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La (controversa) caduta dei giganti

Usa Urss 1972: la partita più controversa nella storia della pallacanestro

Provate a pensare a una singola partita che, per un motivo o per l’altro, possa aver cambiato per sempre la storia e la concezione stessa della pallacanestro. Wilt e la notte dei 100 punti. Willis Reed che entra in campo al Madison per gara 7 di Finale quando non avrebbe dovuto nemmeno camminare. Magic e i 42+15 giocando centro sempre in gara 7 delle Finals, il tutto da rookie, altrimenti è troppo facile. Havlicek stole the ball. Bird intercepted Isiah’s pass. Jordan che mette a sedere Bryon Russell ed entra nella leggenda.

Tutte grandi partite, momenti altissimi di un basket che, il giorno dopo, non sarà più lo stesso. La NBA è piena di partite di questo genere, e si potrebbe elencarne ancora molte; eppure, l’incontro che forse portò le maggiori conseguenze a livello globale, e non solo dal punto di vista cestistico, non si disputò nella Lega americana.

 Usa Urss 1972

Tutte le competizioni internazionali del Dopoguerra furono attraversate, per il clima di tensione mondiale, da significati politici più o meno manifesti. Ma la XX Olimpiade, andata in scena nell’estate del 1972, raggiunse picchi che forse non si ripeterono nemmeno nelle edizioni segnate dai boicottaggi. Infatti tra le tensioni latenti tra i due blocchi contrapposti si inserì, nel corso dei Giochi stessi, l’evento destinato a marchiare inderogabilmente quell’edizione: l’attentato portato da 8 terroristi palestinesi ai danni della delegazione israeliana, conclusosi nel sangue anche per una gestione della crisi quantomeno discutibile da parte di organizzatori e autorità. Gestione che si aggravò ulteriormente per le decisioni successive alla tragedia, con la scelta a sua volta molto controversa di non interrompere i Giochi nonostante la palese gravità del fatto.

Fu in questo clima piuttosto confuso e surreale che si giocò la fase finale del torneo di basket dal 6 al 9 settembre, iniziato proprio il giorno dopo di quello che è ricordato, appunto, come il Massacro di Monaco. Ovviamente non potevano mancare le due superpotenze, in campo politico ma anche cestistico, e infatti altrettanto ovviamente arrivavano alle fasi eliminatorie da imbattute nei rispettivi gironi. Nelle semifinali, gli USA si sbarazzarono della nostra Italia piuttosto agevolmente, con un +30 tondo che sembrava lanciarli verso l’ennesimo oro; dall’altra parte, in un derby tra Stati a orientamento socialista, i sovietici faticarono maggiormente ad aver ragione di Cuba. Ma comunque finalissima, probabilmente nemmeno quotata dai bookmakers, tra USA e URSS.

Gli Stati Uniti, guidati dall’esperto coach Henry “Hank” Iba, si presentavano alla sfida con gli storici rivali con la solita compagine di giovani talenti universitari, sui quali spiccavano Dwight Jones e Jim Brewer, visti successivamente anche in Italia (Brewer sarà anche ricordato per una storica stoppata su Vittorio Gallinari che sancì la vittoria della Coppa Campioni di Cantù nel 1983 contro Milano) e soprattutto quel Doug Collins diventato poi allenatore di un certo calibro, anche alla guida dei Bulls del giovane Jordan; pesante era però l’assenza di uno dei migliori collegiali come Bill Walton, che rendeva questa squadra meno forte di molte sue precedenti. La delegazione sovietica invece arrivava alla finale olimpica come regina incontrastata del Vecchio Continente (8 Europei consecutivi vinti), trascinata da giocatori che, in barba allo spirito e alle regole che in teoria non avrebbero permesso di presentare professionisti, di dilettantistico avevano in realtà forse solo il calcettino di squadra della domenica. Il centrone georgiano Kowalenko, il lituano Palauskas, ma soprattutto i due “gemelli” russi Belov, Sergej e il più giovane Aleksandr (che in realtà non avevano legami di parentela) erano tutti giocatori di grande esperienza internazionale, molti persino reduci dalla precedente Olimpiade in Messico.

Ciò nonostante, gli americani godevano del favore del pronostico, non foss’altro per il record di 63-0 e i 7 ori olimpici consecutivi. Ma fin dalle prime battute del match, andato in scena quasi a mezzanotte ora locale per le esigenze televisive americane, i sovietici dimostreranno di non voler arrendersi facilmente, mettendola subito sul gioco fisico per colmare il gap tecnico, motivati da un odio ideologico prima ancora che sportivo.

Usa URSS 1972

La partita è piuttosto brutta, tesa e senza esclusione di colpi come solo una Finale tra due Stati così contrapposti può essere, e canestri se ne vedono col contagocce. I ventenni americani vengono sorpresi dal gioco duro e intimidatorio degli avversari, i quali si portano subito in controllo, trascinati in attacco da Sergej Belov. Sovietici che ci mettono poco a capire che questo metodo può dare frutti, e provocano in continuazione i giovani statunitensi, fino ad ottenere la reazione di Jones con conseguente espulsione. Privi di uno dei loro riferimenti, e pure di un altro giocatore fondamentale come Brewer infortunatosi nel corso della partita, sembra potersi profilare la prima, storica sconfitta olimpica degli USA.

