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Chris Andersen: l’incredibile storia di un ragazzo mentalmente instabile che ha raggiunto il successo in NBA

Gli Stati Uniti sono, notoriamente, la nazione dei grandi ideali, non sempre seguiti con coerenza ma ribaditi fino alla nausea, quasi un mantra che cerca di unificare un popolo che, per la propria storia, ha radici estremamente diversificate. Di questi ideali, il primo e imprescindibile è la Libertà, il concetto tutto americano secondo cui ogni uomo è libero di essere e fare ciò che meglio crede per costruire la propria fortuna. E’ la base stessa della cultura americana, incarnata nell’enorme statua che si presentava agli immigrati che arrivavano al porto sul fiume Hudson. E’ l’essenza del liberismo capitalista, dottrina cardine non solo della potentissima economia ma anche dell’influenza politica americana del Dopoguerra. E’, in ultima analisi, un’ideale ormai pieno di contraddizioni e anacronismi, eppure ancora vivissimo nell’immaginario di ogni statunitense.

Di questi concetti sulla cultura americana alla giovane Linda Holubec probabilmente non importava granchè. Eppure la libertà lei ce l’aveva nel sangue, seppur non esattamente nella forma del liberismo borghese, fin dalla nascita: i suoi genitori erano due bikers della prima ora, seduti su una Harley ben prima che Dennis Hopper girasse Easy Rider sdoganando lo stile di vita on the road. Anche lei ha lo stesso spirito anticonformista e a 8 anni già cavalca la moto del padre, mentre a 10 spara come una vera americana del Midwest; il nativo Tennessee però risulta troppo ristretto e a nemmeno 20 anni, sul finire degli anni ‘70, decide di partire all’avventura. Le sue peregrinazioni le fanno attraversare l’America, giungendo fino all’Oceano, a Malibu. In California, terra vivace e multietnica, conosce un ragazzo danese, viaggiatore, aspirante pittore, altro spirito libero e affine al suo: Claus Andersen. Linda rimane incinta, e nel 1978 dà alla luce il suo primogenito Christopher Claus Andersen.

Questa libertà che tanto è andata cercando qui non le manca, ma purtroppo non si può vivere di soli sogni, specie quando al piccolo Chris seguono le sorelline April e Tamie; e allora l’allegra famigliola danese-americana parte per la campagna texana, a costruirsi la casa con le proprie mani su un terreno sperduto a Iola, oltre 100 miglia da Houston. Ma questa non è la vita per cui Claus è giunto dall’Europa, e prima ancora di concludere la costruzione della casa il giovane prende e riparte, stavolta da solo, per continuare la propria discutibile carriera artistica nella Grande Mela. Linda si ritrova sola con 3 figli piccoli e nessun lavoro: a Espn racconterà che le sue sostanze consistevano in “mezzo contenitore di burro d’arachidi e un pezzo di pane”.

 La giovane donna comunque non si perde d’animo, e aiutata dal fratello James tira avanti con qualche lavoretto saltuario e molta vita off the land, immersa cioè nella natura selvaggia in cui vivono, con caccia e pesca fai da te ad arrotondare le magre vivande. Non perde nemmeno il suo spirito tipicamente americano di provincia, unendosi a una banda di bikers locali, tatuandosi mezzo corpo (un must in famiglia) e armando la tenuta di tutto punto, più per i coyote che per i malintenzionati.

In questo contesto non esattamente idilliaco, il piccolo Chris cresce con poche regole e tanta libertà a contatto con la natura texana, diventando nel contempo sempre più alto, come vogliono i suoi geni nordici. Inoltre lo zio James gli ha costruito un canestro all’esterno della fatiscente abitazione, montato però un po’ a spanne, e decisamente più alto del normale. Ciò nonostante, Chris ci passa le giornate, cercando di saltare sempre di più per toccare quel ferro: e sarà proprio quel cesto così alto, unito allo stile di vita campestre, a donargli un atletismo fuori dal comune per un bianco.

