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Cleveland Cavaliers

Dr. J.R. and Mr. Smith.

Il percorso di uno dei giocatori più stravaganti della lega tra genialità, follia, incoscienza e (si spera) definitiva redenzione. Semplicemente J.R. Smith.

Il numero 5, il numero di Shiva, la divinità rappresentata da 5 volti, simbolo di padronanza dei  5 elementi; la terra, l’aria, l’acqua, il fuoco e l’etere. L’etere, quella sostanza misteriosa chiamata anche quinto elemento o quint’essenza, in grado, secondo Aristotele, di sommarsi alla forza degli altri quattro elementi, completandoli. Il numero 5 è il numero dell’uomo, considerato il ponte tra Dio e l’Universo, il punto di incontro tra mondo materiale e mondo spirituale; la quinta lettera dell’alfabeto ebraico, “He”, la cui funzione è vita; il numero 5, simbolo dell’amore per la libertà. Cinque sono i giocatori che scendono in campo nel gioco del basket come cinque sono  le stagioni NBA affrontate da Kyrie Irving prima di entrare a far parte della storia di questo sport; cinque sono le stagioni che ha impiegato Lebron James per portare l’anello alla sua terra natia, l’Ohio, dopo averla abbandonata per le attrazioni e le potenzialità di Miami e della Florida; cinque è la somma delle cifre che compongono il numero di maglia di due dei più grandi di sempre della storia della NBA: Jordan e lo stesso Lebron James; cinque è il numero di maglia di un personaggio che dopo tante avventure vissute all’interno della lega e non solo, è riuscito a raggiungere il sogno di indossare l’anello e di alzare al cielo il premio più ambito, il Larry O’Brien Trophy; 5 è il numero di J.R. Smith.  Freehold, nella contea di Monmouth, nel New Jersey, è famosa per essere stata la città nella quale, al 39 di Institute Street, è cresciuto The Boss, Bruce Springsteen. La stessa Freehold che ha dato i natali il 09 settembre del 1985 a Earl Joseph Smith III. Nato da Earl Smith, giocatore di basket dal carattere piuttosto fumantino, che ha navigato tra le leghe semi-pro degli States, J.R. è stato iniziato al basket da quando era ancora neonato. Cerchi e palline disseminavano la casa nel New Jersey per permettere al primogenito di casa Smith di prendere confidenza con lo sport amato dal padre. Ma Earl senior nella lunga preparazione studiata per forgiare un futuro campione del basket, aveva un’idea ben precisa: “Only shot J.R.; la difesa non serve, se ne può fare tranquillamente a meno”.  E J.R ha seguito alla lettera i dettami del padre.  Dopo aver giocato a livello liceale nel New Jersey nella Saint Benedict’s Preparatory School a Newark, con medie di tutto rispetto (27 punti, 6 rimbalzi e 5 assist)  il giovane virgulto di casa Smith è stato reclutato dall’Università di North Carolina nella quale non mise mai piede.

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La spavalderia e la sua notevole capacità di mettere a referto dosi massicce di punti in tempi piuttosto brevi, sommati all’immensa prestazione che lo ha portato ad essere eletto co-mvp (assieme a Dwight Howard) del McDonald’s All-American Game, lo hanno spinto a rendersi eleggibile al Draft del 2004, dal quale uscì come 18esima scelta chiamato dai New Orleans Hornets. L’anno da rookie è tutt’altro che semplice. Partendo con i presupposti giusti, definendo la sua scelta di saltare il college come un esempio per i liceali e non un insulto per il mondo del college basket, J.R. passa il suo primo anno come fosse in un parco di divertimento all’interno di uno spogliatoio piuttosto rovente, vista la non straordinaria stagione dei Calabroni della Louisiana. Per lo più tale atteggiamento è mal sopportato da un allenatore old school come Byron Scott, noto per non dare troppo spazio ai giovani dai quali pretende un’etica professionale particolarmente sviluppata. Ma J.R. è così, prendere o lasciare; si diverte nel post gara a prescindere dal risultato, scherza con i compagni nel pre partita, tira da centrocampo quando tutti sono in fila alla linea del tiro libero e tutto ciò non aumenta l’indice di stima di Coach Scott. Il secondo anno è ancora peggio. Nonostante l’aggiunta di Chris Paul, che eleva notevolmente il tasso tecnico della squadra, e la convocazione allo Slam Dunk Contest nel quale J.R. si posiziona al terzo posto dietro ad Amar’e Stoudemire e Josh Smith, i rapporti con Coach Scott si raffreddano ulteriormente fino a  che il nativo di Freehold viene scambiato per Tyson Chandler e spedito a Chicago insieme a P.J. Brown. Nella città del vento  J.R. resta il tempo di una visita alla statua di MJ di fronte allo United Center; nuova destinazione Denver Nuggets.

