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Kobe: “Avrei protestato durante l’inno”

Il Black Mamba ha ammesso la sua vicinanza a Colin Kaepernick e al suo messaggio di protesta contro le violenze della polizia americana

Se Kobe Bryant fosse sceso ancora in campo in questa stagione, sarebbe stato uno degli sportivi americani a protestare durante l’inno nazionale. Kobe, in un’intervista a “The Undefeated”, ha confessato di credere nel messaggio di protesta lanciato da Colin Kaepernick, ex quarterback dei 49ers, divenuto celebre in tutto il mondo per il gesto di inginocchiarsi durante l’esecuzione dell’inno americano. Simbolo di protesta contro la violenza cieca e ingiustificata di cui abusa ancora la polizia, purtroppo, all’interno degli Stati Uniti.

“Sì, avrei partecipato alla protesta, sicuramente. So che sarei stato criticato per questo, ma va bene lo stesso. Credo che il messaggio di Colin fosse davvero semplice da capire. Le brutalità della polizia dovevano smettere. Dobbiamo rendercene conto.”

Il messaggio di protesta è indirizzato verso quella parte della polizia americana colpevole, secondo gli atleti, di usare troppa violenza verso le persone di colore. Tristemente celebre è il caso di Eric Garner, morto a Staten Island dopo che dei poliziotti lo avevano costretto a terra soffocandolo. “I can’t breathe”, le ultime disperate parole pronunciate dal ragazzo, sono diventate simboliche all’interno dell’ambiente NBA, come dimostrano le numerose maglie con questa frase indossate, fra gli altri, da LeBron James, Derrick Rose, Kyrie Irving e proprio lo stesso Bryant.

“Nessun giocatore aveva problemi con questa cosa (la protesta, ndr). Viviamo in un paese libero e abbiamo il diritto di protestare pacificamente. Secondo il mio punto di vista, è ciò che rappresenta la bandiera. Il diritto di parlare, di dare voce alla propria opinione. Chiunque ha il diritto di poter fare ciò.”

Se la NFL non ha una vera e propria regola che impedisce qualsiasi tipo di protesta durante l’inno americano, l’NBA invece impone agli atleti di mantenere una “posizione rispettosa” durante tutta l’esecuzione. Questa regola venne usata nel 1996 per sospendere Mahmoud Abdul-Rauf, colpevole di non aver preso parte alla cerimonia pre-partita.

I giocatori NBA quindi, quando vogliono lanciare un messaggio durante l’inno, si stringono fra di loro aldilà dell’appartenenza alle rispettive squadre e uniscono le loro braccia in un abbraccio collettivo. È capitato agli Hawks e ai Cavaliers nel mese di Ottobre. Recentemente anche Gregg Popovich ha detto la sua sulla questione razzismo negli USA.

 

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