“Ebony and ivory
Live together in perfect armony
Side by side on my piano keyboard
Oh Lord, why don’t we?”
Corre ormai l’anno 1982 quando Paul McCartney pubblica quello che, a detta di molti degli addetti ai lavori, rappresenta uno dei punti più alti raggiunti dal cantautore di Liverpool nella sua fortunata carriera da solista, cominciata appena un anno prima con l’addio di Denny Laine e il conseguente scioglimento dei Wings, la band che insieme alla moglie Linda aveva messo in piedi dopo la drammatica fine dei Beatles del 10 aprile 1970. E, in effetti, a sostenere il contrario si fa parecchia fatica perché “Tug of War” rappresenta in maniera pressoché innegabile l’ennesimo gioiello incastonato nella già ricca corona di Macca.
All’interno di quell’album non manca proprio nulla: c’è la dimensione tristemente nostalgica e afflitta di “Here Today”, scritta per quel John Lennon assassinato meno di due anni prima in pieno Central Park, l’agognata mini-reunion sul ritmo pop di “Take it away” con Ringo di nuovo alla batteria e il desiderio di libertà nella voce fievole e leggera di “Wanderlust”. Il pezzo che domina all’interno del disco, però, è “Ebony and Ivory”, un inno contro il razzismo e l’intolleranza scritto e cantato con la leggenda americana della musica soul, blues e R&B del secondo dopoguerra, quello Stevie Wonder che, vocalmente e fisicamente, personifica all’interno della canzone la perfetta effigie dell’ebano, dando vita – nella meravigliosa unione con l’avorio rappresentato dall’ex frontman dei Beatles – a quella “perfect armony” dalla quale l’orecchio umano non può che trarre immenso piacere artistico.
L’interrogativo apparentemente retorico che chiude il ritornello, tuttavia, non è casuale né tanto meno accidentale, così come l’intera canzone non può essere ridotta ad un semplice tentativo ben riuscito di accaparrarsi il favore della critica e del pubblico di matrice cosmopolita e antirazzista. E’, invece, figlia di un’epoca chiara e negativamente ben definita. Sono infatti passati quasi quindici anni dagli omicidi di Martin Luther King e Robert Kennedy, in quel ’68 tanto meravigliosamente ribelle quanto “salato” per il prezzo di vite pagate, eppure la questione razziale, in America così come in molte altre parti del mondo, è ancora bel lontana dall’essere risolta(non lo è tutt’ora, sia chiaro). E per prendere coscienza di una delle situazioni più spaventose e avvilenti di quegli anni bisogna salire su un aereo e attraversare l’Atlantico, fino alla punta estrema del Continente nero, fino in Sudafrica.
Proprio qui, nel Paese dell’arcobaleno, in questi anni terribili, comincia la nostra storia.
Christine e Patrick non sono niente di più che due ragazzi innamorati. Lei è una giovane artista di origine svizzera, trasferitasi a Joannesburg alla fine del liceo quando, travolta dall’amore ingenuo e totalizzante che caratterizza quella complicata fase della vita, aveva deciso di seguire l’affascinante dentista sudafricano che in poco tempo l’aveva portata all’altare e le aveva regalato un figlio, il piccolo Christophe. Lui, invece, è un giovanotto scapestrato che canta contro il governo “bianco” per le strade della capitale, e che un bel giorno si innamora di quella bellissima pittrice elvetica rimasta sola dopo la sorte infelice del primo matrimonio. Tutto sembra bellissimo, quasi romanzesco. C’è solo un particolare da aggiungere. Un dettaglio la cui rilevanza è data solamente dal contesto all’interno del quale si colloca, e che, in ogni altra situazione, risulterebbe assolutamente privo di qualsiasi particolare risalto. Patrick è nero, Christine è bianca. E il fatto che i due all’epoca vivano assieme, camminino assieme per la strada e siano sposati non solo è socialmente riprovevole, ma è anche – e soprattutto – legalmente vietato, fin dal 1948 quando il National Party, uscito vittorioso dalle elezioni, aveva stabilito che l’ebano non poteva e non doveva convivere insieme all’avorio, nello stesso paese, nella stessa casa, né tanto meno nello stesso letto, e aveva così vietato i matrimoni misti e trasformato i rapporti “interrazziali” in reati punibili penalmente. Cominciava così, nel bel mezzo del “Secolo Breve”, l’epoca dell’Apartheid.
E’ proprio il 1982, quindi, quando Christine e Patrick si rendono conto definitivamente di non poter rimanere, di dover andare via. Salgono sul primo aereo disponibile, destinazione Vevey, ridente cittadina incastonata tra i monti svizzeri e il lago di Ginevra, a pochi chilometri da La Tour-de-Peilz, dove la ragazza aveva speso gran parte della sua giovinezza. Qui, finalmente, la vita per la coppia può ricominciare. O cominciare, nel caso dei due pargoli che la donna mette al mondo tra il 1982 e il 1984: Kgomotso prima e Thabo Patrick dopo, il 2 maggio 1984. Thabo Patrick Sefolosha.