Ma nessuno vuole entrare nella storia dalla parte sbagliata, e i ragazzini reagiscono, eccome: rimontano lentamente, punto su punto, fino al jumper del -1 (48-49) di Jim Forbes a 40 secondi dal termine. I giocatori dell’URSS decidono allora di far scorrere più tempo possibile prima di tirare, ma un passaggio in uscita dal post basso di Aleksandr Belov viene intercettato da Doug Collins, che si invola in contropiede ma viene fermato senza tanti complimenti (per usare un eufemismo) dal fallo di Sakandelidze. Il futuro allenatore di Jordan si rialza e dalla lunetta è glaciale: 2/2 e clamoroso primo vantaggio americano a 3 secondi dal termine. Sembra profilarsi la beffa per i sovietici e l’imbattibilità olimpica statunitense sembra poter essere ancora, in extremis, preservata. Ma saranno proprio quei 3 secondi a cambiare la storia.

Dopo il secondo libero a bersaglio di Collins, i sovietici presi dal panico eseguono subito la rimessa per provare disperatamente a tornare in vantaggio. Ma l’arbitro brasiliano Renato Righetto li ferma, concedendo il time out che il coach russo Kondrashin stava energicamente richiedendo. Gli americani contestano la decisione, che in effetti esula dal regolamento (la palla era già in gioco), e Righetto va di male in peggio, facendo ripetere la rimessa dal fondo ma con un solo secondo sul cronometro, quello rimanente al momento della sua stessa interruzione. Appena la palla entra in campo, la sirena suona ed esplode la gioia della delegazione statunitense; ma ovviamente stavolta sono gli avversari a protestare vivamente, chiedendo il time out richiesto a parer loro durante i liberi di Collins e la successiva ripetizione della rimessa con 3 secondi sul cronometro. E’ a questo punto che entra in scena un altro dei protagonisti di questa storia, quel Renato William Jones che ricopriva l’incarico di segretario generale della FIBA (la federazione internazionale cestistica), organizzazione che lui stesso aveva contribuito a fondare 30 anni prima; britannico, santone della diffusione del basket a livello mondiale, da quel momento in poi ricordato per la sua decisione di far ripetere una terza volta quella rimessa, con i tre secondi sul cronometro e senza time out, come se Righetto non fosse intervenuto. Scelta per certi versi comprensibile per provare a riparare un finale ormai compromesso, ma del tutto priva di legittimità, perché per quanto l’arbitro possa sbagliare il segretario non sarebbe potuto intervenire in alcun modo. Ma così fu fatto, di nuovo tutti in campo e accade l’incredibile: lancio lunghissimo di Edesko in direzione di Aleksandr Belov, che riceve la palla alta nei pressi del canestro e segna l’appoggio. Suona la sirena, stavolta definitivamente, 51-50 per i sovietici, che ottengono un prestigioso e storico oro olimpico nel basket a danno degli eterni rivali, decretando anche la fine della loro imbattibilità.

Usa URSS 1972

Ancora oggi, a oltre 40 anni da quella notte di settembre del 1972, quei controversi 3 secondi finali generano polemiche e discussioni a non finire. Già allora, dopo il reclamo ufficiale statunitense respinto per 3 voti a 2 e la conseguente ufficializzazione della vittoria sovietica, gli USA si rifiutarono di presenziare alla premiazione, non ritirando le proprie medaglie d’argento. Il tempo non ha certo sanato una ferita che sa ancora di furto, visto che ad esempio Kenny Davis, uno dei giocatori, esplicitò nel suo testamento il divieto assoluto per i suoi eredi di ritirare quella medaglia. E tuttora non si sono del tutto placate le voci che vorrebbero la contestata vittoria come frutto di una cospirazione dettata da interessi politici, idea peraltro nemmeno così campata in aria in un’epoca colma di spionaggi, sotterfugi, sabotaggi reciproci, ulteriormente rafforzata dai dubbi sulla prematura morte dell’eroe Aleksandr Belov. Come accade molto spesso negli eventi relativi alla Guerra Fredda, queste voci restano supposizioni possibili ma non confermate, e non ha dunque senso addentrarvisi ulteriormente. Quel che è certo sembra essere un arbitraggio non all’altezza, il quale, fatto un errore, cercò di rimediare con scelte totalmente illogiche, magari dettate anche da buoni propositi (non scontentare nessuna delle due potenti contendenti), ma dal risultato disastroso.

Se non si potrà mai far piena luce sulla buona fede dell’operato di arbitro e tecnici in una partita che rimarrà uno dei grandi e controversi episodi della Guerra Fredda in ambito sportivo, si possono vedere chiaramente le conseguenze di quella storica sconfitta sulla pallacanestro stessa: da una parte, essa segnò la prima crepa che porterà alla disfatta di Seoul nel 1988 e alla successiva nascita del Dream Team non appena i regolamenti lo permisero, al fine di riaffermare l’egemonia americana; ma dall’altra, portò anche all’importante presa di coscienza, oggi del tutto evidente, che questi americani, per quanto fortissimi, non fossero invulnerabili. Al di la dello storico oro olimpico, era forse proprio questo il risultato più importante e gradito ai sovietici; e al di la delle opposizioni ideologiche e politiche, che oggi non trovano più ragion d’essere, fu proprio questa caduta dei giganti, per quanto rocambolesca e ai limiti della regolarità, a portare le maggiori conseguenze sulla pallacanestro, che all’indomani di quel semplice appoggio di Belov non potè più essere la stessa.

P.S.: proponiamo il video dello storico ultimo minuto della Finale olimpica di Monaco 1972, con il commento del grande giornalista Aldo Giordani.

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