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Gli anni a Denver sono anni trascorsi sulle montagne russe tra picchi di rendimento e discese negli inferi, il suo corpo diventa una tela su cui ogni tatuare d’America ha apposto la sua firma, il suo portafoglio diventa fonte di finanziamento per i rifornitori di sostanze illecite, il suo volto suscita un sorriso e un notevole aumento del conto in banca per i rivenditori di auto.  Nel 2006, alla sua prima prestazione  di livello, 36 punti contro gli Heat con 7 triple nel solo primo tempo uscendo dalla panchina, si contrappone la rissa che lo vide coinvolto contro i New York Knicks al Madison Square Garden che gli costò dieci giornate di squalifica; nel 2007, all’ottimo 39% da tre fatto registrare nella regular season si contrappone il doppio incidente, dapprima con Carmelo Anthony e  successivamente con l’amico Andre Bell , che sfortunatamente pagò con la vita, con susseguente arresto e sospensione da parte della Lega.  Nel 2009 al Career High di 45 punti fatto registrare contro i Kings con 11 triple su 18 tentativi, si contrappongono i guai con twitter e l’accusa di essere affiliato alla famigerata  Bloods Gang. Coach di questa esperienza a Denver George Karl che, dopo l’ennesimo tiraccio di Smith nel momento decisivo di una gara di playoff si lascerà andare in questa dichiarazione piuttosto eloquente: “I just love the dignity of the game being insulted right in front of me.” L’esperienza a Denver si conclude nel 2011, anno in cui J.R., in concomitanza con il lockout, si trasferisce in Cina, dove tra numeri e prestazioni balistiche senza alcun senso non riesce nell’intento di portare i suoi Zhejiang Golden Bulls ai playoffs. Il Gennaio del 2012 è l’anno del ritorno nella Costa Atlantica; è Mike D’Antoni che richiede la presenza nel roster dei Knicks del talentuoso J.R., utilissimo per estremizzare il concetto del seven second or less. Gioca solo metà della stagione ma aiuta i Knicks a raggiungere i playoffs dai quali usciranno per mano degli Heat fututri campioni NBA. Nell’anno 2012/2013 gioca, tutte da riserva, 80 partite facendo segnare la sua miglior media in carriera con 18,1 punti a gara con un season high di 37 e la consacrazione del titolo di Sesto uomo dell’anno. Proprio quando sembra che J.R. abbia canalizzato la sua concentrazione nel gioco ecco che arriva l’ennesima doccia fredda. Dopo aver rinnovato con i Knicks viene pizzicato dalla lega che lo trova positivo alla cannabis nel luglio del 2013 e le azioni dell’indice Smith tendono nuovamente al ribasso. L’epopea di J.R. nel suo primo decennio di NBA è sinistramente accostabile alla continua trasformazione narrata dal geniale Robert Louis Stevenson nel capolavoro “Lo strano caso del Dr. Jakill e Mr Hyde”. Una continua evoluzione dal bene al male e dal male al bene che non permette al purissimo talento di Freehold di eccellere e competere ai livelli che gli competono. Un continuo lavoro certosino fatto di allenamenti e sessioni di tiro infinite tendenti , per dirla alla Coach Nikolic, a riempire quel secchio del latte puntualmente preso a calci per disperdere tutto ciò che di buono c’è dentro. E non sembra ci sia via d’uscita. Almeno fino al Gennaio 2015 e alla chiamata che non ti aspetti. Con una manovra di mercato inaspettata i Cleveland Cavs, appena riappriopriatisi del loro Re, Lebron James, strappano ai Knicks J.r. Smith e Iman Shumpert e alla corte del Re, J.R. sa di avere una chance per redimersi.

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Lebron come l’avvocato Utterson, Kyrie Irving come il signor Poole, che Stevenson descrive come amanti dei sani principi, provano nel 2015 a cacciare Mr. Hyde dalla vita di J.R. ma il male ha ancora la meglio; i festeggiamenti prematuri dopo la vittoria delle Eastern Conference, gli infortuni dei Cavs e i temibilissimi Splash Brothers riservano una cocente delusione con la sconfitta nelle Finals. Lebron e Kyrie ci riprovano e nel 2016 riportano J.R. al cospetto dell’appuntamento con la storia. Sul punteggio di 1 a 3 sembra ripetersi l’incubo dell’anno passato, sembra che la strada per la gloria sia sbarrata per J.R. ma si arriva a Gara 7. Lo scenario è il più bello ma anche quello più ricco di insidie. In trasferta, alla Oracle Arena. Una partita per scrivere il proprio nome nella storia dello sport al quale ha dedicato la vita, una chance per sconfiggere definitivamente Mr Hyde. 12 punti e 4 rimbalzi in 39 minuti e 2 su 8 da tre. Sembrerebbero numeri di poco conto se quelle due triple non arrivassero nel momento di ricucire uno dei pochi strappi che ha avuto la partita. Una prestazione a supporto dei due primi attori, il 2  e il 23; un sacrificio a livello difensivo che J.R. non aveva mai prodotto in nessun contesto, anche per non disobbedire ai dettami del padre; 39 minuti vissuti da Dr. Jakill, sbattendo la porta in faccia a quel Mr. Hyde che ha voluto e visto allontanarsi definitivamente una volta afferrato il rimbalzo dopo la stoppata, se così semplicemente si può definire quella giocata di Lebron, contro Iguodala sul pari 89. La tripla di Irving, la sirena, l’apoteosi, il traguardo raggiunto dopo tanti sacrifici e tante assurdità compiute dal 2004 ad oggi. La conferenza stampa struggente nella quale elogia e si scusa con la famiglia, e la festa finale. Tra fiumi di champagne.  Il tutto dopo aver indossato 5 casacche diverse, il tutto con il numero 5 sulle spalle, il tutto da quinto elemento di una squadra costruita per vincere due anni prima senza di lui,  il tutto da Dr. Jakill e non più da Mr. Hyde, il tutto da J.R. Smith.

Checco Rivano

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