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playoffs 2014

Top & Flop, le pagelle finali di Miami Heat – San Antonio Spurs

Alla fine, i San Antonio Spurs e il loro sistema corale si sono presi la loro rivincita sui Miami Heat dell’alieno Lebron James, vincendo le Finals 2014 con un gioco che a tratti ha rasentato la perfezione. Vediamo dunque le valutazioni degli interpreti di quello che rimarrà un capolavoro cestistico e di coloro che invece escono sconfitti, quasi schiantati, dal confronto, molto spesso con responsabilità non indifferenti sulla debacle.

SAN ANTONIO SPURS

KAWHI LEONARD: 9. Come non partire dall’MVP di queste stupende finali. Gli Spurs vincono questa serie grazie alla solidità e al gioco del gruppo, ma lui francamente pennella una Gioconda cestistica per almeno 3 gare (le prime 2, molto più in ombra e non a caso le più complicate per i suoi, gli negano il 10 tondo), dominando su due lati del campo con tante e diverse soluzioni offensive e una difesa a tratti enciclopedica sull’uomo meno arginabile del pianeta: è chiaramente la chiave del meccanismo perfetto. Si laurea più giovane giocatore a ricevere il premio omonimo dalle sacre mani di Bill Russell dopo tale Magic Johnson, e rimane il presente e soprattutto il futuro di questi Spurs che sembrano giunti alla fine del loro meraviglioso ciclo. SUPERSTAR

TIM DUNCAN: 8.5. Quello che, con ogni probabilità, è stato il canto del cigno di colui che potrebbe benissimo essere ricordato come il miglior “4” di ogni epoca (opinione ovviamente suscettibile di discussione, ma non certo campata in aria) diventa l’ennesima sinfonia della sua carriera straordinaria: punti dal post, rimbalzi, presenza in area, mai un calo nonostante l’anagrafe che in teoria dovrebbe chiedere il conto. Scrive l’ennesimo record superando Magic in doppie doppie ai playoff (tassametro ora a 159), diventa campione NBA nella terza decade diversa e potrebbe pure ottenere un altro MVP delle Finals “alla carriera” ma gli viene preferito, ad avviso di chi scrive giustamente, il giovane compagno in rampa di lancio, che sarà il suo erede anche alla guida di questa squadra. IMMORTALE

BORIS DIAW: 8. Se Leonard è l’indubbio MVP di questi Spurs nella serie, è il francese dal fisico non esattamente da atleta a risultare la chiave tattica determinante. Non è un caso che da quando viene promosso in quintetto in gara 3 e gli Spurs cominciano a cambiare sistematicamente su qualsiasi blocco la serie si giri nettamente a loro favore. Il citato fisico non dovrebbe consentirgli questo palcoscenico, ma il talento ancora più abbondante e l’intelligenza cestistica rara anche a questi livelli sopperiscono perfettamente, rendendolo un eroe degno dei Big 3 o Big 4 che dir si voglia. TATTICO

PATTY MILLS: 7.5. Una delle chiavi a favore degli Heat nelle ultime Finals fu sicuramente l’assenza di un cambio adeguato per Tony Parker: il pur volenteroso Corey Joseph faticò non poco a dare un contributo a un livello tanto alto. Lui c’era già, ma veniva da una stagione in Cina e sedeva comodamente in fondo alla panchina; quest’anno quel genio che quella panchina la dirige ha iniziato a dargli spazio, trovando ottime risposte. E la scommessa è stata stravinta proprio in Finale, dove con la sua energia infinita è risultato non solo il valido cambio di Parker, ma addirittura elemento fondamentale per non spremere l’acciaccato titolare senza perdere in pericolosità offensiva. Il capolavoro poi lo scrive nella decisiva gara 5, firmando l’allungo decisivo con triple pesantissime (5-8 per 17 punti alla sirena). Ennesimo colpo Spurs dai bassifondi del Draft (numero 55 nel 2009), ignorato da tutti e ora semi-eroe. PROVVIDENZIALE

MANU GINOBILI: 7.5. Era forse quello che aspettava di più questa rivincita, dopo una Finale 2013 ampiamente deludente e probabilmente decisiva in negativo per i suoi. Per lunghi tratti della serie gli Spurs girano che è una meraviglia e il suo genio non è fondamentale, ma dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, tutto il suo carattere e il suo talento quando la squadra ha più bisogno di lui, limitando la furiosa reazione degli Heat alle due sconfitte casalinghe del primo tempo di gara 5 con alcuni minuti di classe accecante.Il poster che regala a Chris Bosh, a quasi 37 anni, è forse l’immagine di partita e serie. MR. WOLF

