C’era una volta un uomo canadese, un uomo capace e testardo, in grado di migliorare costantemente e di fare tante cose grazie al duro lavoro. Quest’uomo era stato in grado di trasformarsi da ottimo giocatore di hockey, baseball e calcio ad un eccellente giocatore di basket, tanto da riuscire ad entrare nel campionato professionistico più importante del mondo nonostante avesse iniziato a giocare solo all’età di 13/14 anni, tanto da riuscire a vincere per due anni consecutivi il titolo di miglior giocatore della lega ma non tanto da riuscire ad ottenere quel tanto agognato anello. Quest’uomo un anello se lo sarebbe meritato, così come si sarebbe meritato di chiudere la carriera in maniera brillante e non falcidiato dagli infortuni.
La storia di quest’uomo non è propriamente una favola, è più un racconto, un insegnamento di come la vita possa essere plasmata dalla forza di volontà fino ad un certo punto; ma insegna anche che un uomo non può essere più forte del Dio Destino e della Dea Provvidenza.
Questa è la storia di un nome, di una leggenda, del terzo miglior assistman di sempre, di un due volte MVP, di uno 0 volte campione NBA.
Questa è la storia di Steven John Nash.
Il lavoro paga
Steve Nash nasce a Johannesburg, in Sud Africa, da padre inglese e madre gallese, il 7 febbraio 1974. Il padre John Nash è un discreto giocatore di calcio che ha chiuso la carriera proprio in quella città. Essere di pelle bianca a quei tempi è fondamentale in un ambiente in piena aphartied, il motivo per cui John e Jean decideranno di trasferirsi a Victoria, in piena British Columbia,vicino a Vancouver. La decisione di far crescere i propri figli in un ambiente sano e contro il razzismo fu fondamentale per la futura carriera del piccolo Steve.
Crescendo si appassiona allo sport, ma non solo ad uno: addirittura a tre. Diventa capitano della squadra di hockey della scuola, miglior giocatore della squadra di calcio ed un eccellente giocatore di baseball. E il basket? Come fa un bambino così poliedrico ad arrivare ad un quarto sport ed a decidere di renderlo il suo futuro? Come saprete l’NBA non era un prodotto così popolare in televisione fino all’arrivo della generazione di fenomeni capeggiata da Magic e Bird e di un certo David Stern. A metà degli anni ’80 il prodotto NBA esplode, facendo appassionare milioni di ragazzini a quelle canotte e a quei pantaloncini troppo corti. Tra quei ragazzini c’è anche Nash.
Le sue capacità motorie e di coordinazione e la grande devozione alla sua nuova passione lo trasformarono ben presto in un giocatore decisamente sopra la media all’interno della St. Micheal Victoria High School, in continuo crescendo durante gli anni passati nella scuola. L’ultimo anno lo conclude sfiorando la tripla doppia di media ma nessun college presta attenzione alle prestazioni, per quanto straordinarie, di un ragazzo che raggiunge appena il metro e novanta. Ma Steve è testardo, scrive lettere ai più grandi istituti universitari d’America e le spedisce insieme ad un video realizzato grazie all’aiuto del suo allenatore. La leggenda narra che le lettere di rifiuto le abbia conservate come monito a mantenere un impegno sempre costante ed elevato. Fatto sta che l’american dream di Nash sembra naufragato definitivamente. Alla finale statale, però, tra il pubblico si intravede Dave Daley, lo scout dell’università di Santa Clara, California, alla ricerca disperata di un playmaker da inserire nel roster. Steven gioca una partita pazzesca e riesce a portare a casa titolo e provino. E’ fatta, si vola in America.
I dubbi sulla tenuta fisica di quel ragazzo normolineo si manifestano nei primi due anni di college, in cui ha si un buon impatto, forse anche migliore di quanto ci si potesse aspettare da uno uscito dal nulla cestistico, ma la sua comprensione del gioco non riesce ad esplodere. Si dice che la sua etica del lavoro lo spingesse a girare per il campus palleggiando con una pallina da tennis, così, giusto per affinare ancora il ball handing.
Il terzo anno è quello della svolta a Santa Clara e lo chiude con 21 punti e 6 assist di media. A sorpresa, però, Steven decide di conseguire la laurea in sociologia e psicologia rimanendo così anche il quarto anno al college, sperando di migliorare la sua posizione al draft NBA. Nel 1996, finalmente, arriva il suo momento. Viene chiamato da David Stern alla pick #15, da quei Phoenix Suns che non sembrano avere bisogno di un playmaker ma che decidono di puntare sul ragazzo della porta accanto from California, suscitando il malumore dei tifosi.
Andata e ritorno
La presenza di Sam Cassel e Kevin Johnson limita enormemente il tempo che Steve trascorre sul parquet, utilizzato quasi mai con la palla in mano ma semplicemente come specialista da dietro la linea da 3. A metà del primo anno arriva anche Jason Kidd, stella assoluta che gli toglie ancora di più la palla dalle mani del canadese. Nonostante un discreto impatto dalla panchina Phoenix decide che non vale la pena tentare di affidargli le chiavi del gioco e lo spedisce a Dallas per Martin Müürsepp, Bubba Wells, dei diritti su Pat Garrity e su una futura scelta al Draft (che sarebbe poi stato Shawn Marion). Bene ma non benissimo per la franchigia dell’Arizona.
