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Not in my house! – Dikembe Mutombo

18 anni di onorata carriera, sufficienti per conquistare un posto d’onore nel cuore dei tifosi e nella Hall Of Fame. La storia di uno dei migliori difensori che abbiano mai calcato un parquet NBA. Signore e signori, Dikembe Mutombo.

Violenza, fame, povertà: è questo lo scenario che caratterizza la Repubblica Democratica Del Congo (all’epoca Zaire) degli anni Ottanta. Ex colonia belga, ottenne l’indipendenza nel 1960 grazie all’intraprendenza politica di Patrice Lumumba, ben presto divenuto un modello per le numerose colonie africane desiderose di svincolarsi dalle ingerenze europee. Dopo il suo coraggioso intervento alla Conferenza sul Congo tenutasi a Bruxelles, la madrepatria decise di farsi da parte, temendo una nuova e sanguinosa guerra civile. Prendere possesso di quei territori che per secoli erano rimasti nelle mani dei sovrani europei non era certo semplice per le nuove nazioni africane, che non avevano mai sperimentato stabili forme di governo da poter applicare una volta ottenuta l’indipendenza. A quanto pare la libertà non sempre va di pari passo con la pace: il neopresidente Lumumba fu deposto con un colpo di Stato e assassinato solo 6 mesi dopo aver dato una nuova speranza al popolo africano. Fu il colonnello Mobutu, appoggiato dagli Stati Uniti, a prendere il suo posto, instaurando un vero e proprio regime dittatoriale durato fino al 1997. Lo Stato è tuttora caratterizzato da un clima fortemente instabile e da profondi squilibri sociali e la situazione non accenna a migliorare nel breve periodo. E’ questa l’ambientazione, drammatica quanto suggestiva, della nostra storia, la storia di Dikembe Mutombo.

Dikembe Mutombo

Dikembe Mutombo Mpolondo Mukamba Jean-Jacques Wamutombo nasce a Kinshasa il 25 giugno 1966, settimo di dieci fratelli. Mpolondo, il suo terzo nome, nella lingua locale vuol dire “guerriero”: mai nome fu più azzeccato. Papà Samuel, laureato alla Sorbona e stimato medico, nonostante la numerosa prole riesce a garantire un pasto caldo a tutta la famiglia e non solo: il suo spirito umanitario lo porta ad aprire la porta ai meno fortunati e non sono rare le occasioni in cui i Mutombo offrono accoglienza alle vittime del regime. E’ mamma Biamba Marie ad occuparsi dell’educazione dei figli, ai quali inculca una grande etica del lavoro ed una profonda spiritualità. Il piccolo Dikembe cresce in una sorta di campana di vetro rappresentata dallo status sociale ed economico della famiglia, che lo protegge dalle insidie delle strade di Kinshasa. Lo sport entra a far parte della sua esistenza fin dai primi anni di vita, nei quali pratica arti marziali e si innamora del calcio; i suoi centimetri, in costante aumento, lo confinano tra i pali e il giovane dimostra di sapersi destreggiare nel ruolo di portiere. E il basket?

Se Dikembe è stato introdotto quest’anno nella Hall Of Fame il merito è da attribuire a Samuel Mutombo. Grande appassionato di basket, è lui a spronare (non così velatamente) suo figlio a dedicarsi al nostro sport, ma le sue parole non sembrano fare breccia nel cuore di Dikembe. Il calcio è ormai parte integrante della sua vita, perchè lasciare tutto e provare questa nuova disciplina? Alla fine, dopo innumerevoli suppliche, Dikembe si lascia tentare: un’estrema goffaggine sembra portare quel colosso a spasso per il campo in balia di sè stesso. Sarà una scoordinatissima caduta, che lascerà in eredità parecchi punti di sutura, a decretare dopo pochi minuti la fine di quel desolante esordio. Ormai per papà Samuel è una questione personale, non si dà per vinto e con la complicità del fratello Ilo trascina letteralmente Dikembe fino al campetto costringendolo a giocare. Qualche allenamento dopo, i due fratelli entrano in pianta stabile nella nazionale giovanile dello Zaire e Dikembe inizia a far parlare di sé: 218 centimetri di abnegazione non passano certo inosservati.