TONY PARKER: 7. Serie a tratti difficile per il franco-belga, alle prese con acciacchi fisici che lo limitano considerevolmente. Ma quello che è probabilmente uno dei giocatori più sottovalutati del panorama NBA supera l’ostacolo con il carattere che non gli è mai mancato, portando un mattoncino magari non all’altezza del vero Parker ma comunque pesantissimo: emblematica l’ultima gara, in cui inizia sparacchiando ma conclude chiudendo nel secondo tempo ogni velleità di Miami di restare attaccata a partita a serie. EROE FERITO

TIAGO SPLITTER: 6.5. Sembrava poter essere una chiave offensiva fondamentale in questa serie con i suoi tagli e la presenza fisica nell’area avversaria, cronicamente priva di corpaccioni da opporre. Ottima gara 1, già meno la seconda, dalla terza gli viene preferita la versatilità di Diaw e visto come gira la squadra quasi scompare dalla rotazione; ma in quei pochi minuti sul parquet porta sempre voglia, energia e anche un più che discreto contributo. PRESENZA

MARCO BELINELLI: 6.5. Utilizzato con il contagocce da Popovich, siamo comunque pronti a scommettere che l’ex agente della CIA non si sia mai pentito quando l’ha gettato nella mischia: rendimento a dir poco eccellente in relazione al minutaggio, bravissimo a farsi trovare sempre pronto e a dare comunque qualcosa anche in un tempo tanto limitato. Forse è stata anche la sua fortuna, perché con più minuti probabilmente alla lunga avrebbe faticato di più a questo livello, ma comunque sia scrive la storia del basket italiano con un contributo piccolo ma sicuramente tangibile. BORN READY

MATT BONNER: 6. Altro elemento poco utilizzato, con evidenti limiti su entrambe le metà campo eppure sempre con buon atteggiamento in campo, positivo e con voglia di fare anche quando l’attacco Heat, visti i cambi difensivi, cerca di attaccarlo con Lebron: non può tenerlo neanche nei suoi sogni più bagnati, ma si danna l’anima quanto meno per provarci e Pop sicuramente apprezza. VOLENTEROSO

GREGG POPOVICH: 9. Menzione d’onore per quello che ormai è, senza ombra di dubbio, il miglior allenatore al mondo. In 18 anni sulla panchina texana costruisce una squadra che non ha sostanzialmente mai cali, cambiando molti interpreti, adattandosi perfettamente ai tempi che cambiano ma rimanendo sempre ai vertici e portando a casa 5 titoli. Anche in questa serie fa quei 2-3 accorgimenti tattici che rendono la già ottima macchina Spurs ai limiti della perfezione, ai quali gli Heat, che pure gli avevano regalato la prima sconfitta in Finale della carriera, non trovano risposte. Ha 65 anni, se Duncan dovesse lasciare probabilmente lo farà anche lui: chiuderebbe da vincente, ma l’NBA e il basket mondiale in generale perderebbe tanto, tantissimo. DEMIURGO

MIAMI HEAT

LEBRON JAMES: 8. Un uomo solo al comando, citazione obiettivamente troppo facile. Che gli Heat vadano dove li porta Lebron non è un segreto, ma che il Prescelto non trovi quasi nulla da tutti gli altri è un problema, e pure grande, tanto da rischiare di alzare il già torrido termometro dell’estate di South Beach. A tratti fa letteralmente tutto lui, segna alcuni canestri francamente inspiegabili a chi crede nelle leggi della fisica, ma non trova nessun valido scudiero e alla lunga scompare, a causa della fatica anche mentale del reggere un simile peso e l’attenzione difensiva che ne consegue. Paradossalmente dimostra una volta di più di essere con distacco il giocatore individualmente meno marcabile del mondo, ma una grande squadra batte sempre il singolo fenomenale, per quanto forte egli possa essere. PREDICATORE NEL DESERTO

RASHARD LEWIS: 6.5. Strappa la sufficienza grazie a quattro gare in cui quantomeno punisce i raddoppi su Lebron, sostanzialmente unico a farlo con continuità. Ma stecca anche lui gara 5 e in generale ormai ha troppi limiti per giocare 30 e rotti minuti in una serie finale: fa quello che può, lo fa anche sorprendentemente bene, ma non si può pretendere di più. SOVRACCARICATO

RAY ALLEN: 5.5. Non riesce a bissare la prova grandiosa dell’episodio precedente di questa sfida Finale a San Antonio  in cui era stato protagonista di una giocata da annali del basket. Un anno dopo invece gli Spurs non lo fanno sostanzialmente mai entrare in ritmo chiudendo forte sulle sue uscite dai blocchi: lui legge sempre bene scaricando spesso e volentieri sul bloccante, infila anche qualche bomba delle sue ma in generale litiga abbastanza col ferro, in particolare in questa gara 5, e se è vero che finisce per risultare il migliore della panchina, lo fa più per demeriti della stessa che per meriti propri. Tutto ciò comunque non scalfisce una carriera straordinaria, che potrebbe esser giunta al capolinea: avrebbe meritato un epilogo più glorioso, ma solo una è la vincente. FUORI RITMO

