessuna squadra nella lega ha frequenze più alte) perché ha i giocatori per farlo. Perfino Drummond, storicamente inutile in qualsiasi posizione che non sia sotto il canestro, sta cominciando ad occupare meglio il campo e anche se non è pericoloso al tiro fa tante cose utili per la squadra da bloccante o da playmaker occulto (3,4 assist a partita, soltanto in sei fanno meglio di lui tra i centri).  Inoltre per chi non se ne fosse accorto sta tirando i liberi con il 61%. L’anno scorso eravamo fermi al 38%.

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Consegnato, rolling e bimane. Il timing è perfetto.

Non diventerà Horford e più in generale i Pistons non diventeranno i Warriors (10,8 punti a partita da situazione di contropiede sono pochini) ma il processo di crescita di questa squadra sembra finalmente instradato correttamente. Lo conferma anche il dato sulle modalità attraverso le quali vengono presi i tiri pesanti: l’87,5% delle triple tentate sono assistite, soltanto cinque squadre sfruttano maggiormente il ball movement per tirare da oltre l’arco.

Al momento i Detroit Pistons sono una delle squadre più difficili da affrontare. Sicuramente una delle più imprevedibili, poiché alla solida struttura difensiva possono abbinare una grande serata al tiro o possono saltare un giro ricadendo nei mal celati vizi delle passate stagioni. La strada per arrivare ai playoff è ancora e lunga e nonostante alcune rivali stiano zoppicando coach Van Gundy dovrà continuare ad implementare la sua visione del gioco da qui ad aprile.

I Pistons dovranno diventare più incisivi nella metà campo difensiva, contestando più tiri, migliorando le letture su set offensivo degli avversari e insomma creare problemi che non si riducano a battere l’avversario diretto ma che intacchino i meccanismi avversari. In attacco onestamente riesce difficile vedere grandi margini di miglioramento. Questa squadra ha trovato una sua dimensione offensiva che li rende il decimo attacco della lega su 100 possessi. Al momento sembra impossibile pensare ad un ulteriore miglioramento se non altro perché chi sta davanti (e anche alcuni che stanno dietro) vanta delle potenzialità offensive ben superiori a quelle dei Pistons.

Giocarsi un primo turno di playoff con il fattore campo a favore sarà verosimilmente il massimo risultato a cui questa squadra potrà ambire. Poi si vedrà. D’altronde l’importante è “macinare” gli avversari, difendere, e lasciare che la partita venga da noi. Vero Avery?

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