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L.A. Clippers

J.J. Redick, l’arte dello specialista

Un solo compito da svolgere, non sono ammessi errori e hanno scelto te perché in quel settore sei più in gamba degli altri. E’ l’identikit dello specialista, merce sempre più rara in una lega come l’NBA che privilegia giocatori capaci di fare più cose sul parquet.

 Non sempre Madre Natura si dimostra generosa nei confronti degli specialisti, che spesso si trovano a fare i conti con leve corte, scarsa tecnica o un atletismo non sconfinato. Combattere in mezzo al campo diventa difficile se conoscono i tuoi punti deboli. Ma qui entra in gioco la forza di volontà. Lo specialista, infatti, è un instancabile lavoratore, ha energie da vendere e cura ogni aspetto del fondamentale in cui eccelle. Citofonare a J.J. Redick, tiratore scelto dei Los Angeles Clippers e chiedere quanto tempo serve per diventare uno dei cecchini più mortiferi della NBA.

Da Cookville, Tennessee, J.J. si fa notare già dai primi anni del liceo. Alla Cave Spring High School mette in mostra le sue doti di franco tiratore con l’exploit di 43 punti rifilati alla George Wythe High School nel campionato di stato della Virginia. Nel 2002 è uno dei più forti liceali del paese, stacca il biglietto per il Mcdonald’s All American in cui si porterà a casa anche il premio di MVP.  Redick non è ancora maggiorenne, ma è già conteso da molti college in cerca di mani morbide e triple facili.

Arriva la chiamata di Coach K, Duke è sulle tracce di un bombardiere dalla lunga distanza e Redick è ciò che fa al caso loro. J.J. non può riattaccare, così approda a Duke nel 2002. Il roster dei Blue Devils vanta due giocatori che seguiranno poi  Redick ai piani alti, Shelden Williams e Chris Duhon. Nell’anno da freshman si afferma subito come uno dei più micidiali tiratori della ACC. Entrata negli annali la perfomarance di 30 punti contro North Carolina, che porta Duke alla vittoria sui Tar Heels. Nella sconfitta contro i Jayhawks arriva la prima stecca di Redick che chiuderà il match con 2/16 al tiro. Nonostante la pessima uscita, i tifosi lo amano. E’ un tipo tosto, che aizza il pubblico, non la manda a dire a nessuno e si sposa perfettamente con ilrovente clima delle rivalità collegiali. La consacrazione per Redick giunge al terzo anno di militanza in maglia Blue Devils, con la media di 21. 5 punti a partita diventa il miglior realizzatore, nonché prima soluzione offensiva di Duke. Vince a mani basse il premio di giocatore dell’anno della ACC e dopo un testa a testa con Andrew Bogut, si aggiudica anche il prestigioso Adolph Rupp Trophy( di cui farà il bis nella stagione successiva).

Rimasto a Duke fino all’ultimo anno di college , J.J. è pronto per il grande passo. Ai draft del 2006 è tra i giocatori più quotati. Gli scouting reports rivelano un paio di ombre: i limiti in difesa e la dubbie capacità di costruirsi un buon tiro a livello NBA. Scelto alla 11° chiamata dagli Orlando Magic, Redick entra a testa alta nell’olimpo dei Pro. Gli interrogativi sull’adattamento ai ritmi di gioco NBA, tuttavia, rimangono. Nell’anno da rookie, alla corte di coach Van Gundy, Redick fatica a trovare spazio. Ariza e Grant Hill hanno la precedenza nelle rotazioni. Ottiene il quarto d’ora canonico  di minutaggio, riciclandosi role player, dopo una carriera da prima arma offensiva della squadra.

L’avventura ai Magic è una salita che il cecchino dal Tenneesse  affronta di petto, guadagnadosi la fiducia di pari passo con i miglioramenti in campo. Dopo le prime tre stagioni di rodaggio, il prodotto di Duke University comincia ad ingranare. Nel 2010 chiude l’annata con quasi 10 punti di media per oltre 20 minuti di impiego. Nella squadra in cui Dwight Howard è l’uomo franchigia, la presenza di JJ assume un valore importante. Le sue triple uscendo dalla panchina, che tira con il 40%,  sono una garanzia. Le riserve pari ruolo, come un Arenas al tramonto della sua carriera e un Quentin Richardson che sparacchia con il 28% dalla lunga distanza, non hanno la stessa efficacia.  Van Gundy sa di aver trovato l’asso nella manica, sa anche che nei playoffs un cecchino del calibro di Redick fa sempre comodo.  Usato con il contagocce nelle  finals del 2009 contro i Lakers,  l’anno successivo sarà la chiave dei playoffs per aprire il campo in attacco e arrivare fino alle finali di conference. Dopo la partenza di Howard, bandiera della squadra degli ultimi dieci anni, passano pochi mesi prima che il matrimonio con i Magic finisca anche per Redick. Il divorzio giunge con una trade,  JJ ai Bucks in cambio di Ayon, Udrih e Lamb. La parentesi ai Bucks è breve ma sufficiente per convincere i Clippers a offrirgli un contratto da 27 milioni di dollari per quattro anni.  Reddick firma al volo e decide di indossare il numero 4, quello che portava al college.

Con l’arrivo di Rivers alla guida dei Velieri, l’asse Paul-Griffin sempre più collaudato e un sesto uomo di lusso del calibro di Jamal Crawford, Redick sembra il pezzo mancante per completare il puzzle. Non è solo una metafora, ai Clippers mancava un uomo capace di rappresentare una vera minaccia sul lato debole  e Redick, su ribaltamento,  si muove meglio di chiunque altro.

La variante che offre al classico pick-and-roll  tra Paul e Griffin, è quella di coinvolgere l’altro lungo, De Andre Jordan che blocca per lui sul lato debole e gli lascia ampio spazio in angolo per la bomba d’ordinanza. Lob City aveva bisogno di uno specialista sul perimetro per rendere multidimensionale un gioco principalmente fondato su contropiedi, pick-and-roll e isolamenti. L’abilità di prendersi un tiro in equilibrio anche su una monetina, la velocità di esecuzione e il ball handing rivisto e migliorato, fanno di lui un giocatore prezioso anche in ottica playoff. Al momento Redick sta viaggiando a 15.8 punti di media con il 36% da 3,  promosso a starter fisso dalle direttive di coach Rivers, vive il periodo più florido della sua carriera in una delle squadre più competitive della western conference. Poi è bene ricordare che Chris Paul come sparring partner facilita ogni compito, persino quello delicato, dello specialista

 

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