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Lillard, il bavaglio ai giocatori come la schiavitù

Il leader dei Blazers rivendica i diritti degli atleti prima come uomini che come professionisti nella diatriba sulla libertà d’espressione degli sportivi

Damian Lillard è una delle stelle più importanti della Lega e in quanto tale non si tira mai indietro, che si tratti di responsabilità sul campo o fuori. Negli Stati Uniti il tema delle proteste degli sportivi durante l’esecuzione dell’inno nazionale è all’ordine del giorno, col presidente Donald Trump che ha condannato in prima persona gli atleti protagonisti di genuflessione alle note di The Star-Spangled Banner.

L’atto di inginocchiarsi fu lanciato l’anno scorso dall’ex quarterback dei San Francisco 49ers, Colin Kaepernick, in segno di protesta verso il razzismo latente nella nazione e delle repressioni violente a sfondo razziale in alcuni episodi di cronaca col coinvolgimento di poliziotti bianchi e cittadini neri. Il suo atto di ribellione dilagò in tutta la NFL, fino ad arrivare anche in MLB e in NBA anche se in maniera meno massiccia.

Proprio la Lega, non più tardi di qualche giorno fa, ha invitato i giocatori a non protestare durante l’inno nel rispetto dei principi e dei valori su cui si fonda la comunità. Una sorta di restrizione che non va giù a Lillard, come non gli va giù il pensiero del giocatore che debba scendere in campo solo e soltanto come professionista senza che gli sia permesso di esprimere la sua opinione liberamente.

Lillard ha approfondito questa tematica in un’intervista rilasciata all’Oregon Public Broadcasting: ecco le dichiarazioni del playmaker dei Portland Trail Blazers.

Riguardo a questa vicenda, sembra che noi giocatori dobbiamo essere estranei. La volontà è sempre quella standard, ti dicono “indossa quella maglia e sii orgoglioso, non rappresentare nulla, non avere un’opinione, cerca di essere rispettoso, vai là fuori e gioca per me”. Tutti questi luoghi comuni mi fanno tornare alla mente la condizione degli schiavi, che tutti volevano giovani e forti. Qui è la stessa cosa: vogliono che andiamo in campo e facciamo quello per cui siamo costruiti. Siamo buoni atleti, siamo ben preparati a livello fisico, siamo capaci… ma non vogliono sapere quello che pensiamo, non vogliono sapere cosa ci importa davvero: è soltanto un “vai là fuori e fai il tuo lavoro”.

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