Africano, centro dominante, fenomenale stoppatore. Chi vi viene in mente? Se pensate al nostro Dikembe siete fuori strada: mentre il futuro Hall Of Famer fatica ad apprendere i fondamentali del gioco, dall’altra parte dell’oceano c’è un certo Olajuwon che fa il bello e il cattivo tempo sotto le plance americane. Akeem (questo è il suo vero nome, l’aspirazione venne aggiunta all’arrivo a Houston) rappresentava un modello per tutti i giovani sportivi africani, era riuscito a coronare il loro sogno, mentre loro soffrivano per le continue guerre civili che imperversavano in Africa. Anche a Kinshasa l’eco della fama del grande Olajuwon si fa sentire e il nostro Dikembe non è immune al fascino sportivo esercitato dal nigeriano. Desidera vederlo in azione, ma come? La sua famiglia era benestante, ma non poteva certo permettersi la visione satellitare dei canali americani, a differenza dell’ambasciata americana di Kinshasa. Insieme ad un amico, Dikembe decide di intrufolarsi per vedere “The Dream” con i suoi occhi, che rimangono inesorabilmente colpiti dallo straripante talento di Olajuwon. L’amicizia con le guardie dell’ambasciata non farà altro che suggellare il rito della contemplazione di Akeem.

Hakeem_Olajuwon.jpg

Fortunatamente Samuel Mutombo non sarà ricordato soltanto per la sua ossessione per la palla a spicchi. Dikembe col passare degli anni si avvicina sempre di più alla figura paterna e mira ad emularne le gesta, desiderando ardentemente un futuro in camice bianco. Fare il medico in Africa vuol dire avere grande spirito umanitario ed attitudine al sacrificio, che a Dikembe di certo non mancano, tuttavia per fare il grande salto è necessario volare via dal nido e spiccare il volo verso altre mete. Le ali, metaforicamente parlando, gli vengono offerte dalla Georgetown University, che nel 1987 decide di concedergli una borsa di studio. E’ giunta l’ora di prendere coraggio e valigie, si parte per l’American Dream.

Lo sbarco a Washington non è dei più facile per un Mutombo poco più che ventenne: la capitale è completamente diversa dalla sua Kinshasa e il non conoscere neanche una parola di inglese di certo non aiuta. Dopo un anno di college passato esclusivamente sui libri, Dikembe entra a far parte dei Georgetown Hoyas, college di grande tradizione in fatto di centri, allenati da coach John Thompson. Trascorrere un anno lontano da casa in un habitat così diverso da quello naturale e senza conoscere nessuno è complicato per chiunque, John Thompson lo sa bene. Per questo motivo decide di dare fiducia a quello spaesato ragazzone africano, che lo ripaga a suon di prestazioni… davvero mediocri! 3,4 punti e 3,3 rimbalzi ad allacciata di scarpe sono il suo biglietto da visita, ma coach Thompson sa bene che Mutombo è un progetto a lungo termine e per sua fortuna c’è un certo Alonzo Mourning a caricarsi la squadra sulle spalle. Il ragazzo è un diamante grezzo, con il duro lavoro i risultati non potranno che arrivare. Già dall’anno successivo la musica cambia: la coppia di lunghi Mourning-Dikembe forma un muro invalicabile per gli avversari, i tifosi sono pazzi di Dikembe e creano una “Rejection Row” da innalzare ad ogni stoppata del formidabile duo. Grazie ai consigli di Thompson, che diventa una sorta di secondo padre per lui, Mutombo matura come giocatore ma sopratutto come uomo, imparando a vivere in una società così diversa dalla sua. Le medie crescono di anno in anno, così come l’interesse degli scout NBA. Quello che sembrava essere soltanto un hobby sta per diventare un lavoro a tempo pieno. E’ in arrivo il Draft 1991, la medicina e gli attaccanti avversari dovranno farsene una ragione.

Il 25 giugno, giorno del suo compleanno, i Denver Nuggets regalano a Dikembe l’accesso nella National Basketball Association selezionandolo con la quarta scelta. L’impatto difensivo di Mutombo nella Lega è straordinario, fin dall’esordio si dimostra stoppatore eccezionale e ottimo rimbalzista. Nonostante i limiti del suo bagaglio offensivo, alla fine della stagione fa segnare 16.6 punti di media, record personale, oltre ai 12 rimbalzi e alle 3 stoppate d’ordinanza, strappando anche la prima convocazione all’All-Star Game. Gli ottimi risultati personali non sono conditi da memorabili prestazioni di squadra: nelle prime due stagioni trascorse in Colorado, i Nuggets falliscono l’accesso ai playoff, conquistati per un soffio solo al termine della stagione 1993-1994. Ad attenderli al varco ci sono i Supersonics guidati dal duo Payton-Kemp. La cavalcata trionfale nella regular season dei Seattle SuperSonics era terminata con un record di 63 vittorie e solo 19 sconfitte, i Nuggets sono agli occhi di tutti la vittima sacrificale da offire in pasto ai temibili Sonics. Dopo due cocenti sconfitte, la vittoria si palesa in sogno ad un Mutumbo deriso dalla stampa. Ben presto quella visione si rivela profetica e i Nuggets riescono ad avere la meglio in 5 gare a suon di stoppate e dita agitate in faccia al malcapitato schiacciatore.

