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Intervista a Emiliano Poddi: il basket è storytelling

Chiacchierata-fiume con l’autore de “Le Vittorie Imperfette”, romanzo sulla finale USA-URSS del 1972

Emiliano Poddi è uno scrittore ed ex cestista brindisino; il 25 febbraio è uscito il suo secondo romanzo: le Vittorie Imperfette (Feltrinelli). Il libro racconta la drammatica Finale Olimpica di Basket del 1972, con il trionfo dell’URSS sugli USA alla terza ripetizione (causa chiamate arbitrali controverse) dei tre secondi conclusivi. Con Poddi abbiamo parlato della partita, di basket americano, di vittorie sfuggenti e di sconfitte che insegnano a vivere. Con una grande consapevolezza: il basket è puro storytelling.

La pallacanestro per te ha avuto un ruolo formativo fondamentale: parlaci dei tuoi trascorsi cestistici.

Fin da piccolo il basket mi ha investito come un’overdose. Sono nato in una città con tradizione cestistica come Brindisi e sono figlio di due ex-giocatori. Ho fatto tutta la trafila delle Giovanili, ho disputato i Campionati Nazionali Cadetti e Juniores con la maglia di Brindisi; nel frattempo ho esordito in B1 come terzo playmaker. Una sola presenza: ho giocato per l’infortunio di chi era davanti a me nelle rotazioni. A quel punto mi sono assestato su livelli più adeguati alle mie possibilità: tra C1 e C2. Poi ho subito un bruttissimo infortunio al ginocchio, nel 2000. Mi sono operato 4 volte, ma non mi sono più ripreso. Uscire definitivamente dal rettangolo di gioco, dal tuo mondo, da un posto che ti fa stare bene, può essere un vero dramma.

È uscito il tuo nuovo romanzo: Le Vittorie Imperfette. Come il tuo esordio (Tre Volte Invano) parla di pallacanestro. Perché il basket ha una forza narrativa così dirompente?

Avendo dovuto chiudere la mia carriera prima del previsto, ho trovato naturale “continuare a giocare” scrivendo di basket. La pallacanestro ha molti punti di contatto con la narrativa: si gioca con le mani, ha una sua razionalità e geometria, e, proprio come la scrittura, vive di cambi di ritmo. Le partite hanno dei picchi drammaturgici: il confronto tra le due squadre tende ora da una parte e ora dall’altra, i capovolgimenti di fronte sono continui. Con Le Vittorie Imperfette m’interessava parlare di tempo. Di un tempo che scorre all’indietro e che sembra limitato (40, 48 minuti; tre secondi, nel caso del libro), ma che in realtà ha un’ampiezza insospettabile; non solo perché le partite hanno una componente “giocata” a bordocampo, ma anche perché il basket ha una relatività quasi einsteiniana. Mia nonna mi chiedeva sempre, quando uscivo per andare a una partita, quando sarei tornato. Era difficile farle capire che i 40 minuti del basket non sono i 40 minuti della vita di tutti i giorni.

La basket-sfera

La basket-sfera

Quali sono i punti di contatto tra il mestiere di cestista e quello di scrittore?

Intanto disciplina, allenamento e una predisposizione al sacrificio che porta ad avere prestazioni sempre migliori. Poi il talento, che fiorisce solo con l’applicazione costante. Sia nella narrativa che nel basket, inoltre, si è sempre di fronte a un avversario: il conflitto è parte integrante di storie e partite. Estendendo il discorso al rapporto tra basket e vita: non c’è niente che assomigli al battito del cuore quanto la sfera che rimbalza sul parquet durante il palleggio.

Nelle Vittorie Imperfette incroci il reale svolgimento della Finale Olimpica tra USA e URSS del ’72 con la tua storia personale. Che peso ha avuto il basket nella tua vita?

La storia che racconto nel romanzo s’intreccia con la mia da sempre. Negli anni ’80 – io sono del 1975 – a Cisternino, un paese a 80 chilometri da casa mia, si svolgeva un torneo che metteva insieme il top della pallacanestro europea. Unione Sovietica, Olimpia Milano e il meglio degli Americani che giocavano nel Campionato Italiano. Un’elite che rischiava le caviglie su un campetto di periferia, fuori da una scuola elementare pugliese. La Guerra Fredda era ancora in pieno svolgimento e il confronto sportivo tra USA e URSS rilevante quasi quanto quello militare. Anni dopo mi è capitato di vedere il filmato della Finale del ’72: la partita in cui il tempo è impazzito, in cui il basket ha dato il meglio di sé dal punto di vista narrativo. È successo solo cinque giorni dopo la strage di Monaco; cinque giorni contro tre secondi: i tre secondi conclusivi della finale, ripetuti per tre volte. I protagonisti di quella partita sono intrinsecamente letterari; succede, quando, gli avvenimenti storici assumono connotati romanzeschi.