L’infanzia del futuro Birdman se ne va così, tra caccia, pesca, fucili, poco studio e molta pallacanestro, anche solitaria. Allo scoccare dei 18 anni ovviamente è già dentro il negozio del tatuatore per il suo primo e quasi storico tattoo, regalo di mamma Linda che gli ha trasmesso una passione che diventerà mania. La scelta del college può aspettare, anche perché i suoi voti disastrosi non gli permettono un ventaglio molto ampio: un 2.08 con quell’atletismo fa gola anche a Clyde Drexler versione coach (poco vincente) della Houston University, ma il rendimento scolastico lo costringe ad andare al meno rinomato Blinn College. Impiega una sola buona stagione prima di stufarsi e provare a passare professionista, attirato dai soldi che potrebbero finalmente sistemare lui e la sua famiglia.

Chris Andersen

Se a fine anni ’90 ti dichiaravi per il Draft così presto, o eri un fenomeno o eri un pazzo. Non serve che vi dica in quale dei due casi rientra Andersen, che ovviamente non viene scelto nel Draft del 1999. Ma ormai la strada è intrapresa, e lo contatta un emissario cinese per giocare nei Jiangsu Nangang Dragons: non esattamente i Lakers, ma i (pochi) soldi cinesi fan comunque comodo agli Andersen, che si trasferiscono in blocco a Pechino.

Ecco, immaginate di mettere una tipica famiglia della campagna texana e il loro orizzonte culturale in una metropoli di quasi 20 milioni di abitanti: trauma scontato e primi mesi passati chiusi in albergo. Poi gli Andersen si adattano, e restano in Cina due anni, durante i quali Chris mostra buone cose in CBA, tanto da guadagnarsi il biglietto di ritorno per il basket USA. Partita come un’esperienza complicata, anch’essa alla fine lascerà sul giocatore un’eredità importante, soprattutto per quanto riguarda gli amati tatuaggi e la maniera asiatica di concepirli.

 Chris Andersen

Il ritorno negli States è targato New Mexico Slam. E che franchigia è? E’ una franchigia, o meglio era, visto che apparteneva a una lega minore fallita poco dopo il suo arrivo. Fortunatamente stavolta riesce a non lasciare l’America, diventando addirittura la prima scelta assoluta del primo Draft della neonata Development League, la Lega di sviluppo della NBA, per opera dei Fayeteville Patriots. La prima scelta assoluta non può che essere il migliore del lotto, e infatti dopo un buon inizio Birdman è il primo giocatore della storia a passare dalla D-League alla NBA, chiamato dai Denver Nuggets che gli offrono il minimo salariale.

Chris Andersen

Poco meno di 300.000 dollari annui: briciole rispetto alle cifre che girano in NBA, ma un’enormità di soldi in assoluto, specie per chi la cena doveva cacciarsela. E così, a fronte di un buon rendimento anche al livello più alto, diventando uno dei migliori rimbalzisti e stoppatori per minuto giocato, fuori dal campo Chris si dà alla pazza gioia, e non solo per modo di dire: limousine noleggiate, cauzioni, conti astronomici nei club, regali favolosi alle fidanzate, fuochi d’artificio illegali. Anche con la squadra non è esattamente irreprensibile: passa alla storia quando porta sul pullman della squadra il suo pitbull, per la gioia di coach Bzdelik; allo Slam Dunk Contest del 2004, a L.A., cerca di convincere Jack Nicholson a scritturarlo per il ruolo di Batman, e l’anno successivo genera l’ilarità generale coi suoi goffi tentativi di schiacciate improbabili. I numeri e l’affetto incondizionato di tifosi e compagni, che lo soprannominano Birdman per l’atletismo e l’apertura alare, non bastano a riconfermarlo e nel 2004 firma con New Orleans.

In Louisiana (e poi in Oklahoma dopo Katrina e il trasferimento) Chris vive le sue migliori stagioni, chiudendo la prima a quasi 8 punti e 6 rimbalzi di media. Ma è solo la quiete prima della tempesta: la sua “vivacità”, per chiamarla così, è andata un po’ oltre, e ha iniziato a far uso di cocaina, eroina e metanfetamine. La NBA lo squalifica per due stagioni nel 2006, e gli va pure di lusso (rischiava la radiazione). Ma soprattutto, mamma Linda, figura fondamentale in tutta la sua esistenza, ha una mentalità aperta ma non può sopportare tanto, e taglia definitivamente i ponti col figlio.