I primi anni di vita di Thabo trascorrono come quelli di qualsiasi bambino svizzero, tra un libro di scuola e un calcio ad un pallone insieme al fratello maggiore. E’ all’età di 10 anni che la sua esistenza prende la svolta cruciale grazie ad uno di quegli episodi sul momento insignificanti, risolutivi solo a posteriori. Un semplice invito di un amico a mettere da parte per un giorno il pallone in cuoio bianco, e a prendere tra le mani quello in pelle arancione, un po’ più grosso e pesante. Insomma, nulla di particolarmente impegnativo. “Immediately, they knew that basketball was the game for them”. Per i piccoli Sefolosha, con la pallacanestro è amore a prima vista. Ecco, qui è dove tutto comincia. Ma la strada da percorrere da una partitella nei junior di Blonay alle Finals NBA con gli Oklahoma City Thunder è lunga. Molto lunga.
Da quel fatidico giorno non passa molto tempo prima che gli allenatori svizzeri si rendano conto che in quel ragazzino – molto alto per la sua età – c’è qualcosa di speciale, qualcosa che gli altri giocatori non hanno e che difficilmente potranno mai avere. A 16 anni è in Nazionale juniores, a 17 comincia la carriera da pro, nel Tege Riviera Basket, all’epoca nella massima serie elvetica. Ancora prima di raggiungere la maggiore età, in Svizzera, tutti coloro che si intendano di basket conoscono il “piccolo” Sefolosha, che, dal canto suo, si accorge presto di quanto la dimensione offerta dal piccolo club del cantone di Vaud sia troppo limitante, troppo opprimente per il suo talento. Accade così che durante una trasferta della squadra un talent scout francese lo osservi e se ne “innamori” all’istante. Per Thabo è già arrivato il momento di prendere il volo.
“La Svizzera è un piccolo paese, e le opportunità per giocare a pallacanestro sono molto limitate così, quando mi si è presentata l’opportunità di giocare in Francia, ho pensato che fosse un’ottima idea quella di provarci”
La prima tappa è Chalon-Sur-Saone, stupenda cittadina francese nel sud-est della Borgogna, dove il giovane elvetico spende tre stagioni all’Élan Sportif Chalonnais. Dopo un anno passato a fare la spola tra gli under 21 e i “grandi”, nella stagione 2002-03 Thabo si ritaglia definitivamente un posto in rotazione con la prima squadra, dove gioca 30 partite chiudendo con 4 punti, 3,5 rimbalzi e 1 assist a partita, ma soprattutto si afferma come uno dei più efficaci difensori dell’intero campionato. L’anno della consacrazione è però quello successivo quando arriva definitivamente la starting line up, la chiamata all’All Star Game e il titolo di “miglior giocatore non francese” del campionato, il tutto al termine di una annata straordinaria da quasi 10 punti di media e 7 rimbalzi in 30 minuti di impiego.
Alla fine della stagione, però, una controversia sorta tra la società francese e l’agente di Sefolosha in merito al rinnovo contrattuale di quest’ultimo, porta il giovane svizzero in Italia, a Biella per la precisione. Nella Angelica di Damon Willliams, Joe Smith e di un Marco Cusin poco più che ventenne, Thabo si ferma una sola stagione, trascinando la squadra ad un primo turno di playoffs inaspettato e assolutamente impronosticabile, perso poi per 3-1 contro la Fortitudo guidata da chi, qualche anno dopo, avrebbe rincontrato sui platinati parquet statunitensi: Marco Belinelli(per il bene dei tifosi di Biella ometteremo di trattare il finale di gara 4 ed il presunto “fallo” di Sefolosha sul Beli. Non rivanghiamo ricordi dolorosi e tormentosi).
Aldilà degli incredibili risultati di squadra, però, è la stagione dello svizzero ad essere strabiliante. A fine anno le statistiche parlano di 12 punti di media conditi da 7 rimbalzi, 2 assist e 2 palle rubate in 30 minuti di utilizzo tirando con il 48% dal campo. Chi lo guarda giocare per la prima volta non può davvero intendere quale sia – almeno formalmente – il suo ruolo in quintetto. E’, infatti, la personificazione vivente e deambulante di quello che gli americani definiscono un “jack of all trades”, un tuttofare che porta palla, guida le transizioni, segna, prende rimbalzi e, soprattutto, difende come pochi altri giocatori in Europa sono in grado di fare. E dall’altra parte dell’Atlantico sono in molti ad essersene accorti.