Il tuo romanzo, come il basket, vive di contrapposizioni. Kevin Joyce (l’eroe mancato della rimonta americana) contro Saša Bjelov (l’autore del tiro decisivo per l’URSS); vita contro morte; sconfitta contro vittoria. Nella pallacanestro, come nella letteratura e nella vita, le vittorie sono sempre imperfette?

Chi intraprende una carriera sportiva deve avere una qualche inconfessata forma di attrazione per la sofferenza. Le storie degli sportivi più vincenti di sempre sono piene di sconfitte, brucianti e dolorose. Anche nella vittoria c’è qualcosa di non concluso, non è un punto d’arrivo: ti tocca ogni tanto, ti regala una gioia effimera; è un’emozione intensa ma destinata a deperire. Il personaggio che incarna questo concetto nel romanzo è Saša, che vive sulla propria pelle il destino degli eroi russi: una drammatica “fall from grace”, dopo aver toccato con mano la gloria. A 22 anni realizzi il tiro decisivo nella partita di basket più importante della storia del tuo paese; sei poco più che un adolescente e raggiungi di colpo il picco d’intensità della tua esistenza. Lo dice proprio Saša nel romanzo: è come se avesse bruciato tutte le riserve di energia e tutta la voglia di vivere nell’esultanza post-canestro decisivo. Ma una vittoria imperfetta è anche quella degli Americani, che avevano trionfato due volte – prima dei controversi reset del cronometro – e che nel secondo caso hanno pure avuto il tempo di festeggiare con il pubblico. Una vittoria durata un minuto: non credo ci sia mai stato nulla di tanto transitorio.

Le Vittorie Imperfette

Le Vittorie Imperfette

Come ci si approccia a uno snodo così importante della storia sportiva (e della storia in senso lato)?

Lo sport ha il potere di condensare sequenze di avvenimenti, durate anni o decenni, in un lasso temporale limitato. A mio modo di vedere, alla corsa allo spazio tra USA e URSS segue il confronto scacchistico tra Bobby Fischer e Boris Spasskij (vinto dall’americano), che trova una sublimazione ulteriore nella Finale del ’72. Tuttavia, pur nella Storia con la “s” maiuscola è possibile trovare dei buchi di documentazione; io sono partito da lì. Della squadra di basket russa si sa pochissimo. I Sovietici si allenarono a Volgograd (Stalingrado), gli Americani a Pearl Harbor; entrambi i team rilasciarono poche dichiarazioni. Per uno scrittore è interessante approcciarsi a questi spazi bianchi, cercare di fare chiarezza e trovare dei collegamenti narrativamente spendibili. Come si allenavano? Qual era il loro stato d’animo? Cosa pensavano in campo e fuori dal campo? Ho cercato di far luce su fatti che rischiavano di sparire dalla memoria collettiva.

Stalingrado e Pearl Harbor: politica, sport e media si sono fusi in modo particolare, in quegli anni…

Ovviamente le due città avevano una valenza simbolica. Potevano esercitare un fascino attrattivo nei confronti di qualcuno e avere un che di repulsivo per qualcun altro. È il caso del campione hippie Bill Walton, una delle possibili star della Nazionale USA, che decise di lasciare spazio a giocatori di minor fama per motivi ideologici (era in corso anche la Guerra in Vietnam). Gli Stati Uniti, in ogni caso, fecero valere il proprio peso politico quando riuscirono a imporsi sul Comitato Olimpico e ottenere che la finale si disputasse in una fascia compatibile con gli orari televisivi della popolazione americana. Curioso come la partita, dopo tutti questi giochi di potere, sia stata mandata in onda in differita su ABC. Un evento del genere, oggi, avrebbe una copertura mediatica globale e capillare.

A proposito di media: quanto c’è di vero e quanto di costruito nel basket contemporaneo?

Si sono moltiplicate le occasioni in cui i giocatori possono fare narrazione di sé. Il campo rimane il luogo d’espressione principale, ma social network e tv hanno ormai un peso comparabile. È come se il lavoro di cestista, ad alti livelli, si fosse sdoppiato: devi contemporaneamente riuscire a dare il massimo mentre giochi e saper raccontare te stesso quando esci dal campo. La rappresentazione di sé non mi sembra un male in senso lato: l’importante è non confondersi e non pensare che lo sport si esaurisca lì. Questo processo di mediatizzazione è in atto da decenni: le Olimpiadi del ’72, ad esempio, sono state le prime veramente televisive. Allora la tv a qualcuno faceva paura, come oggi possono far paura i social. Lo sport deve relazionarsi con le novità e con il mondo reale; in questo modo cambia pure il modo di fare narrazione sportiva. Vedere le partite del passato è come leggere un classico della letteratura: si percepisce uno stacco temporale, ma non si può non comprendere quanto si tratti di esperienze fondative.

