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Emerald City Stories: SuperSonics Chronicles

Seattle Supersonics: la storia della franchigia che manca ai tanti tifosi NBA.

PRIMA PARTE: Emerald City Stories “Due titoli per i New Kids at School”

La febbre del sabato sera si è ormai spenta e negli Stati Uniti, come nel resto del mondo, sta per arrivare il cubo di Rubik: gli anni Settanta lasciano il posto al decennio successivo, i mitici 80es dello yuppismo, del Commodore 64, di Reagan e del disgelo, culminato con la vittoria del modello capitalista. Anche la NBA si avvia a vincere la propria battaglia e a imporsi sempre più come Lega di pallacanestro di risonanza mondiale: già nel 1976 ha assorbito l’ABA divenendo il campionato major egemone negli States, e dal 1984 il nuovo commissioner David Stern la farà uscire dal guscio trasformandola in una vera e propria potenza commerciale e mediatica, certo agevolato da un livello tecnico eccezionale, per di più localizzato in piazze cruciali. Proprio all’indomani dello storico titolo dei Sonics infatti si accingono ad iniziare la loro stagione da rookie Larry Bird e Earvin “Magic” Johnson, due che in linea di massima qualche equilibrio lo sposteranno. Anche i Sonics campioni uscenti ne hanno subito un assaggio, quando nella stagione del possibile repeat eliminano i più quotati Bucks prima di essere spazzati via in finale di conference dai nuovi dominatori della Western.

E’ il lento inizio della fine della squadra che ha riportato Seattle sulla cartina sportiva nazionale a oltre sessant’anni dai Metropolitans, di una squadra di grandissimo talento generale ma senza individualità predominanti su cui ricostruire nel breve periodo (gente “da Monte Rushmore”, che tanto va di moda). Nonostante qualche altra buona stagione infatti, la progressiva dipartita dei vari pezzi pregiati tra trades e ritiri farà perdere a sua volta l’egemonia raggiunta a fine anni ’70 a favore delle nuove e talentuosissime leve; quando nel 1985 lascia anche coach Lenny Wilkens pare evidente che è arrivato il capolinea, notificato una stagione più tardi dalla cessione del vecchio Jack Sikma.

 Si chiude così una delle più belle epopee sportive occorse alla Emeral City, la quale ritorna ai margini, non solo geografici, della Lega. Qualche buona stagione, in realtà, i Sonics la fanno anche, guidati dal nuovo trio delle meraviglie (si fa per dire, nonostante chiusero anche a più di 20 di media a cranio, mica esattamente pizza e fichi) Dale Ellis – Thomas Chambers – Xavier McDaniel, arrivati nel corso della disgregazione del team dell’anello. Questi Big Three ante litteram raggiungeranno anche una finale di conference (1987, poi eliminati, indovinate un po’ per mano di chi), partendo peraltro dalla settima piazza, e faranno in modo che anche durante anni non certo da contender la franchigia passata nel frattempo al magnate dei media Barry Arkeley (acquisizione dal proprietario originale Sam Schulman nell’anno domini 1983) non conosca quasi mai i bassifondi della Lega. Dirigenza quindi tutto sommato accorta, che non “regala” ai propri sempre calorosi tifosi anni di sacrifici e vacche magre ma mantiene un certo livello qualitativo anche in una squadra che si può considerare in ricostruzione. E la mano di una dirigenza capace si fa sentire proprio nel decennale del titolo, nel campo che da sempre fa da discrimine tra bravi e meno bravi manager: ovviamente il Draft.

Nel 1989 i Sonics hanno fatto i playoff, scelgono quindi con la 17 e hanno bisogno di un lungo. Il sogno bagnato sarebbe Pervis Ellison, il centrone di Lousville, che ovviamente va alla uno a Sacramento; il GM Bob Whitsitt chiama quindi un ragazzino di neanche 20 anni dell’Indiana, tale Shawn Kemp, uscito da un piccolo Community College texano (ma doveva andare a Kentucky prima di non raggiungere il voto minimo al test scolastico) e scivolato indietro per la giovanissima età e per qualche dubbio di stampo caratteriale, ma destinato a diventare il miglior lungo di quel Draft, con buona pace dei Kings e di Ellison, destinato invece all’etichetta di flop.

Il futuro Reign Man però è ancora troppo acerbo per aspirare al trono e il suo impatto non è determinante. Nonostante l’ottima pescata al Draft dunque la squadra finisce per peggiorare il risultato della stagione precedente, chiudendo con un 41-41 che vale l’ottavo record a Ovest, ma a pari merito con Houston; gli scontri a sfavore costringono i Sonics alla Lottery e coach Bernie Bickerstaff al licenziamento dopo 5 stagioni. Raramente comunque il mancato accesso alla post season fu tanto provvidenziale: forse solo i Magic nel ’93, quando vinsero letteralmente la lotteria con una pallina su mille, ebbero più fortuna sfacciata della città dello Space Needle, che nel 1990 ottiene la seconda moneta dopo aver sfiorato i playoff. Anche stavolta, con un bersaglio ben più ampio, Whitsitt non può sbagliare: dentro Gary Payton, play californiano da Oregon State, di un anno più anziano di Kemp.

