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Rob Pelinka, l’avvocato del diavolo

Dopo il conclamato quanto sfortunato comeback di Derrick Rose, in questi giorni si è registrato un altro ritorno in campo illustre e attesissimo, che si spera possa essere più duraturo di quello del play di Chicago: ovviamente quello di Kobe Bryant, che comunque anche durante la convalescenza non ha mancato di far parlare di sé, in particolare per il suo rinnovo coi Lakers siglato proprio il mese scorso, che lo farà sì diventare gialloviola sostanzialmente a vita, ma alla modica cifra di oltre 48 milioni di presidenti spirati nei prossimi due anni. Ovviamente nessuno si sogna di mettere in discussione il giocatore; ma 24 milioni annuali a un 35enne, per di più da tempo fuori causa per un infortunio non certo da poco, ha fatto storcere più di qualche naso, soprattutto per il peso che questi soldi avranno sul cap e sulle strategie di mercato dei losangelini .

“Kobe è un tirchione, poteva rinunciare a un po’ di soldi!”, “Stupidi i Lakers a darglieli!”, queste, in soldoni, le reazioni tipiche dei detrattori dell’accordo. La verità, come sempre, sta nel mezzo; e a metà tra il 24 e la franchigia sta per l’appunto il mediatore, cioè l’agente, il vero artefice del controverso contratto. E per quest’agente in particolare non è certo il primo accordo discusso, non solo a favore di Kobe: Rob Pelinka infatti è forse il più potente rappresentante di giocatori NBA attualmente sulla piazza, in grado di strappare sempre accordi molto sostanziosi per i propri clienti (e per sé stesso, essendo peraltro il più pagato per le proprie prestazioni) e tirando talvolta veri e propri bidoni alle franchigie.

 

Strana categoria, quella degli agenti sportivi. Importanti, influenti, talvolta subdoli, in ogni sport. Se essendo italiani finiate per forza di cose per masticare un po’ di calcio, avrete sicuramente sentito il nome di Mino Raiola, forse il più importante procuratore calcistico, che cura gli interessi, tra gli altri, di gente del calibro di Zlatan Ibrahimovic, Mario Balotelli e l’astro nascente della Juventus Paul Pogba. Oppure avrete di certo in mente la figura di Don King, santone della boxe e forse il più famoso manager in assoluto, immancabile nell’immaginario collettivo per il suo look che definire eccentrico sarebbe eufemistico. Ecco, nulla di più lontano da Pelinka: nativo di Chicago, 44 anni, giovanile, curato e in forma, stile casual da bravo ragazzo nordamericano e pure una buona carriera giovanile sul parquet alle spalle (addirittura All American all’high school). Un’ambizione che sfocia nell’arrivismo e metodi talvolta discutibili lo accomunano però ai suoi illustri colleghi citati.

Buona carriera giovanile, si diceva: a Michigan, gioca in Division I e si laurea campione NCAA da freshman (1989), per poi vivere da vicino gli anni dei mitici Fab Five (pur non essendo uno dei cinque), giocando fianco a fianco con Juwan Howard, Jalen Rose e Chris Webber. E’ il sesto uomo di quella squadra, non un fenomeno ma un discreto giocatore, limitato però da frequenti infortuni che lo faranno desistere dalla carriera sportiva per dedicarsi alla rappresentanza di chi invece ce l’ha fatta, forte di una laurea in giurisprudenza e di non poche conoscenze maturate al college.

Ci vuole comunque qualche anno di gavetta prima di iniziare a imporsi come agente sempre più conosciuto e richiesto, e la sua carriera decolla nei primi anni Duemila. Oggi l’agenda di Rob conta 18 giocatori, molti meno della maggior parte degli altri maggiori procuratori (alcuni sfiorano i 50 clienti), ma tutti accuratamente selezionati tra le tante richieste che giungono fin dai giorni che ne precedono l’ingresso nella Lega.

Fiore all’occhiello della scuderia, manco a dirlo, è ovviamente Kobe Bryant, con cui Pelinka vanta ormai un sodalizio sostanzialmente indissolubile: quando infatti il Mamba fu accusato di stupro da una cameriera del Colorado, Rob fu uno dei pochi a non abbandonare la barca che sembrava poter affondare definitivamente, come fecero invece quasi tutti gli sponsor. Pelinka al contrario sostenne il 24, accompagnandolo anche alle udienze sulle Montagne Rocciose e guadagnandone la stima e il conseguente prestigio all’interno della Lega quando la storia fu archiviata. Se non fosse bastato, solo un anno dopo il fattaccio strappò ai Lakers un contratto faraonico da 136 milioni di dollari in sette anni, a cui seguirono un triennale da 83 milioni e il contratto appena siglato (con in mezzo una trattativa da oltre 3 milioni per sole 10 partite con la Virtus Bologna durante il lockout), che l’hanno reso e lo renderanno ancora il giocatore più pagato dall’intera NBA. Con un traguardo anche ideologicamente così importante, è chiaro come il Mamba non possa che essere soddisfatto dei servigi del laureato a Michigan.

