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Denver Nuggets

Quando Thompson ha superato Thompson, 40 anni dopo

In quarant’anni cambia tutto. O quasi

Se avesse giocato per più di nove anni, David Thompson sarebbe stato il più grande scorer della sua epoca” – Black Jesus, a.k.a. Earl ‘The Pearl’ Monroe.

“Se David avesse giocato fino ai limiti delle sue possibilità fisiche, oggi lo metteremmo sullo stesso piano di Michael Jordan”Dan Issel, compagno di Thompson a Denver, più volte All-Star e membro della Basketball Hall Of Fame NBA di Springifield.

David Thompson è una di quelle figure che rimangono intrappolate nelle pieghe di una pallacanestro che non esiste più, a metà tra invenzione e mito. Sì, il mito, perché per essere definito il più grande scorer della propria epoca – non una povera di talento, come vedremo più avanti – dal personaggio a cui Federico Buffa ha deciso di intitolare il suo personalissimo manifesto della pallacanestro, qualcosa di speciale bisogna averlo fatto. La sua è una storia tormentata, fatta di momenti di letterale onnipotenza cestistica la cui memoria è oscurata da fatti più o meno di cronaca, come la dipendenza da droga e alcol che lo ha accompagnato per la maggior parte della sua breve carriera.

David Thompson era una star, LA star del basket americano degli anni ’70 assieme a Julius Erving (anche se molti parlano di come DT fosse superiore a Doctor J). Era il giocatore più pagato nella storia degli sport di squadra a livello mondiale, e, stando a quanto dichiarato da lui stesso, la droga era il suo personale rifugio per evadere da tutte le pressioni e aspettative con cui i media lo avevano investito all’inizio della sua carriera, quando aveva solo 23 anni.

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Thompson & Doctor J (Photo by CBS Sports)

Avevo le possibilità e il talento per essere ricordato come uno dei più grandi giocatori di basket di sempre, e ho gettato tutto nel cesso.”

Thompson era una macchina da canestri, una guardia di 193 cm per 88 kg con un’elevazione spropositata che toccava i 111 cm in verticale. Durante il suo primo anno in ABA vince il premio di Rookie of the Year in ciabatte con 26 punti di media, annessa convocazione all’All-Star Game e un dibattito mai chiuso sul mancato premio di MVP che sarebbe invece dovuto arrivare.

Un personaggio troppo grande per la ABA, un giocatore di basket troppo forte per quel livello tanto quanto Julius Erving, e i due non mancano di mostrare la propria superiorità al mondo nelle Finals ABA di quella stessa stagione dando vita ad una lotta epica (tra Nets e Nuggets, per la cronaca), come tra due antichi eroi greci. Alla fine a trionfare è Erving, ma chiunque abbia assistito alla serie non ha più niente da chiedere alla pallacanestro per il resto della propria vita (fatta eccezione magari per i tifosi dei Nuggets, che hanno lasciato per strada un titolo).

La leggenda di David Thompson, però, tocca il proprio picco il 9 aprile del 1978, esattamente 40 anni fa. La massima espressione della pallacanestro del #33 è sempre arrivata in concomitanza con un duello individuale, e dopo quello con Julius Erving nasce quello, lungo tutta una regular season, con George Gervin.

Il passo seguente è estratto da Skywalker, il libro di Thompson stesso in cui la ex stella di Denver parla di quel giorno rimasto nella storia:

Era l’ultima partita prima dei Playoff, l’ultima che i Detroit Pistons avrebbero giocato alla Cobo Arena prima di trasferirsi nel nuovo Pontiac Silverdome; i 3482 tifosi arrivati per dire addio a quella che era stata la casa dei loro beniamini per i precedenti 17 anni non dimenticheranno mai quella fredda domenica pomeriggioEra tutto l’anno che io e Gervin ci sfidavamo per il titolo di miglior marcatore della stagione, e prima della partita coach Brown mi chiese se volevo provarci, se volevo vincere il titolo a prescindere dal risultato di quella partita (eravamo già qualificati ai Playoff). Se avessi realizzato i punti necessari a superare Gervin, lui avrebbe cercato il contro-sorpasso a New Orleans poche ore dopo. Quindi dovevo assicurarmi di fare le cose per bene.”

