Seguici su

Editoriali NBA

Klay Thompson, il miglior “attore non protagonista” dell’NBA!

Le storie che vengono fuori dai Playoffs NBA sono sempre impreviste ed inaspettate. Il canestro allo scadere del semi sconosciuto, finito in campo per non si sa quale misteriosa combinazione di eventi. Il playmaker alto poco più di 160 centimetri che trascina la sua squadra alla vittoria contro l’unica corazzata di questa equilibratissima post season, dopo averle fatto superare in maniera inimmaginabile il turno precedente. Squadre atletiche, giovani e fresche, forti del fattore campo, buttate fuori e ritrovatesi col canestro crivellato di colpi da ragazzini indemoniati che si divertono a buttarla dentro al cesto tirando da 9 metri (soprattutto uno per la verità ci riesce).

In particolar modo quella che mi incuriosisce più di tutte è proprio l’inaspettato (almeno per me) cammino dei Golden State Warriors e nello specifico non tanto e non solo le gesta del giocatore copertina della franchigia (difficile parlare della squadra di Oakland senza citare il figlio di Dell), quanto quelle di  Klay Thompson, soltanto alla sua seconda stagione NBA, ma già così determinante per le sorti della sua squadra.

Il destino beffardo ha voluto che il suo nome balzasse agli onori delle cronache (negli appunti degli scout NBA è presente da tempo) per merito di una eccezionale prestazione balistica messa in campo contro coloro che avevano cercato di prenderlo per primi, quegli Spurs ultime vittime del marchingegno perfetto sapientemente condotto da coach Jackson.

E si. In pochi lo sanno (o forse l’hanno dimenticato), ma nella primavera del 2011 gli Spurs si erano mossi per cercare di arrivare ad una scelta al Draft che gli permettesse di garantirsi le prestazioni del giocatore di Washington State. A 2 giorni dal Draft stesso Bob Myers, general manager dei Warriors, riceve una telefonata in cui viene informato dell’azione di disturbo messa in piedi dai texani. Difatti il 21enne Klay era stato contatto dagli Spurs ed era stato combinato anche un incontro con lo stesso Popovich.

Myers conosceva bene quale fosse l’espediente di mercato al quale i nero argento puntavano, cioè la quinta scelta assoluta posseduta da Toronto, che lo stesso GM aveva provato a carpire dai canadesi. Le sue paure, nonostante sapesse che i Raptors mettessero sul piatto una richiesta eccessiva, era quella di rischiare di venire scavalcati in quanto i Warriors erano in possesso dell’11esima chiamata. La squadra della baia voleva a tutti i costi il giocatore, sapendo sia che gli Spurs sarebbero rimasti in agguato e preoccupandosi inoltre del fatto che anche i Bucks, che disponevano della decima scelta assoluta, avessero dimostrato interesse per lui.

Come ricordato 2 giorni fa dopo la fantastica prestazione del giocatore dallo stesso Myers, in casa Golden State non c’era mai stato così tanta convinzione come in quell’occasione nello scegliere Thompson:

Il consenso è molto difficile da ottenere nel nostro gruppo, ma noi decidemmo all’unanimità di scegliere Thompson

E poi la fatidica notte è arrivata, portando in dote delle piacevoli sorprese per i Warriors. Difatti i Sacramento King misero in piedi una trade con Milwaukee, acquisendo il diritto di scegliere la decima chiamata, dirottando il loro interesse su Jimmer Fredette. Gli Spurs invece alla 15 chiamarono Kawhi Leonard (in quanto a scelte al Draft gli Spurs cadono sempre in piedi. O quasi..).

Golden State finalmente aveva trovato il giusto giocatore da affiancare a Steph Curry per provare a fare il salto di qualità. Due anni dopo (e molte altre scelte riuscite) ci ritroviamo a commentare quella che è entrata nella storia del gioco come la coppia che in singola stagione ha messo a referto il maggior numero di triple mandate a bersaglio. 500 o giù di lì. Mostruosi. Ma se pensiamo a Klay come un eccellente tiratore e poco altro, facciamo un torto a quello che si sta affermando sempre più come giocatore totale in questi Playoffs.

Senza andare troppo in là, fermiamoci ad analizzare le due partite giocate questa settimana all’AT&T Center di San Antonio. Nella prima, dominata da Golden State dopo il terzo quarto da 22 punti di Curry (ve l’ho detto che nonostante non si parlasse di lui sarebbe venuto fuori in maniera ricorrente) e poi miseramente persa, la svolta è stata proprio la precoce uscita dal campo di Thompson, costretto al sesto fallo a 4 minuti dalla fine. Fino a quel momento aveva tenuto a bada Tony Parker, come raramente gli era successo in carriera, tenendolo nell’uno contro uno, coprendo le direttrici di passaggio a lui dirette, sostanzialmente portando il playmaker ha recitare un ruolo secondario nel match. Con la sua uscita dal campo, il francese ha iniziato a banchettare nei pressi del ferro, portando a casa insieme a Ginobili la partita.

In gara 2 si è sostanzialmente raggiunta la perfezione. Gioca la miglior partita della sua carriera (direi che ha scelto un bel momento), chiude con 34 punti  con 8/9 da tre e 14 rimbalzi. Primo tempo da 29 punti, senza sbagliare quasi mai. Tiratore purissimo. Poi nel secondo si entra in modalità difensore. Francobollato a Parker e a Ginobili, non li lascia praticamente respirare, concedendo come unica possibilità un jumper da sei metri contestato (è 201 cm ma marca tranquillamente gente più bassa). Grazie anche (se non soprattutto) a lui e alla sua prestazione Golden State sbanca a San Antonio, vincendo una partita in Texas dopo anni, chiudendo una striscia aperta di 30 sconfitte consecutive contro gli Spurs in trasferta.

Ritrovandosi nel pieno della sua prima esperienza di vertice NBA della carriera, i più si sarebbero aspettati un atteggiamento che lasciasse spazio all’euforia, alla gioia e all’entusiasmo. Non nel suo caso però. Finita la gara, poggiato al muro assieme al compagno Steph, attendendo la fine della conferenza stampa di Popovich, rimurginavano sulla mancata occasione di chiudere i giochi tornando in California sullo 0-2, ma allo stesso tempo rinfrancati nel morale per non essere rimasti schiacciati sotto il peso della cocente sconfitta di 2 giorni prima. 48 anni in 2, ma già una maturità difficilmente riscontrabile anche in giocatori molto più adulti. Il tutto perché consapevoli del fatto che il presente gli stia fornendo una grande occasione.

E già. Lo stesso staff dirigenziale di Golden State non credo fosse pronto ad un’esplosione ed una crescita così rapida di un progetto certamente ben costruito, all’interno del quale vengono affiancate all’esperienza di Jack la freschezza dei rookie Barnes e Green e dove al ricorrente (e redditizio) tema tattico basato sul gioco ad alto numero di possessi, alto ritmo e molti tiri da fuori si unisce la possibilità di esplorare soluzioni al ferro, di cui Bogut e Lee sono esecutori di livello.

La fragorosa esplosione di Curry, unita al periodo di “incertezza” che stanno vivendo un po’ tutte le franchigie ad Ovest, proiettano i Warriors verso obiettivi che nessuno poteva lecitamente immaginare ad inizio stagione. “Sky is the limit” dicono dall’altra parte dell’oceano. Ricordatevi però che, dietro a tutto questo, c’è sempre il silenzioso e non quantificabile contributo di Klay “the killer”, di gran lunga il miglior attore non protagonista della Lega.

Clicca per commentare

Commenta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Advertisement
Advertisement
Advertisement

Altri in Editoriali NBA