CHRIS ANDERSEN: 5.5. Lui per la verità la sua parte, composta di rimbalzi, difesa, intimidazione e in generale energia dalla panchina, la porta anche; ma è un onesto mestierante che va dove lo porta la squadra, e non si può pretendere faccia di più. Non ha neanche lontanamente i mezzi per invertire la tendenza negativa e finisce per essere inglobato nella mediocrità generale. OPERAIO

CHRIS BOSH: 5. Gioca bene sostanzialmente una sola partita, la seconda che non casualmente risulta l’unica vincente dei suoi, e viene giustamente insignito dal suo allenatore del ruolo di metronomo degli andamenti del team; peccato che subito dopo scompaia dai radar, lanciando segnali di vita che si contano sulle dita di una mano. E’ un po’ il suo ruolo in questi Heat che non lo pone al centro del gioco, ovviamente gestito da Lebron, ma sarebbe uno dei Big Three e rimane uno dei principali assenti ingiustificati nell’assistenza al leader della squadra. DISPERSO

SHANE BATTIER: 5. Preziosissimo l’anno scorso con la sua difesa e il tiro pesante, quasi totalmente fuori dalle rotazioni solo dodici mesi dopo. Come dimostrano i vari Belinelli, Splitter e Bonner, si può essere utili anche con un minutaggio ridotto, ma lui non lascia mai nessun segno della sua presenza, in entrambe le metà campo. Chiude quindi la carriera, comunque ammirevole, in modo un po’ mesto. IMPALPABILE

DWYANE WADE: 4.5. Arriviamo al grande accusato sul banco degli imputati, colui che doveva essere anche stavolta la spalla perfetta per James ed è finito per risultare talvolta addirittura deleterio. Fa male vedere un campione vero, com’è stato, in queste condizioni e con questo rendimento, ma nella serie finale ne ha azzeccate pochissime: un lampo nel secondo tempo di gara 1 che poteva regalare una vittoria pesantissima ai suoi e poi quasi più nulla. Anzi, molte cose, mai lusinghiere: tiri sbagliati, palle perse, difficoltà difensive nel correre dietro a un attacco sempre in movimento, in generale l’impressione forte che non possa più essere un go to guy di una squadra da titolo. Il gioco e la difesa Spurs ci han messo sicuramente del loro, il fisico cronicamente acciaccato ancor di più, ma è a un punto di svolta della sua carriera, probabilmente, purtroppo, in negativo. PROBLEMA

NORRIS COLE: 4.5. Il giovane play tirato fuori dal cilindro a fine primo giro dalla dirigenza di Miami stava crescendo con calma ma costantemente; ma appena avrebbe potuto essere responsabilizzato per le grosse difficoltà di Chalmers si è defilato, giocando una serie anonima. Nessuno gli chiedeva il mondo, solo difesa, voglia ed energia, qualche tiro sugli scarichi di Lebron: la risposta è stata brutte percentuali, poca leadership in regia, difficoltà sui due lati del campo e tanti, tanti punti interrogativi per la dirigenza che lo scelse. MR. HYDE

MARIO CHALMERS: 3. Elemento importante in entrambi i titoli precedenti, totalmente fuori serie in queste Finals, in cui ha il poco edificante merito di risultare di gran lunga il peggiore di un’intera squadra a lungo in balia degli avversari. Inizia con una gara 1 in cui non riesce a stare in campo più di due minuti consecutivi per i continui falli, e non si riprende più: sbaglia tutto quello che può sbagliare e viene ridicolizzato da Parker (ci può stare) ma anche dalla scelta numero 55 Patty Mills (già meno). In gara 5 Spoelstra, ormai disperato, lo relega in fondo alla panchina e prova a scuoterlo tra terzo e ultimo quarto, quando servirebbero punti veloci (riesuma addirittura Michael Beasley nell’intento, figuriamoci): ne mette un po’ solo dopo che i buoi sono ampiamente scappati dalla stalla. Prima dei playoff il suo contratto in scadenza era motivo di discussione, vista la situazione salariale degli Heat e gli importanti rinnovi già in vista: ora pare complicato anche solo rivederlo a South Beach. DISASTRO TOTALE

ERIK SPOESLTRA: 4.5. L’anno scorso si era consacrato come coach capace a fronte delle critiche, tenendo tatticamente testa a un colosso come Popovich e finendo per spuntarla. Stavolta invece al vecchio Gregg bastano un paio di accorgimenti per mandarlo nel pallone, e non riesce più a trovare alcuna contromossa efficace, annegando passivamente nella mareggiata Spurs. In campo comunque ci vanno altri, e le sue colpe quindi possono essere relative; ciò nonostante sarebbe suo compito farli rendere al meglio sul parquet, invece di andare da Lebron sperando semplicemente che ci pensi lui. PASSIVO

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