Non c’erano telecamere quel pomeriggio a testimoniare la leggenda della Cobo Arena, e mai ci daremo pace per questo, ma nulla vi vieta di capire che razza di attaccante fosse David Thompson con questa raccolta di highlights. 

Ho realizzato i primi otto tiri della mia partita, per la maggior parte jumper dalla media; man mano che i minuti passavano, ho buttato dentro anche qualche schiacciata su alley-oop. Poi Poquette mi ha stoppato mentre cercavo un’altra schiacciata un po’ troppo ambiziosa, ma dopo quell’errore ho realizzato i seguenti 5 tiriNon ho capito subito cosa fosse successo, anche perché tutto è accaduto in pochi minuti, ma quando ho guardato il tabellone e ho visto che accanto al mio nome c’era scritto ’32 points’, ho provato una sensazione indescrivibile.”

32 punti, con 13/14 dal campo diventa istantaneamente il record di tutti i tempi per punti segnati da un giocatore in un solo quarto, superando di uno il record precedente che apparteneva a Wilt Chamberlain, nella famigerata partita dei 100 punti. Quella 1977-78 è la miglior stagione di Thompson dal punto di vista realizzativo, conclusa con 27 punti di media; la partita si conclude 139-137 per i Pistons, che così salutano la Cobo Arena con una vittoria – inutile, vista la mancata qualificazione alla post-season – ma i titoli sono tutti per Thompson. Il #33 chiude con 73 punti totali in 43 minuti di gioco, la terza prestazione di sempre per punti segnati in una partita, il cui manifesto non può che essere quel primo quarto incendiario.

Di quei 13 tiri mandati a bersaglio su 14 tentativi, però, non ci fu neanche un tentativo da 3 punti.

Fermi, ma non abbiamo detto che Thompson era una guardia, che era alto poco più di uno e novanta? E ha fatto tutto questo senza tirare da 3? Il punto, dopo questi leciti interrogativi, diventa che la NBA, in ritardo di ben 12 anni rispetto alla ABA, non ha introdotto il tiro da tre punti fino alla stagione 1979-80. Quindi sì, il dato risulta ancora più impressionante: David Thompson ha realizzato 32 punti in quarto senza usufruire del tiro da 3. Non che dopo l’introduzione del tiro da fuori, comunque, il nostro ne abbia fatto una delle sue armi più utilizzate, visto il 25% totale nella specialità con cui si chiuderà la sua carriera (per Basketball Reference).

Abbastanza strano immaginarsi così tanti punti segnati in un basket così lontano nel tempo, vero? Qui cadiamo però nell’errore di pensare che il Pace (stima dei possessi a partita di una squadra) elevato sia una caratteristica della pallacanestro moderna, quando in realtà gli anni ’70 erano stati precursori in questo. La prova? Durante quel Nuggets-Pistons (partita comunque viziata da un punteggio altissimo), il Pace di Denver è stato di 117.1; quello della squadra che corre di più nella stagione 2017-18? 102.63, Phoenix Suns.

È strano però pensare anche a così tanti punti segnati in così pochi minuti senza l’utilizzo del tiro da 3, sopratutto considerando chi, nel momento in cui scrivo, detiene il nuovo record di punti segnati in un singolo quarto.

Dopo la domenica pomeriggio della Cobo Arena, il record è stato riscritto da George Gervin quello stesso giorno a New Orleans (come predetto poche ore prima proprio da Thompson) e da Carmelo Anthony il 10 dicembre 2008, in maglia Nuggets (ironia della sorte?); entrambi sono stati in grado di realizzare 33 punti in un quarto, record che ha resistito fino al 23 gennaio 2015.

Prima di andare avanti, riguardate questo video almeno tre volte, poi riguardatelo in slow-mo e poi a velocità raddoppiata. Poi riguardatelo un’altra volta ancora, e forse saremo pronti per proseguire.

Golden State è nella prima stagione del dominio che si estende fino ai nostri giorni, è al primo posto nella Western Conference e a giugno riuscirà a riportare nella Baia un titolo che mancava da quarant’anni. La copertina della stagione degli Warriors non può che essere di Steph Curry, che vince il premio di MVP e si attesta come padrone della lega per gli anni a venire, ma l’apporto di Klay Thompson è fondamentale tanto quanto quello del figlio di Dell.

