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Sua Maestà il Barone

Baron Davis rappresenta il basket degli anni 90/2000. La sua storia raccontata in breve

“Baroni si nasce; e lui, modestamente, lo nacque. Tre quarti di nobiltà cestistica.”                                                                                                             Federico Buffa.

Se di nome fai Baron e sei nato a L.A una certa predestinazione a diventare un personaggio quanto mai hollywoodiano ci deve pur essere. Potenza fisica, talento puro e una leggera inclinazione  a farsi notare, complice una barba che sarebbe stata degna ispiratrice di James Harden, in arte “Il Barba”. Ripeto: si chiama Baron, e come faceva questo a non avere carisma!?

Il Barone nasce a Compton nel 1979, nei pressi di Los Angeles. Privo di entrambi i genitori cresce insieme alla nonna con la quale stabilisce una delle relazioni affettive più importanti della sua vita; l’altra è quella che lo legherà alla Citta degli Angeli e che influenzerà gran parte delle sue scelte. In fondo lui era nato per essere un protagonista, o meglio “il” protagonista, e gli Oscar vengono consegnati proprio in California.

Frequenta la Crossroads High School, situata sulla spiaggia di Santa Monica, e domina qualsiasi tipo di campionato liceale, dedicando il tempo libero a spadroneggiare nei campetti di L.A.  Aveva una capacita di penetrazione formidabile, abusava fisicamente in post basso di qualsiasi pari ruolo, e tutto ciò misto a quell’immancabile imprevedibilità delle scelte, oscillante tra il genio e la follia, che lo accompagnerà per tutta la carriera.

Nel basket molti talenti non vengono subito riconosciuti e spesso viene lasciato al tempo il compito di rimediare all’errato giudizio degli scout. Ma per Baron no, lui lo volevano tutti! Ma se giochi bene a basket e sei nato nello stato della California ed in più ami pazzamente Los Angeles la scelta dell’università può essere solo una: UCLA. I “Bruins” inevitabilmente suscitavano una fascino irresistibile e l’arrivo come coach di Steve Lavin servì solo a dare ancor più supporto ad una scelta già fatta.

Nei due anni di UCLA mette in evidenza tutto il repertorio completo, compresi i vari infortuni al ginocchio che lo terranno spesso lontano dai campi da gioco. Ma nel complesso le prestazioni del Barone furono eccellenti diventando anche primo quintetto All American, con l’unico neo di quel famoso “self control” che un po’ troppo spesso si prendeva delle vacanze tutte personali e non autorizzate.

I numeri sono di quelli importanti e nell’anno del draft molte squadre mostrano interesse per lui. In particolare Charlotte, alla ricerca di una point-guard intorno a cui ricostruire una squadra in difficoltà. Ma i piani di Baron sono diversi, lui vuole solo Los Angeles, e soprattutto non vuole l’Est.

Charlotte dopo averlo visionato durante il pre-draft chiede a Davis un provino ed ecco che arriva immancabile una delle tante “baronate”. Lui come detto vuole solo L.A e decide di non presentarsi convinto che così avrebbe raggiunto il proprio scopo. Chicago e Memphis non avevano mostrato interesse per lui, infatti chiameranno come prima e seconda scelta Elton Brand e Steve Francis, e archiviata, secondo lui, la pratica Charlotte, alla quarta scelta i Clippers avrebbero dovuto pronunciare proprio il suo nome. Il piano sembra di facile realizzazione e quindi ovviamente non andrà come previsto. Alla numero tre gli Hornets decidono di rischiare e chiamano Davis Baron che nel 1999 fa ufficialmente il suo ingresso nella Nba.

Parte da riserva con un impatto non certo da terza scelta assoluta e pian piano scala le gerarchie nel roster di New Orleans, portando per due anni consecutivi la squadra ai playoff ed uscendo in entrambi i casi al secondo turno. Nel 2002 verrà anche selezionato dalla nazionale statunitense per partecipare ai Mondiali che saranno ricordati come una delle più grandi debacle del team USA. Da qui il ritorno dei due grandi talloni d’achille di Baron: quel maledetto ginocchio sinistro che lo terrà fuori dal campo da gioco per gran parte delle due stagioni successive, e l’ego che troppo spesso tendeva ad imporsi come unico vero coach. Personalità troppo forte per poter rientrare in schemi prefissati.

Metti gli infortuni, metti i rapporti non proprio idilliaci con il coach ed il passo verso la cessione è  breve.    Il più deciso nell’approfittare della situazione fu Chris Mullin, executive dei Warriors, alla ricerca di una point-guard talentuosa e carismatica da poter affiancare a Jason Richardson. Golden State veniva da una crisi decennale e il pubblico della Baia non vedeva un trascinatore in grado di infiammare la Oakland Arena dai tempi di Tim Hardaway, era il momento che la California richiamasse a se il figliol prodigo. Nel febbraio 2005 si concluse l’accordo,  Speedy Claxton e Dale Davis a New Orleans, e Barone a Golden State.

Davis iniziava però a portarsi con se la fama di un giocatore in grado di regalarti serate indimenticabili e a tratti letteralmente immarcabile, potenzialmente il miglior playmaker del mondo, un giocatore bellissimo da vedere ma che sembrava mancare gli appuntamenti decisivi con la storia, sempre un passo al di sotto di quel gradino che distingue il perdente dal vincente, il grande giocatore dal campione. In pratica rappresentava perfettamente l’essenza della squadra per cui giocava, da sempre una delle franchigie più tormentate del continente americano.

Ma la svolta arriva nella stagione 2006-2007 quando sotto la guida di Don Nelson i Warriors si qualificano come ottavi alla postseason, e si torna a respirare aria di playoff. La squadra è quella di Jason Richardson, Stephen Jackson, Al Harrington, un giovanissimo Monta Ellis ed ovviamente il Barone. Ma al primo posto ad Ovest c’è la Dallas delle sessantasette vittorie in stagione regolare, gli “sfigati” di Golden State erano destinati a capitolare nel giro di poche partite. Per fortuna da sempre i playoff sono teatro di imprese mitologiche e sublimi in cui i pronostici non sempre hanno l’imperativo di essere rispettati.                                                                          Baron aveva deciso che era il momento di togliersi di dosso il marchio di giocatore fine a se stesso e scriverà delle prestazioni pazzesche, tanto da portare i Dubs alla vittoria per 4 a 2. Era la prima volta nella storia dei playoff a sette gare che una numero otto eliminava una numero uno.

Da qui inizierà il vagare del Barone, prima Clippers, poi Cleveland ed infine Knicks prima dell’ufficiale ritiro. Sicuramente uno dei giocatori più affascinanti della lega e amato dal pubblico come pochi altri, viste le sue doti tecniche e fisiche sicuramente avrebbe potuto imporsi maggiormente, ma in quel caso non sarebbe stato Baron Davis.

Tempo fa l’ex stella Nba aveva anche dichiarato di essere stato rapito dagli alieni – un incontro tra colleghi si potrebbe dire – fornendo una descrizione che aveva una certa somiglianza con le immagini di Space Jam; poco dopo dichiarerà che si trattava solamente di uno scherzo….Eh il Barone

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