 

Molto meno lo sono il più delle volte le franchigie che devono sedersi a un tavolo con lui: per informazioni chiedere ai Cleveland Cavaliers, protagonisti loro malgrado di un clamoroso voltafaccia da parte di Pelinka e di un suo assistito. Dopo due ottime stagioni d’esordio, Carlos Boozer sembrava poter diventare una pietra angolare di una squadra che, con l’ultima prima scelta assoluta Lebron James, aveva ormai grandi ambizioni per il futuro; unico intoppo, essendo Boozer una seconda scelta, era un contratto da cui poteva uscire diventando restricted free agent, o andare al terzo anno per poi essere del tutto svincolato. E così, nell’estate 2004 i Cavs si accordarono con Pelinka per un buon prolungamento (41 milioni in sei anni) e non esercitarono l’opzione per il terzo anno al minimo salariale. Ma una volta sul mercato Boozer ricevette la ben più succulenta offerta dei Jazz, che sfiorava i 70 milioni di dollari, e Pelinka non ci pensò due volte a rimangiarsi la parola data e ad accettare un accordo che, anche volendo, i Cavs non avrebbero potuto pareggiare. That’s business, chiaramente, ma il prodotto da Duke e il suo agente non uscirono benissimo da quella vicenda, che urtò non poco Cleveland e pure il Prescelto, che lo aveva già nominato “sua ala forte a vita”. Non contento, alla scadenza strapperà un accordo ancora migliore con i Bulls (75 in 5 anni), che è sembrato quasi subito esagerato rispetto all’attuale rendimento del giocatore.

 

Altri suoi clienti che hanno avuto vicende contrattuali piuttosto movimentate sono Andre Iguodala e James Harden. Il primo fu più volte protagonista di una strategia piuttosto tipica nello stile di negoziazione di Pelinka: rifiutare la prima, allettante offerta di rinnovo per concluderne successivamente una ancor più vantaggiosa, quando la squadra si trova alle strette e deve aprire i cordoni della borsa. Iggy infatti rifiutò nel 2007 un contratto da 57 milioni in 6 anni coi Sixers, per firmarne solo un anno dopo uno da 80 per lo stesso periodo; e si ripetè l’estate scorsa coi Nuggets, rinunciando a un prolungamento annuale da 16 milioni per ottenere un pluriennale coi Warriors a cifre di poco inferiori (48 in 4 anni). La vicenda Harden invece è ben nota: con una situazione salariale complicata (Durant, Westbrook e Ibaka già rinnovati con accordi onerosi), nel 2012 la dirigenza dei Thunder offrì al Barba un quadriennale da 55 milioni complessivi. Mica male, ma Pelinka rifiutò senza possibilità di appello, forzando la squadra dell’Oklahoma alla dolorosa cessione del Sesto uomo dell’anno ai Rockets, coi quali siglò immediatamente un accordo da 80 milioni in 5 anni. Col senno del poi, è evidente come portar via Harden a poco più di dieci l’anno sarebbe stato un furto per OKC, ma è chiaro anche come, di fronte ai soli interessi economici, una squadra a un passo dal titolo perse un elemento chiave del proprio roster.

Contratti finora importanti, volti a massimizzare i guadagni di giocatori comunque di livello piuttosto alto, che possono permettersi di chiedere (e ottenere) certe cifre senza che si gridi eccessivamente allo scandalo. Ma la brillante carriera di Pelinka è anche costellata di accordi meno equi, se non di veri e propri pacchi, che ne attestano il talento nel proprio mestiere ma anche la simpatia non sempre eccelsa da parte di chi quei soldi poi è costretto a sborsarli. Se infatti i contratti di Gerald Wallace e soprattutto Eric Gordon sono onerosi ma tutto sommato comprensibili (chiamano rispettivamente 40 e 58 milioni, entrambi in 4 anni), non si possono definire in altro modo quelli siglati da Chris Kaman nel 2006 coi Clippers (quinquennale da oltre 53 milioni di dollari), Channing Frye con Portland la passata stagione (sempre 5 anni, 30 milioni complessivi), e soprattutto Corey Maggette coi Warriors nel 2008 (50 milioni per i canonici 5 anni). Per non parlare poi delle varie Draft Class, nelle quali, negli ultimi anni, Pelinka ha spesso piazzato suoi clienti in posizioni molto alte e non sempre adeguate al reale valore del giocatore: oltre ai già citati Frye (scelta numero 8 dei Knicks nel 2005), e Kaman (sesta pick nel ricchissimo 2003), il club comprende anche Julian Wright (numero 13 nel 2007 finora ampiamente ingiustificato), e poi gli ancor più clamorosi Wesley Johnson e Ed Davis, rispettivamente numero 4 e 13 del Draft 2010, per concludere con la seconda scelta assoluta del 2011, quel Derrick Williams anch’egli ancora ben al di sotto delle aspettative. Insomma, anche coi giovani Pelinka ha tirato non pochi pacchi, nonostante questi fossero tutti giocatori di primissimo livello al college.

 

Il discusso rinnovo di Kobe è solo l’ultimo successo, che ha riportato le luci della ribalta su questo personaggio che generalmente lavora dietro le quinte. Ma il nostro avvocato è solo un esponente particolarmente emblematico di una categoria che si tende a sottovalutare ma che è molto potente all’interno della Lega, in grado di gestire le dinamiche e molto spesso i destini delle franchigie stesse mentre conseguono il proprio interesse e quello del cliente di turno. Se infatti a firmare sono in due e le franchigie molto spesso devono fare mea culpa per i propri errori, sono contratti con poco senso a bloccarne i movimenti, o tentativi di massimizzare i guadagni (contrattuali ma anche d’immagine), anche da parte di comprimari, a smantellare squadre competitive, e tutte queste dinamiche sono molto spesso orchestrate dagli agenti. I quali, giusto ricordarlo, fanno solo il proprio mestiere; ma che così facendo finiscono spesso per essere aghi della bilancia più importanti del miglior clutch player in circolazione, in un paradossale capovolgimento di ruoli, secondo cui Pelinka potrebbe finire per essere più decisivo dello stesso Kobe Bryant per i destini dei Lakers dei prossimi anni. Niente male per uno che ha smesso di giocare da oltre vent’anni…

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