Poddi e il suo prezioso borsone “olimpico”

Facciamo un gioco: io ti dico il nome di un cestista famoso e tu lo associ a uno scrittore o a un personaggio narrativo (in senso lato) e mi spieghi il perché della scelta. Il primo è Kobe Bryant.

Faccio un’associazione puramente geografica: Bryant è americano, ma ha un rapporto fortissimo con l’Italia. Quindi scelgo Don DeLillo, per il peso che le origini italiane hanno avuto nel suo modo di scrivere.

Michael Jordan.

Shakespeare, per quanto è stato imprescindibile per tutto ciò che è venuto dopo. Melville – e Moby Dick in particolare – per la sensazione di onnipotenza e ispirazione trascendente che Jordan dava ogni volta che scendeva in campo. Di Moby Dick MJ ha anche il senso di sfida costante, la volontà di affermarsi sull’avversario e di dimostrare a qualunque costo di essere il più forte. Se arrivi a distruggere ogni record e ogni rivale, devi anche saper trovare la forza per sfidare te stesso, per metterti continuamente alla prova.

Larry Bird.

Bird ha un che di Klimt; se vogliamo andare più indietro mi ricorda l’arte bizantina. Me lo immagino sempre di profilo, in posa ieratica e imperscrutabile. Statico, inaccessibile, cristallizzato nel tempo: un’icona immortale.

Dino Meneghin.

Vale un po’ il discorso fatto per Jordan. Meneghin è Manzoni. L’importanza di questi personaggi è, oltre che sportiva per l’uno e letteraria per l’altro, fondativa: Manzoni ha codificato il romanzo in Italia, Meneghin è un monumento del basket e un modello per le generazioni successive.

Danilo Gallinari.

Lo accosterei a Paolo Sorrentino: entrambi sanno raccontare storie a tutto tondo. Gallinari su un campo da basket non ha limiti. Segna, va a rimbalzo, conduce il gioco, tira da tre, può mettersi in post; sa scegliere, addirittura, quando lasciare il palcoscenico ad altri. Il Gallo è in grado di interpretare tutti i ruoli, di essere camaleontico. Di Sorrentino si può dire lo stesso: a volte opta per un cinema visivo, altre volte resta nascosto; rimane un grande narratore, un autore in grado di raccontare ogni tipo di storia. Da sottolineare anche come sia Gallinari che Sorrentino abbiano fatto fortuna in America (il secondo con l’Oscar per La Grande Bellezza).

Steph Curry.

Qui preferisco attendere: non voglio cristallizzare un fenomeno in movimento, soprattutto se di questa portata. Voglio aspettare la fine della storia.

L’impatto di Curry sul pianeta NBA, però, ha già fatto registrare momenti di rilevanza straordinaria. Lo si può definire il Jordan contemporaneo?

Jordan, lo voglio sottolineare di nuovo, aveva in sé qualcosa di non umano; basti pensare alla quantità incredibile di tiri decisivi che ha messo a segno nella sua carriera. Curry, come detto, è storia in movimento, un unicum sportivo ancora non del tutto quantificabile. Mi colpisce, di Steph, come sia riuscito a diventare così universalmente rispettato in poco tempo, specie dagli avversari. In questo lui e Jordan sono uguali e opposti allo stesso tempo: Jordan era temuto, più che rispettato. LeBron, il miglior giocatore dell’NBA pre-Curry, ha detto di non aver mai visto uno come Steph; Magic e Bird hanno lottato fino all’ultimo contro l’evidenza che Jordan fosse il miglior giocatore al mondo. Se vogliamo trovare una differenza tra Curry e MJ è proprio qui: Jordan viveva in un’NBA fatta di rivalità accese e di sfide tra individualità debordanti; Steph è l’epitome di un’epoca di grande “fratellanza” cestistica. Forse, a volte, esagerata. L’istintività del “periodo d’oro” dell’NBA mi sembra rilevabile anche in un altro episodio della mia adolescenza cestistica: le sfide USA-Croazia delle Olimpiadi del ’92. Il duello in singolar tenzone tra i due campioni Jordan e Petrovic in finale e la terribile accoppiata Mj-Pippen versus Kukoc – con il duo dei Bulls coalizzato con il preciso intento di eliminare Toni dalla partita – nel match di girone. MJ non si accontentava di sconfiggere gli avversari; voleva annichilirli. Non so se Curry sia interessato a fare lo stesso; non se nemmeno se potrebbe, nell’NBA di oggi.

Basket e Letteratura

Basket e Letteratura

A proposito di ieri e oggi… Tifavi per una squadra NBA da adolescente? Ora segui qualche giocatore in particolare?

