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Editoriali NBA

A True Melo Story. Vediamo da dove vengono il coraggio e la forza dell’orgoglio di New York.

“Di tutta la gente che ti parla alle spalle, di tutta la gente che non crede in te, di tutta quella gente che crede che tu non valga niente. Di tutta quella gente, tu sii meglio.”

Da questa frase, non si fa assolutamente fatica a capire il perché di alcune reazioni di Melo (per gli amici si intende) qualche sera fa durante la sfida con i Celtics di Garnett, che probabilmente Melo lo può chiamare solo Carmelo Kiyan Anthony.

Difficile è invece capire, nel vero e proprio senso non di apprendere, ma di concepire e accettare, la psicologia e gli atteggiamenti di un elemento del livello del numero sette dei Knicks. Tecnica sopraffina, tenacia inimitabile, audacia, Melo ha maturato anche il carisma del vero leader che serviva ai Knicks contemporanei, troppo spenti come fossero rimasti ai telefilm color seppia degli anni sessanta. Ora ha deciso di prendersi la squadra sulle spalle, come a dire: perdiamo, è colpa mia, dei miei quarantelli che tagliano il gioco di Coach Mike. Ciò che serviva alla grande mela insomma, qualcuno a cui dare la colpa che non fosse l’allenatore. E sopporta questa pressione in modo spiazzante, come i suoi movimenti per crearsi quei tiri che lasciano la scia d’un arcobaleno solo arancio e blu. E a 28 anni, non è così semplice. Ma questa semplicità arriva dal suo passato. Sempre sotto pressione. Perché chi non è sotto pressione, vivendo senza la speranza di un domani?

Carmelo, nato a Brooklyn il 29 maggio 1984 nel solito quartiere povero, come se ne sentono tanti nelle storie dei giocatori Nba, trova il modo per stare fuori dai guai in quel pallone a spicchi e in quei due cesti appesi a tre metri e zero cinque da terra e ad un’infinità dal cielo. A due anni perde il padre, Carmelo pure lui, originario del Portorico, e nel 1992 la madre Mary decide di trasferirsi con in figli a Baltimora. “Born in B’Lyn but manifactured in B-More” (Nato a Brooklyn ma prodotto a Baltimora). Scelta poco azzeccata, visto l’affollamento di narcotrafficanti e le sparatorie quotidiane quanto il pane. Un giorno, del centro città se ne impossessa la polizia. D’un tratto spariscono dal mondo di Melo i palloni, le divise con cui giocava. Spesso e volentieri lui e il suo amico d’infanzia Kenny vengono presi e maltrattati in pubblico come capri espiatori di colpe non loro. E Carmelo non dimentica. All’età di quindici anni sceglie il Dunbar H.S., un liceo che una volta ebbe un quintetto andato poi in loco in Nba. Ma poi, spinto dalla madre Mary, che voleva per lui un’istruzione cattolica come quella che ebbero lei e il padre Carmelo Primero, si trasferisce ad Oak-Hill Accademy, una sorta di scuola-monastero situata tra le sperdute colline della Virgina. Tutto questo, ovviamente, compensando la macanza di voti con l’aumento di venti centimetri in altezza in una sola estate. Ma già da subito dimostra qualche carenza. Soffre la mancanza di una preparazione atletica seria: Melo, oltre ad essere asmatico, non ha mai fatto una seduta in palestra in vita sua. Coach Smith decide di lavorare intensamente su questi aspetti, convinto che uno così non l’aveva visto mai. Lavora duramente tutto l’anno, con sedute che si protraggono per ore mentre i suoi compagni sono già stesi sui loro divani a riposarsi.

Così, nel febbraio 2002, si arriva a “The Game”. La Partita con la P maiuscola, quella più attesa in tutti gli Stati Uniti: la Oak-Hill Accademy vs St.Vincent-St.Mary, o al secolo Melo vs Lebron, atto primo. Finirà 72-66 per Oak Hill. 36-34 per Lebron. Prima della Nba, però, Melo vuole affrontare il college basketball, indossando la maglia degli Orangeman di Syracuse e conquistando il titolo di Mvp delle Final Four che il titolo NCAA da freshman. Ci rimarrà solo un anno, eleggendosi per la Nba al notorio draft del 2003 e venendo scelto con la numero 3 dai Denver Nuggets.

Ora, richiamato in terra natia per portare il decadente stendardo appartenente alla più vecchia franchigia della storia Nba, sembra aver trovato una nuova luce. Ah, per chi lo credesse solo un duro, Carmelo ha anche donato 3 milioni a Syracuse, dove ora ci si allena al Carmelo K. Anthony Center e altri 1.5 milioni a Baltimora, dove i ragazzi giocano al C.A. Youth Recreation Center, e dove i poliziotti possono stare solo in tribuna.

Melo è questo mix imprevedibile: grinta, passione, tecnica, aggressività. Ma anche cuore. Arancioblu. Ed è per questo che ha conquistato la più grande metropoli del mondo.

 

 

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