E’ ormai alle porte l’estate del 2006(quella dei dolcissimi ricordi sportivi per tutti gli italiani) quando Thabo si dichiara ufficialmente eleggibile per il Draft NBA. In America si parla di lui come di un “ibrido”, la perfetta sintesi tra il giocatore europeo e quello americano, in grado di conciliare la maturità e la razionalità del primo con l’impulso e l’esplosività del secondo. Intensità difensiva straordinaria, braccia lunghissime, apertura alare infinita e una velocità di piedi quasi ingiustificabile se rapportata a quel corpo da 2 metri per 100 kg. Non una superstar, non un “go-to-guy”, solo un onesto e umile role player. Uno di quei giocatori quasi mai indispensabili eppure sempre utilissimi. Una persona su tutti sembra apprezzare particolarmente il modo di giocare di Sefolosha. E’ John Paxson, l’allora “Vice President of Basketball Operations” dei Chicago Bulls, che numerose volte, durante l’inverno dell’anno precedente, era stato a Biella per visionare la guardia svizzera su precisa indicazione di Ivica Dukan, osservatore europeo della franchigia dell’Illinois rimasto a dir poco sbalordito dalla crescita costante e dai margini di miglioramento pronosticabili per il ragazzo.
“Ivica mi parlava del ragazzo da tempo. Continuava a segnalarmi quanto fosse migliorato in un periodo così breve, e insisteva nel dirmi che secondo lui poteva davvero aiutarci.[…]E’ senza dubbio un giocatore molto interessante. Questo perché mi piacciono particolarmente i giocatori che possono portare palla ma che sono in grado di giocare ad alti livelli anche dall’altra parte del campo”
Tuttavia, nonostante le numerose voci di sincero apprezzamento provenienti da molti GM della lega, quando l’alba del 28 giugno 2006 illumina New York, secondo tutte le previsioni, Thabo non dovrebbe essere scelto prima dell’inizio del secondo giro. Forse proprio dai Bulls con la 46esima chiamata. Insomma, nessuna particolare pretesa, nemmeno in uno dei draft – a posteriori – meno colmi di talento degli ultimi anni. Solo un sogno da realizzare, un desiderio ardente, e una attesa spasmodica, senza fine. Finalmente si comincia. Passano Bargnani con la prima scelta, poi LaMarcus Aldridge, Adam Morrison con la terza, Brandon Roy(che meraviglia tifare Portland nel 2006) con la sesta, J.J Redick con l’undicesima. E’ mentre David Stern sta pronunciando il nome di Hilton Armstrong, dodicesima chiamata dei New Orleans Hornets, che un collaboratore si alza e si avvicina a Sefolosha.
“You’re next.”
Per poco non sviene. La tredicesima scelta, quella dei Philadelphia 76ers. Prima l’irrazionale stupore, poi la ragionevolezza che prende il sopravvento portando con sé l’ipotesi più plausibile e verosimile. ‘Si saranno confusi, non c’è dubbio. Il ragazzo avrà sicuramente sbagliato persona’. Un paio di minuti, ed eccolo tornare, sempre lo stesso.
“One more thing. You’re going to be traded to Chicago. Be ready.”
‘Non è vero. Non può essere vero.’ Poi David Stern si avvicina al microfono, e per quanto possa suonare incredibile, per quanto possa apparire una assurda suggestione data dalla impronosticabile circostanza, sembra davvero che anche lui stia sorridendo. Forse per l’incredulità, forse per la sorpresa. O forse semplicemente non sta affatto sorridendo.
“With the thirteenth pick in the 2006 NBA Draft, the Philadelphia 76ers select Thabo Sefolosha from Switzerland.”
E invece è successo davvero, tutto quanto. Pochi minuti più tardi, il ventiduenne svizzero è un nuovo giocatore dei Chicago Bulls, con Rodney Carney(scelto alla 16esima) e una valigetta da un milione di dollari spediti nella direzione opposta, verso la Città dell’Amore Fraterno. Sì, è successo davvero.
“Naturalmente sono rimasto sorpreso al draft quando qualcuno si è avvicinato e mi ha detto che sarei stato il prossimo. Ho pensato che si fosse sbagliato o chissà cosa. Invece pochi minuti più tardi è tornato e mi ha detto che non solo sarei stato il prossimo ad essere scelto, ma che sarei anche stato ceduto a Chicago, il che mi emozionava non poco”.