Thompson chiude la stagione con 27 punti di media, ancora oggi il miglior dato della carriera, e scrive il proprio career-high segnando 52 punti nella vittoria casalinga sui Sacramento Kings per 126-101. Se già questo sarebbe più che degno di nota, il fatto che solamente durante il terzo quarto della partita la guardia degli Warriors metta 37 punti non può che far rabbrividire ogni appassionato di NBA.

37 punti in un quarto. TRENTASETTE.

Quando la valanga comincia ad arrivare il punteggio della partita è in equilibrio, Sacramento è addirittura in vantaggio di un punto dopo pochissimi secondi nel terzo quarto. Circa 12 minuti più tardi, è sotto di 24. Non è certo quel giorno che scopriamo che tipo di giocatore sia Klay Thompson, ne tanto meno è un video del 2015 a farci riflettere, due anni e mezzo dopo, sul fatto che siamo alla presenza di un giocatore unico nella storia della NBA. Ma 37 in un quarto fanno impressione.

Analizzare quel terzo quarto di Klay, però, e confrontarlo con quello da 32 punti di David del 1978 ci regala un quadro ancora più completo di quella che è la direzione che la NBA ha preso negli ultimi anni, attestando ancora una volta la complessità e unicità di un gioco come la pallacanestro in cui, a distanza di relativamente poco tempo, può cambiare praticamente tutto. Trattandosi di 40 anni fa, con grande rammarico è impossibile avere la mappa di tiro del primo quarto di David Thompson in Nuggets-Pistons, quindi non possiamo che affidarci alle parole del giocatore stesso e considerare quel 13/14 dal campo il prodotto di un mix più o meno casuale di jumper dalla media e tiri nelle immediate vicinanze del ferro (di cui molte, moltissime schiacciate).

Non è difficile, però, trovare e dare un’occhiata alla mappa di tiro del terzo quarto di Klay Thompson contro i Kings:

Immagine correlata

Quella a cui ci troviamo di fronte è l’ultima frontiera della pallacanestro: Thompson ha scelto di tirare solamente da dietro l’arco o nel pitturato, e quella scelta è tanto sua quanto del suo allenatore, Steve Kerr.

Il tipo di pallacanestro con cui i Golden State Warriors stanno facendo impazzire le altre 29 squadre da ormai 4 anni è fatto di infinite girandole di blocchi e tagli, che nella velocità possono sembrare casuali ma niente hanno a che vedere con il caso; allo stesso modo, sotto Kerr la selezione dei tiri è ben precisa, e per giocatori con il range di Curry o Thompson non può che risultare automatico prediligere la zone da 3 punti e quelle nel pitturato, visto che il pericolo di subire una tripla spingerà gli avversari a uscire su di loro e concedere il fianco a una penetrazione in controtempo.

Thompson è il giocatore che meglio di tutti sta riuscendo ad incarnare lo stile di gioco del quale siamo testimoni negli ultimi anni – anche e non solo per una dose di talento naturale più che dominante – e la cui parola chiave è efficienza; da ricercare a tutti i costi in ogni decisione presa sul parquet. Un esempio? Come ci insegna Morey, perché prendersi un long-two appena dentro l’area solo perché la palla è arrivata là, invece di fare mezzo passo indietro e tirare da 3 con il coefficiente di difficoltà del tiro che non cambia di una virgola nelle mani di un tiratore affidabile mentre l’esito attribuisce un punto in più alla seconda opzione?

La pallacanestro è cambiata, e continuerà a cambiare tanto nel tempo perché forse, più di ogni altro, è lo sport che più vive come un moto perpetuo, un flusso continuo plasmato dalle idee dei suoi più grandi interpreti, tanto sul parquet quanto dalla panchina. Le schiacciate al culmine di un salto senza senso di David Thompson o le nove triple realizzate su nove tentativi da Klay Thompson in quel terzo quarto, fanno parte del flusso, sono testimonianze lasciate allo spettatore come manifesto al quale aggrapparsi.

“Se negli anni ’70 pensavi a quello che poteva essere il prototipo del giocatore di basket perfetto, la risposta era sempre David Thompson” – Bill Walton. 

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