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Done in L.A. : focus su Mike Brown ai Lakers

 

L’era di Mike Brown ad Hollywood si chiude nella maniera più inaspettata -per tempistiche e modi- ed assieme più invocata nella storia recente dei Lakers.

Poco più di 12 mesi alla guida della macchina da soldi perfetta dello sport professionistico americano sono bastati per far saltare il banco e portare Jim Buss e Mitch Kupchack all’inevitabile “quella è la porta”, soprattutto a seguito dell’imbarazzante avvio di stagione. Un anno per passare dalla controversa assunzione, nella foga della proprietà di cancellare al più presto ogni orma di Phil Jackson ed eradicare ogni sua possibile incarnazione nello spogliatoio (leggasi Shaw, Brian), all’inglorioso congedo
Cosa non ha funzionato nella gestione di Brown? Andiamo con ordine.

Il 2012-2013 porta in dote dei nuovi Lakers, come tutti sappiamo, con una concentrazione di talento raramente vista su un campo da Basket, potenzialità enormi ed aspettative proporzionali.
Brown gioca la sua carta chiamando Eddie Jordan, ottimo progettista offensivo della versione di metà decennio degli Washington Wizards puntualmente eliminati dai Cavs di Brown, a ricoprire il ruolo di assistant coach, con il compito dichiarato di istruire il roster alla Princeton Offense. Accattivante sistema di continuità offensiva, la Princeton richiama alcune idee e situazioni tipiche della Triple Post Offense che ha fatto le fortune dei Lakers nelle ultime 5 edizioni vincitrici a Giugno, in quanto entrambi molto più simili ad una filosofia di gioco rispetto ad un semplice playbook, basati sulla capacità dei propri giocatori di leggere la situazione in campo e fare la scelta giusta al momento giusto, piuttosto che su rigidi schemi.

E proprio qui nascono i primi problemi palesati dai Lakers in questo avvio di stagione, poichè tutti i sistemi cosidetti Read&React, basati sull’intelligenza cestistica e spaziale del giocatore più che sulla sua aderenza ad un copione di movimenti mandati a memoria, richiedono la pratica della più nobile delle virtù per essere metabolizzati: la pazienza.
Un decollo stentato giallovola era ampiamente preventivabile dopo un makeover di propozioni simili a quello subito dai Lakers in estate, alla luce di quanto detto, ma la mano di Brown si palesa con evidenza ad ingrandire i problemi.

I Laker sono spaesati e fuori sincronia in attacco, disuniti e lenti nelle rotazioni in difesa. Una chimica ancora tutta da inventare, ma soprattutto la scarsa convinzione nel progettista prima che nel progetto. Le occhiatacce di Kobe, l’incredulità di Dwight rimesso in campo sul +24 nell’unica vittoria stagionale sui derelitti Pistons non possono essere compensate da semplici dichiarazioni di comunione di intenti tra squadra e coach.
Mike Brown non ha mai avuto realmente il timone della squadra ed alcune sue scelte tattiche sono ben presenti a dimostrarlo, sempre con la consapevolezza che una simile concentrazione di talento ha bisogno di sacrificio per funzionare. Da parte di tutti, perchè l’eterogeneità degli interpreti losangelini può significare multidimensionalità in attacco ( caratteristica che vale oro), ma anche necessità di mediare, di trovare sempre un compromesso tra diversi modi di intendere e disegnare pallacanestro, che sia la gestione poetica dell’arancia di Steve Nash sui giochi a due, l’uno contro uno di Bryant, la polivalenza di Gasol e la ricerca del pitturato di Howard.

Sintetizzando le grandi difficoltà losangeline, possiamo identificare 3 grossi ordini di problemi

 

Dwight Howard ad avviare costantemente l’azione all’altezza del tiro libero, come schematicamente vuole la Princeton, rappresenta il primo. Dwight è un centro di presenza fisica ed atletismo sconfinati, scarsa tecnica individuale e visione limitata, tutto ciò che non serve nell’interpretazione del ruolo in questo sistema. Molto più indicato sarebbe stato Pau Gasol a ricoprire gli oneri di impostazione, affidando a Dwight ruolo di tagliante, sfruttandone l’ottima mobilità e le doti atletiche. Anche in situazioni di giochi a due in cui è stato raramente impiegato, se non per i classici lob. La fludità del gioco ne è risultata ovviamente inficiata.

Steve Nash è parso ai margini del sistema al punto da sembrarne un corpo estraneo. Brown ha più volte garantito di aver concesso al proprio playmaker licenza di chiamare pick&roll ogni volta volesse. La realtà è quella di un Nash ridotto fin troppo spesso a spot up shooter dall’angolo mentre venivano eseguiti pick&roll guidati da Steve Blake. Decisamente non la stessa cosa. Nash ha accettato il ruolo ed il sacrificio per facilitare il processo di apprendimento del nuovo sistema dei gialloviola, ma se lo si priva del pallone così spesso lo si snatura oltre il lecito

L’assetto a due lunghi ha funzionato a tratti con Gasol e Howard in campo, non lo ha mai fatto con il secondo quintetto, in cui i lunghi diventavano sostanzialmente 3, con l’attempato Jamison da ala piccola ed il fu Ron Artest da guardia. In una lega che punta sempre più ad un gioco veloce, d’antoniano per l’assetto comune a 4 giocatori perimetrali ed un solo lungo ormai sempre più diffuso, è semplicemente anacronistico. L’attacco rallentato e dalle spaziature pessime, la difesa costantemente battuta sul primo passo di avversarsi più piccoli e rapidi, le rotazioni costantemente tardive hanno palesato tutti i limiti del quintetto enorme dei Lakers.

Mike Brown è partito da un assunto corretto: tanto talento necessita compromessi in campo. Un sistema di continuità in attacco è proprio questo, sacrificio costante da parte di tutti, ripagato però da un gioco fluido e mai monodimensionale. Quando questo non è successo i nodi della gestione del coach sono venuti al pettine e a pagarne dazio è stato proprio il buon Mike, essenzialmente per due motivi:

Mancanza di elasticità nel gestire situazioni tattiche spesso al limite dell’ossimoro, in cui sembrava giocare per perdere e per sperimentare disposizioni tattiche kamikaze per il gioco moderno

Scarsa credibilità alla guida della squadra. Per creare un sistema complesso e vincente, come fu la Triple Post Offense per Phil Jackson, c’è bisogno di tempo ed una personalità forte che propugni un progetto con sufficiente credibilità per non farsi schiacciare dalla pressione mediatica -soprattutto quella losangelina- anche a fronte di mancati risultati. Phil Jackson ce l’aveva, in virtù del suo curriculum, ma anche della sua capacità di relazionarsi con i propri giocatori, con la stampa, con l’ambiente.

Mike Brown semplicemente non ha mai posseduto tutto ciò. I sacrifici che ha richiesto non sono stati coperti da quella figura forte che sarebbe stata necessaria. E le sue carenze di lettura del gioco, ostinatezze nel presentare un impianto di squadra a 3 lunghi inadatto all’odierna NBA e scarsa flessibilità hanno fatto il resto.

 

Emiliano Tolusso

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