Dietro questo scambio c’è un piccolo aneddoto che necessita di essere raccontato per capire come la franchigia allora allenata da Don Nelson potesse puntare così tanto su un ragazzo che aveva dimostrato tutto sommato poco. Ai tempi del college Steve aveva conosciuto Donnie Nelson, allora nello staff degli Warriors, e aveva colpito positivamente il figlio del coach. Quando Dallas si mise alla ricerca di una point guard intelligente, con una grandissima lucidità ed un’ottima capacità di creare dal palleggio e, alla fine dei conti, a prezzo da discount il figlio riuscì a convincere il padre allenatore-gm che il canadese era la scelta giusta.
A Dallas si trova nel contesto tecnico e ambientale adatto, vede una costante crescita dei compagni intorno a sé ed acquisisce sempre più consapevolezza nei propri mezzi. Le prime due stagioni sono di transizione, complici il lockout e un fastidioso infortunio alla caviglia che gli fa perdere circa 30 partite, ma servono soprattutto a migliorare l’affiatamento con il rookie Dirk Nowitzki e il veterano Finley. Con l’arrivo dell’imprenditore Cuban i Mavs iniziano a ritagliarsi un bello spazio al sole sulla cartina NBA. Dal 2000 al 2003 i Mavericks sono una presenza costante nei playoff, per la prima volta dopo 10 anni di buio ma fermandosi sempre in semifinale o in finale di Conference, contro gli incubi San Antonio Spurs e Sacramento Kings.
Nash riesce a guadagnarsi per due anni consecutivi la convocazione all’All Star game (2002 e 2003) ma non il rinnovo del contratto, uno dei pochi errori di valutazione di Cuban. Essendo restricted free agent Nash firma un quadriennale da 63 milioni di dollari offerto da Phoenix (chi si rivede) ma vuole restare a Dallas e chiede fortemente al proprietario di pareggiare l’offerta. 16 milioni di dollari per un quasi trentenne che sembra avere imboccato la parabola discendente sono decisamente troppi per Cuban, che decide di lasciare il tavolo delle trattative.
(Quasi) lieto fine
Il ritorno nella franchigia che lo aveva spedito senza troppi complimenti a Dallas sembra un azzardo, per entrambi le parti, se non fosse che in sei anni le cose sono cambiate e le congiunzioni astrali mettono insieme un allenatore decisamente fuori dagli schemi, Mike D’Antoni, un Giotto del pick&roll, il nostro Steven, ed un 4 che ha nelle gambe la dinamite pura, Amar’e Stoudemire. I Suns giocano il basket più spettacolare e divertente della lega, hanno il miglior attacco e Steve risplende come stella assoluta vincendo l’MVP della stagione. Arrivano quasi in carrozza fino alle finali di Conference, lasciando per strada Memphis e Dallas (ciao Mark), ma, si sa, gli attacchi fanno vendere i biglietti, le difese i campionati. Sulla sua strada trova ancora una volta gli Spurs, poi campioni, che spengono i sogni dei tifosi di Phoenix sul più bello con un perentorio 4-1.
Il grave infortunio di Stat al ginocchio e gli addii di Johnson e Jefferson sembrano dover smontare il giocattolo di D’Antoni ma l’MVP in carica non ci sta e porta di peso i suoi nuovamente ai playoff, rivincendo, stravincendo per il secondo anno l’MVP della regular season della stagione 2005-2006. Vince a gara-7 contro entrambe le franchigie di Los Angeles ma trova sulla sua strada WunderDirk che gli impedisce ancora una volta l’accesso alle Finals. L’anno successivo arriverà secondo dietro proprio al tedesco nella corsa all’MVP con numeri sontuosi (18,6 punti e 11,6 assist) e i suoi Suns verranno eliminati, di nuovo, dalla banda di Popovich.
C’è ancora un ultimo treno, un’ultima corsa che i Suns prendono e sembra essere quello buono nel 2009-2010 quando, per la prima volta in carriera, Nash butta fuori gli Speroni ed approda, per l’ennesima volta, al penultimo atto dei playoff. La serie contro i Lakers di Kobe è durissima e tirata fino al 2-2, momento nel quale Kobe adotta la Mamba mentality e domina gara-5 e gara-6 gettando Nash nella disperazione. Il lungo declino di Nash e dei suoi Suns inizia dalla stagione successiva, con qualche apparizione sporadica ai playoff e la sensazione che la chimica di squadra sia smontata con continue variazioni nel roster che stravolgono il gioco di squadra.
Nel 2012 Steve Nash, ormai 38enne, viene scambiato con i Los Angeles Lakers in cui allena il suo mentore D’Antoni. Le possibilità di creare un dream team, per quanto di breve durata, sembrano esserci con la presenza contemporanea di Bryant, Nash ed Howard. La convivenza tra il lungo da Atlanta e la stella della squadra risulta ingestibile ed il veterano Nash è costretto da ripetuti infortuni a sedersi a bordo campo in borghese.
Vederlo concludere una carriera straordinaria con lo 0 alla casella di anelli e di partecipazioni alle Finals fa davvero male. Secondo tutti coloro che partecipano al prodotto NBA Steve Nash è stato uno dei migliori playmaker di sempre e, nell’ultimo anno ai Lakers, riesce a raggiungere simbolicamente la cifra di 10.335 assist con il quale si issa al terzo posto di questa specifica graduatoria, superando Mark Jackson. Il 21 marzo 2015 comunica ufficialmente il suo ritiro.
Se anche un giocatore incredibile come Stephen Curry sostiene di essersi ispirato a Steve Nash per costruire il suo gioco significa che l’impatto sulla lega del ragazzo da Vancouver è stato davvero importante.
Alberto Mapelli