Dikembe Mutombo

Già, il finger wag. Neanche Mutombo ricorda esattamente quando abbia fatto il suo debutto sui parquet NBA, sicuramente dopo il 1993. Deke sostiene che esista un antecedente: in precedenza, dopo una stoppata, Mutombo era solito scuotere la testa, ma la signature move in questione non veniva capita da tifosi e avversari. Fu questa la causa della “metamorfosi” che lo portò ad agitare solo e soltanto l’indice (non la mano, ci tiene a precisarlo). Mi assicuro che tu non venga più a schiacciare, questo è il messaggio che il buon Dikembe vuole trasmettere. Ben presto il finger wag diventò un simbolo dell’intera NBA, adorato dai fan ed odiato dagli avversari. Questi ultimi ben presto iniziarono a lamentarsi e il povero Dikembe fu bersagliato di multe da parte della Lega. Onde evitare ulteriori polemiche, da quel momento in poi fu costretto ad agitare il suo indice lontano dalla vittima di turno. Giocare contro la squadra in cui Mutombo militava rappresentava una ghiottissima occasione per poterlo umiliare schiacciandogli in faccia. Per dovere di cronaca, non sono molti a potersene vantare: tra essi merita una menzione speciale Sua Ariosità Michael Jordan. Il rapporto tra i due nasce durante la prima stagione del nostro tra i “grandi”: forse provocato da Mutombo negli ultimi secondi di partita, MJ decide di tirare un tiro libero ad occhi chiusi, dedicandolo al centro africano.

This one’s for you, baby“.

 

Solo rete.

Welcome to the NBA!“.

 

Persino Sua Maestà impiego parecchi anni prima di poter violare la “No Fly Zone”: solamente nel 1997 riuscì finalmente a posterizzare il centro africano, agitando l’indice e beccandosi un tecnico.

Dov’eravamo rimasti? All’impresa dei Nuggets contro Seattle? Non tutte le favole hanno un lieto fine, figuriamoci i Playoff.  Il sogno si interrompe in Semifinale di Conference contro gli Utah Jazz, Dikembe e soci vengono bruscamente riportati alla realtà. L’anno successivo, dopo uno sweep al primo turno contro San Antonio, Dikembe deve fare i conti con la prima free agency della sua carriera. L’offerta dei Nuggets non è sufficiente per farlo restare in Colorado, per questo Mutombo decide di cambiare Conference accasandosi ad Atlanta. Dal punto di vista del rendimento personale, negli anni trascorsi in Georgia si conferma un eccezionale stoppatore e rim protector, tuttavia la squadra non riesce a raggiungere traguardi prestigiosi. Affermarsi in una Eastern Conference in cui figurano squadre come i Chicago Bulls di Jordan o i New York Knicks di Ewing non è certo impresa semplice, infatti la squadra, nonostante l’arrivo di Mutombo, non riesce ad andare oltre le Semifinali di Conference, fallendo negli ultimi anni persino l’accesso ai Playoff. Essere annoverato nell’elite dei difensori del gioco è il principale obiettivo della carriera del nostro, pertanto i titoli di Miglior Stoppatore e Miglior Difensore Dell’Anno vinti in quel periodo riescono a rendere meno amari gli insuccessi di squadra. E’ in questo periodo che Mutombo e il suo finger wag diventano a tutti gli effetti un’attrazione della Lega; i tifosi di Atlanta, nonostante gli anni di vacche magre, venerano il centrone congolese e il recentissimo ritiro della canotta 55 di Mutombo è figlio dell’amore viscerale dei fan e dell’intera città per l’uomo e per il giocatore.