Bravo Ellis, bravo McDaniel (di nuovo oltre i 20), bravo Chambers quando c’era (scambiato già nel 1988), brava anche l’ala Derrick McKey che in quegli anni mette assieme buone cifre, ma qua siamo di fronte a un asse play-lungo che supera a malapena i quarant’anni complessivi e su cui si può realmente costruire qualcosa d’importante. Alla vecchia squadra che ha chiuso in maniera più che dignitosa gli anni ’80 viene dunque dato progressivamente il benservito (ad eccezione del fido esterno difensivo Nate McMillan) per crearne una più funzionale ai giovani talenti. I quali, aiutati dai nuovi arrivi dei veterani Ricky Pierce e Eddie Johnson (solo omonimo del cocainomane passato di qua nel 1987 prima di essere radiato), crescono senza fretta ma inesorabilmente: eliminazione dopo 5 gare al primo turno nel ‘91 coi Blazers di Drexler, record migliorato e secondo turno la stagione successiva, quando sono Stockton e Malone a eliminare i giovani pariruolo. La strada è tracciata, ma è ancora una volta la mano della dirigenza a dare la spinta decisiva: Whitsitt, che nella vita avrà anche qualche fobia ma di sicuro non quella delle decisioni azzardate, silura un coach non certo perdente come KC Jones per portare in Washington un allenatore 41enne che, dopo qualche buona stagione a Cleveland e Golden State, è uscito dai radar NBA ormai da 4 anni e allena in Europa, al Real Madrid (sacrilegio, ma non per la lungimirante organizzazione dei Sonics), quel George Karl con cui la squadra farà il definitivo salto di qualità.

Azzardo che paga fin da subito dividendi, complice una filosofia di gioco del futuro coach di Danilo Gallinari che pare pensata apposta per questa squadra: 55-27 e fuori solo grazie ai 44 di Sir Charles Barkley in gara 7 della finale di conference, dopo aver eliminato Jazz e Rockets vincendo per due volte la gara decisiva. Giunta a tanto così dalla Finale NBA, l’Emerald City è ormai tornata di diritto nel novero delle contender dopo gli anni gloriosi di Sikma e compagnia. Nell’estate 1993 Whitsitt prova a completare il mosaico con l’acquisto dell’ala tedesca Detlef Schrempf, che segue di pochi mesi quello del centro “Big Smooth” Sam Perkins, destinato a diventare un idolo cittadino; entrambi buoni tiratori dalla lunga, permettono di aprire il campo e lasciare l’area libera per le incursioni del Reing Man. Ma il segno premonitore arriva in ottobre: Michael Jordan, sconvolto dall’improvvisa morte del padre durante un tentativo di rapina, annuncia il prematuro ritiro per approdare al Diamante del baseball. La NBA è sotto shock, i Sonics probabilmente un po’ meno, visto il posto ora vacante di squadra dominatrice della Lega; non si fanno certo pregare, stagione pazzesca da 63 vittorie, miglior record assoluto e tutti i favori del pronostico. Ma la maledizione sportiva di Seattle è sempre in agguato, pronta a ripresentarsi proprio quando tutto sembra andare per il meglio: i Sonics si portano agevolmente sul 2-0 nel primo turno coi giovani Denver Nuggets, che hanno in saccoccia oltre venti vittorie stagionali in meno, palesando una superiorità a tratti imbarazzante. Poi accade l’impensabile: forse già certi di un tranquillo passaggio del turno, Seattle perde due volte a Denver (va bè, son sempre 2000 d’altitudine in fondo), ma soprattutto viene incredibilmente sconfitta in gara 5 all’overtime in casa e subisce il primo upset dell’ottava sulla prima che la NBA ricordi. Il genuino “I can’t believe it!” di Dikembe Mutombo, leader difensivo di quei Nuggets, sarà l’emblema di un’impresa assolutamente sorprendente per i suoi stessi artefici.

In Finale ci vanno allora i secondi, gli Houston Rockets che quel titolo tanto agognato e sempre negato dalla supremazia dell’Airness stavolta, in sua regale assenza, lo portano a casa. Con gli anni quella storica eliminazione assumerà sempre più i connotati di enorme occasione persa, di attimo fuggente che i Sonics non sono riusciti a vivere, di treno che passa e non torna, di…fate voi, il senso è evidente. Tanto più che, dopo un’altra eliminazione al primo turno, Seattle in Finale finalmente ci torna dopo quasi 20 anni, ma stavolta dall’altra parte c’è quella che è forse la squadra più forte di sempre: riescono anche a infliggere due sconfitte ai Bulls che fino a quel momento ne contavano 11 in totale tra regular season e playoff (su 95 gare disputate…) grazie a un Kemp a tratti commovente, ma di più è obiettivamente impossibile: Jordan è tornato più motivato che mai, per gli altri restano solo le briciole.

