Seguici su

Editoriali NBA

Da Pitagora a Chris e Kevin. Quando Tutto è un numero

Se in questi giorni vi capitasse di giocare al lotto, non esitate: giocatevi il 61, il 3 e il 35. E il 24 e il 21, certo. Sono numeri segnati dal destino, consacrati dopo la notte a Houston di ieri sera. Perchè questo Ovest che ha vinto la partita delle stelle, ha una marcia in più data da quell’Mvp Chris e da quel top-scorer Kevin. Conditi dalla miglior eredità contemporanea che si possa avere ad oggi: Kobe e Tim. E se Pitagora diceva che tutto è un numero, vediamo allora il significato dietro a questi due Top-Players.

Partiamo dai primi due numeri. Il 61 e il 3. Semplici, limpidi, soprattutto il secondo. Ma senza il 61, il 3 non sarebbe mai potuto esistere come lo conosciamo oggi. Ovvero come conosciamo oggi Chris Paul. La sua storia è talmente incredibile che perfino la Disney avrebbe difficoltà ad immaginarla. Il nostro piccolo Simba cresce sotto l’ala protettiva di nonno Chilly, uno tra i primi neri americani proprietario di una pompa di benzina. Difficile capire come un ragazzino cresciuto con le mani sempre inzuppate nella senza piombo sia diventato un uomo con palmi talmente raffinati da fare invidia alle migliori case petrolifere. Il nonno aveva tre passioni nella vita: i Dallas Cowboys, il North Carolina basketball e il voltare lo sguardo se qualche fratello nero non aveva i soldi per pagargli il rifornimento. Proprio come fece quel giorno che il suo piccolo Chris venne chiamato dalla università di Wake Forest con una borsa di studio. Quando per l’ultima volta riuscì a festeggiare come la tradizione voleva tra loro, ovvero con Chris che prende un cappellino dei Deacons e lo infila sulla testa del nonno. Ma tutto questo non divenne nient’altro che un ricordo solamente ventiquattrore più tardi, il 15 novembre 2002, quando al nostro Simba venne strappato per sempre il suo Mufasa. Cinque ragazzi coperti in volto arrivarono alla stazione del nonno, massacrandolo di botte per avere l’incasso giornaliero. Il suo cuore smise di battere. “Chris, quanti anni aveva nonno Chilly?” “Sessantuno, zia” rispose Chris, ancora scosso dalla perdita. “E con chi giocate la prossima partita?” “Non lo so… forse contro Parkland H.S.” “Contro chiunque giocherai, quella sera segnerai 61 punti. Uno per ogni anno del nonno!” Chris sapeva perfettamento contro chi avrebbe giocato, così come ricordava perfettamente il suo carreer-high fino ad ora: 39 punti. Come un fuoriclasse, aveva già memorizzato tutte, tutte le partite giocate nella sua vita. Quella però, fatica ancora a ricordarla. Alla fine del primo tempo erano 32, di per sé complementari all’andamento della gara e del flusso di gioco. Alla fine del terzo quarto erano 46. A 2’30’’ dalla fine, 59. Uno contro uno a sinistra, crossover per andare in mezzo e lay-up sotto le braccia dell’avversario. 61. And one. Il tiro libero supplementare finirà un metro corto. Chris esce acclamato dai compagni mentre la palla ancora rimbalza, e con le lacrime agli occhi va ad abbracciare suo padre, CP1, e suo fratello maggiore, CP2. Così è diventato CP3. Il re leone.

Da tutt’altra parte, in tutt’altro tempo, cresceva quello che oggi è conosciuto come un esemplare unico di 2.10 dalla tecnica a dir poco sopraffina. A Washington, un certo Kevin Durant, era scortato tutti i giorni da mamma Wanda al Seat Pleasant Recreation Center, dove veniva affidato alle mani esperte di Chucky e Stink. Un pò come Starsky e Hutch, gli insegnano il primo le regole per vivere, il secondo quelle per vincere. Quando lo vedete segnare allo scadere allo Staples Center è opera di Stink, quando invece non lo sentite lamentarsi sul fallo di Lebron James in uno dei momenti cruciali di gara due delle scorse finals è opera di Chicky. E se lo dice lui bisogna crederci. A 10 anni, mentre gli altri lavorano in palestra, lui viene costretto a correre di sera, a meno due gradi su per una collinetta di fianco alla palestra. Cosa non molto allietata dal fatto che, una volta rientrato nel tepore del parquet lo chiamano “The Frozen Shot of Death”: supino, testa sul morbido per modo di dire e palla medica da 10kg che ti piega il polso destro all’indietro per un’ora. Un giorno KD si stanca e corre piangendo dalla madre. Ma sa che solo i vigliacchi mollano, e quando torna Stink è già lì ad aspettarlo. La prima partita la gioca indossando una maglia numero 24. Qualcuno dagli spalti urla a Chucky (quella sera in panchina) di dargli quella sacra col numero 23. Ma non la indosserà mai. Perchè Chucky morì all’età di 35 anni, colpito da tre pallottole mentre sedava una rissa, scivolando sull’asfalto freddo di Prince George. Adesso, a Oklahoma City, c’è una collina. Una sola però, dove 20 giorni prima del Training Camp ci sono venti uomoni che esagerano con le ripetute. Guidati da Kevin che prima di ogni ripetuta grida “Family!”. Davanti a tutti, a mostrare il suo tatuaggio sulla schiena in memoria di Chucky. Come quando è in campo, col numero 35.

Ne Paul ne Durant hanno ancora vinto un titolo Nba. Ma è solo questione di tempo. È già tutto scritto nel loro destino, come le loro storie ci hanno già raccontato. E intanto, Kobe e Tim sorridono a questo futuro.

Clicca per commentare

Commenta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Advertisement
Advertisement
Advertisement

Altri in Editoriali NBA