Ha modo di riflettere Chris, in quei 2 anni lontano dal basket giocato. Ma uno spirito come il suo non può di punto in bianco redimersi ed entrare nell’alta società; come dirà lui stesso al rientro nel 2008, “non sono cambiato, sono lo stesso di sempre, solo non faccio più quelle cose che mi hanno rovinato. Sono più intelligente… e ora ho anche un tiro da tre devastante”. Rientra con gli Hornets, ma torna in fretta nel Colorado che non ha mai smesso di amarlo. Coach Karl non muore esattamente dalla voglia di testare il suo tiro dalla lunga, ma vicino a canestro il suo rendimento è ancora ottimo: chiuderà addirittura con 2.42 stoppate in soli 20 minuti sul parquet nel 2009 e un’ottima Finale di Conference contro i Lakers. Solo una brutta storia legata alla pedopornografia (in cui, importante ricordarlo, risulterà completamente estraneo), unita a esigenze salariali, lo allontana dai Nuggets via amnesty.

Chris Andersen

Tagliato, senza squadra e con una brutta grana giudiziaria sulla testa: pur avendo estimatori, Birdman fatica a lungo a trovare un contratto. Solo nel gennaio 2013 gli Heat si convincono a dargli fiducia per tamponare le loro croniche difficoltà sotto canestro, e gli offrono un contratto di 10 giorni non garantito; non granchè ma è un nuovo inizio, e Andersen come una fenice risorge di nuovo dalle proprie ceneri, guadagnandosi un altro decadale e poi il prolungamento fino a fine stagione, a suon di buone prestazioni. Riley non se ne pente certo: col suo gioco dinamico e gli spazi aperti da Lebron Birdman sembra nato per il sistema degli Heat, e non solo li aiuta, ma risulta a tratti decisivo per la conquista del secondo titolo consecutivo.

A 35 anni il figlio di Linda aggiunge ai suoi ormai innumerevoli tatuaggi quell’argenteria che pochi, solamente alcuni mesi prima, avrebbero pronosticato potesse mai mettere al dito. Proprio Chris, prodotto di una famiglia che sembra uscita da un film dei fratelli Coen, che ne ha passate tante, dalla Cina alla D-League, dalla droga e le accuse pesanti alla rinascita, dalle risse alle stoppate celebrate dai voli ormai celeberrimi, proprio lui ha coronato il sogno di ogni giocatore. Senza per questo cambiare di una virgola: non l’ha fatto dopo la squalifica, difficile possa farlo stavolta. “Ma cos’ha fatto? Gioca col collare?” disse il grande Federico Buffa quando comparve l’ultimo tatuaggio, quel FREE BIRD scritto a caratteri cubitali che gli occupa l’intero collo. Quello che per gli altri è totalmente fuori di testa, un “no future” per usare un’altra definizione dell’Avvocato (perché con un tatuaggio del genere in banca tendono a non assumerti), per lui è il riassunto di un’intera esistenza vissuta sempre al di fuori delle convenzioni sociali; è una dichiarazione di insofferenza a questi limiti e di voglia di libertà totale, inquietudine che gli scorre nel sangue nonostante i rapporti con mamma Linda siano, oggi, quasi nulli. Come per lei, questa libertà non è quella dell’ideale americano rappresentato dall’omonima statua: è invece la libertà di un uccello, continuamente richiamato nei disegni che gli attraversano il corpo, che può volare dove vuole senza che ci sia nulla a trattenerlo o limitarlo. Mai soprannome fu più azzeccato, e mai tatuaggio ha riassunto di più l’essenza di un personaggio che rimane ancora quel ragazzino libero e selvaggio di Iola, che sarà anche arrivato professionalmente ed economicamente, ma non sarà mai come la normalità avrebbe voluto.

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