Rimangono altre due stagioni ai vertici della Lega, ma qualcosa si è rotto e bissare il 1979 sembra ormai un miraggio. L’indomani di quella Finale segna l’inizio di una nuova fine: Kemp passa l’annata a lamentarsi e a giocare in pantofole fino a forzare la cessione nel 1997: il suo sostituto, Vin Baker, ci metterà una stagione prima di sprecare le sue più che buone doti nel fondo di una bottiglia. Anche George Karl, entrato in rotta di collisione col nuovo GM Wally Walker, lascia la barca in avaria. Gary Payton resta solo al timone di un team ormai senza ambizioni di vittoria, che nel ‘99 fallisce anche l’aggancio ai playoff dopo 9 anni e che nel 2003 chiude definitivamente questa pagina con la cessione del suo leader ai Bucks dopo oltre 12 stagioni.

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In città approda “He Got Game” Ray Allen, che forma con Rashard Lewis un’interessante coppia di esterni, ma l’obiettivo stagionale ormai sono i playoff, altro che anello. Nel 2005 comunque, guidati da Nate McMillan passato nel frattempo al ruolo di coach, riescono a vincere l’ultimo titolo della Northwest Division con un sorprendente 52-30 e, complice la sospetta esplosione di un Jerome “Sexy” James in scadenza (e puntualmente riempito di soldi dai Knicks di Isiah Thomas, per la rabbia dei tifosi ma la gioia delle ragazze newyorkesi), arrivano anche al secondo turno con gli Spurs negli ultimi playoff a cui l’Emerald City avrà modo di assistere. Poi, con l’addio dell’ambito McMillan, solo cambi di coach, poche vittorie e mesi di aprile regolarmente liberi mentre gli altri giocano sul serio, il tutto condito da Drafts che hanno del tragicomico (Nick Collison e Luke Ridnour nel 2003 dei fenomeni, poi Robert Swift nel 2004 per toccare l’apice con MOUHAMED SENE’ nel 2006, tutte lottery pick, ci mancherebbe). Questo finché la Fortuna non si ricorda di essere in debito coi SuperSonics, e regala la seconda scelta assoluta al Draft 2007, che dopo il precedente del Guanto sembra pure portare bene. Alla prima Portland sceglie lo sfortunato Greg Oden, e così i Sonics devono consolarsi con un ragazzino di Washington (la città, non lo stato) cui sono affidate le speranze sportive del Washington (lo stato, non la città). E in effetti Kevin Durant appare quasi subito un predestinato di questa Lega, ma i frutti veri del suo illimitato talento li raccoglierà qualcun altro. E non necessariamente per scelta volontaria.

Già l’anno prima infatti il proprietario di maggioranza Howard Schultz, numero 1 di Starbucks e dal 2001 anche dei Sonics, impossibilitato ad ampliare la vecchia Key Arena, aveva ceduto la franchigia a un gruppo di investitori dell’Oklahoma guidati da Clayton Bennett. Rassicurazioni generalizzate, “qualche scoglio da superare ma i Sonics non si muovono”; ipse dixit, un anno dopo Bennett richiede alla NBA il trasferimento della franchigia a Oklahoma City, adducendo alle persistenti difficoltà nel finanziare il nuovo progetto per l’arena. Un’intera città si ribella, portando il proprietario in tribunale, vincendo la causa e costringendolo a pagare qualcosa come 75 milioni complessivi di multa; ma non c’è niente da fare, la squadra si trasferisce ad OKC già nel 2008, a tempo di record, cambiando nome in Thunder. I Seattle SuperSonics, una squadra di grandissima tradizione, la prima franchigia professionistica a tornare nella Rain City nel 1967 e soprattutto l’unica ancora esistente a poter vantare un campionato vinto, scompaiono così, quasi da un giorno all’altro.

Nel febbraio 2014, all’indomani della vittoria del XLVIII Superbowl da parte dei Seahawks, la parata celebrativa stimava circa 700.000 persone presenti. Tante, tantissime, addirittura fuori da ogni logica se si pensa che la sola Seattle conta poco più di 600.000 abitanti. Una presenza tanto massiccia dimostra meglio di qualsiasi retorica l’attaccamento non solo della città, ma di un’intera regione a una delle poche rappresentanti sportive rimaste. Una regione che trasuda passione sportiva, troppo spesso ignorata o dimenticata dai centri nevralgici degli States, anche per la sua peculiarità: Seattle è forse la metropoli più culturalmente vivace d’America, con buona pace delle varie Mele, e subisce chiaramente una certa influenza culturale canadese e, di rimando, europea, con una tradizione musicale con pochi eguali anche a livello mondiale. Un mondo diverso dal resto degli Stati Uniti più canonici, “una cultura autoctona. E come tutte le culture autoctone superiori, ama il basket”. Ha ragione Federico Buffa, questa regione ama il basket, come tutte le culture superiori. E come loro, merita il suo ritorno, anche ai massimi livelli, anche se si dovrà ripartire, per forza di cose, da ultimi arrivati. Nessun problema: da queste parti essere considerati i New Kids at School è la norma. E lo è pure prendersi la meritata rivalsa.

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