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Il processo di ricostruzione portato avanti dalla dirigenza degli Hawks prevede il sacrificio di Mutombo: ad approfittarne sono i 76ers, che lo portano con soddisfazione a Philadelphia. Nella città dell’amore fraterno trova uno sparring partner d’eccezione, un Allen Iverson in formato MVP con tanto cuore e poca etica del lavoro (“We talking ‘bout practice?”) che con le sue straordinarie prestazioni trascina la squadra alle Finali NBA: gli avversari non sono certo dei parvenu e rispondono al nome di Los Angeles Lakers. Anche questa volta la squadra di Mutombo non ha i favori del pronostico, tutti credono in un roboante 4-0 firmato Shaq&Kobe. In un finale epico condito anche dal celebre step over di Iverson ai danni di Lue, i 76ers portano a casa la prima partita della serie. Il trionfo sembra adesso possibile, tutta la città crede nell’impresa: in realtà la prima vittoria si rivela un fuoco di paglia e la battaglia sotto le plance viene stravinta da un inarrestabile O’Neal. Firmato un nuovo contratto con i 76ers, Mutombo si ripresenta ai blocchi di partenza più determinato che mai, ma l’avventura nella postseason stavolta si interrompe addirittura al Primo Turno.

Dikembe Mutombo

Dopo la finale persa contro i Lakers, i New Jersey Nets cercano un difensore di primo piano per puntellare il pacchetto lunghi ed individuano in Mutombo il giocatore ideale. Purtroppo per loro, il centro africano gioca soltanto 24 partite per colpa degli infortuni e le medie calano drasticamente; al suo ritorno in Finale NBA viene relegato al ruolo di sesto uomo con il compito di tenere a bada lunghi del calibro di Robinson e Duncan. I Nets, delusi dal basso rendimento di Mutombo, decidono di tagliarlo nell’ottobre 2003; sono i New York Knicks ad offrirgli un’altra opportunità facendogli firmare un biennale. La stagione nella Grande Mela non è certo memorabile e si conclude con un’eliminazione al Primo Turno, proprio per mano dei Nets. Durante l’estate viene spedito a Chicago, dove per sua volontà non rimarrà a lungo: viene nuovamente scambiato, stavolta a Houston, con il compito di “svezzare” il promettente Yao Ming. Le stoppate, suo marchio di fabbrica, non mancano mai, ma l’età e le numerose partite alle spalle iniziano a farsi sentire. Dopo un’eliminazione al Primo Turno e un mancato accesso ai playoff, Yao dà inizio al suo personale calvario di infortuni e i Rockets nella stagione 2006-2007 sono costretti ad affidarsi al vecchio Dikembe, che a dispetto dell’età riesce a farsi valere. L’ennesima breve postseason sancisce la fine della stagione e l’idea di farsi da parte inizia a balenare nella mente di Mutombo; 41 primavere non sono certo poche e non è semplice come un tempo muovere quei 218 centimetri in mezzo al campo, ma i Rockets decidono di puntare ancora su di lui offrendogli il rinnovo al minimo salariale. La mossa si rivela vincente perchè con Ming fermo ai box è Mutombo a lottare sotto le plance come un tempo, dimostrando una tenacia senza eguali. Ancora una volta gli Utah Jazz interrompono il cammino di Dikembe verso il tanto agognato anello, ma il centro africano non si lascia scoraggiare e decide di restare nella Lega per la stagione 2008-2009. Il 21 aprile 2009 va in scena l’ultimo atto di una scintillante carriera: uno scontro di gioco con Greg Oden sancisce la fine della sua attività agonistica, come Dikembe stesso dichiara malinconicamente a fine gara.

Dikembe Mutombo

“It’s over for my career”.

Ti sbagli Dikembe, hai ancora molto da dare al basket. La sua lunga militanza sui parquet americani l’ha eletto simbolo della pallacanestro a stelle e strisce, come dimostrato anche dai numerosi spot pubblicitari che lo vedono protagonista. Le sue stoppate (secondo di ogni epoca dietro all’idolo Olajuwon), sempre con il sorriso stampato sulle labbra e con il suo inconfondibile vocione, l’hanno reso uno dei modelli per i giovani africani e non, alle prese con un presente difficile ed un futuro incerto; per questi motivi dal 2007 è cittadino americano e dal 2009 riveste il ruolo di NBA Global Ambassador. Il suo contributo più grande però non è riportato sui tabellini: da anni ormai sostiene progetti umanitari grazie alla “Dikembe Mutombo Foundation” nella sua terra d’origine, cercando di “far tornare giù l’ascensore che mi ha portato al successo“, come recita uno dei suoi proverbi preferiti. L’anello inseguito per 18 stagioni non è mai arrivato, ma come ama ripetere lo stesso Dikembe, non è importante essere campioni NBA, ma esserlo nel cuore della gente. Ben fatto, Guerriero.

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