Da ragazzo tifavo per i Sixers, squadra per cui simpatizzo anche oggi. All’epoca Julius Erving – il Dottore – imperversava su tutti i campi NBA. Ricordo benissimo quando gli ho visto portare a termine un alley-oop durante una Gara delle Schiacciate. Oggi si vedono giocate di questo tipo in continuazione, ma io all’epoca non immaginavo neanche che si potesse fare qualcosa del genere. Ricordo anche il commento di un Dan Peterson impazzito in sottofondo. L’NBA stava crescendo a grande velocità e io, dopo aver comprato la prima canotta dei Sixers, ho iniziato la caccia compulsiva al gadget. Peterson organizzava un camp a Salsomaggiore Terme negli anni ’80: ho delle foto da cui è molto facile capire che squadre tifassimo io e i miei amici. Uno con la divisa Sixers, uno vestito Lakers dalla testa ai piedi, l’altro con la canotta dei Celtics… Vorrei spendere due parole anche su John Stockton. È stato il giocatore che più ha fatto arrabbiare chi non aveva abbastanza talento per sfondare, come me: Jordan lo veneri, se pensi a Shaq ti senti minuscolo, LeBron ha un fisico fuori da ogni logica. Sono un’altra cosa. Ma Stockton, Stockton no. Sembrava uno normale. Era la prova vivente che il basket non è solo per i superatleti. Poi, certo, dove non lo portava il fisico arrivava con un’intelligenza superiore. Vedeva il gioco in modo unico; certe linee di passaggio erano solo sue. Smontava la realtà e la capiva diverse frazioni di secondo in anticipo rispetto agli altri. Il gioco di oggi, che seguo meno, è più frenetico e più estremo dal punto di vista atletico: non so se uno Stockton, o anche un Bird, potrebbero stare ad alto livello nell’NBA odierna. Non voglio contraddire quanto ho detto in precedenza: ogni epoca ha le sue specificità. Ma rimango innamorato dei giocatori su cui mi sono formato negli anni ’80.

Hai qualche aneddoto da condividere?

Al camp di Peterson andavamo anche perché speravamo di incontrare qualche grande personaggio. I grandissimi, però non sono mai venuti. Una volta Mike Fratello non si presentò all’ultimo. Una cosa che accomuna noi, la prima generazione dell’NBA in tv, e gli appassionati di oggi, è il tentativo – puntualmente fallito – di imitare i gesti caratteristici dei giocatori più in voga. Al tempo era diventata una routine che la gente si scavigliasse per tirare come Jordan o Petrovic. Ma il più pericoloso di tutti era Magic Johnson: in allenamento i palloni volavano da tutte le parti, vetri compresi; ai playmaker bisognava impedire di vedere le partite dei Lakers.

Hai incontrato qualche giocatore importante di persona, anche successivamente?

Nella mia città non si faticava a incrociare cestisti di alto livello. Con Roberto Cordella (play anche della Nazionale) e Francesco – Chicco – Fischetto sono tuttora molto amico. Hanno entrambi giocato a Brindisi. Abbamo anche avuto degli stranieri forti: Otis Howard, Tony Zeno, Marty Byrnes (che ha vinto un titolo con i Lakers nel 1980). Byrnes arrivò a Brindisi da guru e la città intera entrò in smania da Anello: tutti volevano vederlo. Quando ero studente a Milano – e avevo quasi smesso di giocare a basket – ho avuto modo di giocare al PalaLido, che all’epoca era il San Siro della pallacanestro. In campo c’erano Bariviera, Fischetto e pure Flavio Tranquillo.

A te il basket ha dato e ha tolto. In NBA ci sono molti giocatori provenienti da contesti sociali borderline. Secondo te la pallacanestro può salvare la vita?

Credo che il basket abbia un ruolo formativo eccezionale. Sono cresciuto negli anni ’80; molti potrebbero ritenerla una fortuna: si tratta del primo decennio “spensierato” della storia italiana. Le generazioni precedenti sono diventate adulte in fretta: tra guerre e terrorismo. L’edonismo leggero degli anni ’80 a qualcuno ha creato scompensi: la maturazione avviene sempre attraverso il conflitto. Io, per fortuna, ho trovato un campo in cui misurarmi, in cui sviluppare le mie capacità: il campo da basket.

Chi gioca a basket – forse proprio perché si tratta di una disciplina così complessa e conflittuale – guarda agli altri sport quasi con sufficienza. Ti sei fatto un’idea del motivo?

Potrei replicare in modo “qualunquista” e dirti, come tutti gli appassionati di basket sanno, che rispondere non serve. Il basket è troppo superiore a tutti gli altri sport, è evidente (ride, ndr). Ma non possiamo accontentarci di essere autoreferenziali. Preferisco citare Bill Russell, leggenda NBA e personaggio presente ne Le Vittorie Imperfette: “Il basket è lo sport che più di tutti tende al cielo.”

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(Photo Credits: Veronica Coppo)

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