Le tre stagioni di Thabo in maglia Bulls, però, sono tutto tranne che emozionanti. L’inizio è anche incoraggiante, con Sefolosha che fin da subito, beneficiando di una dose di esperienza che pochi rookie potevano vantare, e di una tenuta mentale assolutamente fuori dall’ordinario, riesce a ritagliarsi un ruolo importante partendo dalla panchina. A metà anno, però, le cose iniziano a peggiorare, soprattutto per la scarsa predisposizione di coach Scott Skiles(che comunque stravedeva per lui) nei confronti delle matricole, alle quali notoriamente concedeva poco spazio. I minuti in campo scendono e le percentuali anche, mentre i Bulls riescono comunque a chiudere la stagione con un dignitoso quinto posto nella Eastern. La parabola allora sembra poter tornare a risalire nei Playoffs quando, nel primo turno contro gli Heat della coppia Wade-Shaq, riesce a “limitare” Flash a 23 punti con il 40% dal campo, contribuendo allo sweep dei Tori nei confronti della franchigia della Florida. Ma si tratta di un fuoco di paglia, e l’inizio della stagione seguente lo conferma.
L’avvio è disastroso, sia per lui che – soprattutto – per la squadra. Deng e Wallace sono costantemente in infermeria, mentre Hinrich, Duhon e Gordon sono offensivamente(e difensivamente) nulli, per non dire disastrosi. Dopo 25 partite i Bulls hanno un record sconfortante e a farne le spese e proprio coach Skiles, al quale subentra ad interim l’assistant Jim Boylan, che per uno strano scherzo del destino aveva iniziato la sua carriera da allenatore/giocatore proprio al Vevey Basket tra il 1982 e il 1986, guidandolo al suo primo titolo dopo 30 anni, e il cui figlio era nato 10 giorni prima di Thabo proprio nella stessa cittadina svizzera(“I couldn’t believe that when he told me. He showed me pictures from there and everything”). Qui la vita sportiva di Sefolosha sembra davvero poter prendere una svolta: il minutaggio aumenta, così come le responsabilità in zona offensiva. Ma è proprio nella metà campo avversaria – e qui il mea culpa è d’obbligo – che Thabo si fa trovare impreparato, dimostrando tutti i limiti che fin dall’inizio gli erano stati pronosticati: percentuali inaffidabili, una meccanica di tiro a dir poco rivedibile e, più in generale, una totale incapacità di risultare anche solo lontanamente decisivo in fase d’attacco. Da febbraio per i Bulls comincia il tanking che, quantomeno, porta a Chicago frutti assolutamente insperati. Dodicesimo posto ad Est e, nonostante tutto, grazie ad un inaspettato colpo di fortuna(le percentuali davano ai Bulls 1.7% delle possibilità di ottenere la first pick), prima scelta al draft che si tramuta in un ragazzino da Memphis di nome Derrick Rose. Nella Windy City esplode la festa, ma per Sefolosha non c’è proprio più spazio.
A febbraio viene quindi ceduto agli Oklahoma City Thunder dove, nelle cinque stagioni successive Thabo raggiunge le vette più alte della sua carriera, divenendo definitivamente(e finalmente) “The Defender Machine”. Nei Thunder di Brooks Sefolosha è un elemento imprescindibile e indispensabile per dare equilibrio e sostanza difensiva ad una squadra che con Durant, Westbrook e Harden (rigorosamente in questo ordine di arrivo) ha il solo problema di non riuscire a limitare i punti concessi agli avversari. Le soddisfazioni personali sono numerose(NBA All-Defensive Second Team nel 2010), le vittorie anche, ma prima un Nowitzki monumentale, poi i Big Three di Miami e, infine, una serie infinita di infortuni misti a scelte societarie a dir poco rivedibili(il rinnovo di Ibaka e la conseguente cessione di Harden ancora gridano vendetta), impediscono allo svizzero e alla Thunder Nation di festeggiare un titolo a lungo agognato, a lungo inseguito e, in definitiva, sempre sfuggito per un soffio. Nell’estate del 2014, allora, complice la considerevole crescita di Andrè Roberson(giocatore molto simile allo svizzero), la franchigia dell’Oklahoma decide di potersi privare di Sefolosha, che il 15 luglio 2014, dopo una estemporanea e improvvisata sign-and-trade con Printezis e Schortsanitis come coprotagonisti, vola verso la Georgia, destinazione Atlanta Hawks.
Durante la stagione 2014/15, quello che Budenholzer riesce a realizzare nella “City in a forest” è semplicemente un miracolo, una di quelle favole destinate a far innamorare di questo sport anche il più scettico degli osservatori. Teague è uno dei migliori PM della lega, Korver un mortale cecchino in grado di tirare con il 49% dalla linea dei tre punti, Millsap un prodigio, Horford una benedizione, Shroeder il talento da coltivare poco per volta. La circolazione palla “scuola Popovich” è qualcosa di straordinariamente bello ed efficace, in grado, al contempo, di portare gli Hawks al primo posto nella Eastern con un record di 60-22 e di rendere la visione di ogni partita delle Aquile un “orgasmo” per qualsiasi amante degli “sport di squadra giocati di squadra”, senza lamentose prime donne o lunatiche e instabili superstar.
In questo contesto incredibilmente trascinante e coinvolgente all’interno del quale tutti sono indispensabili e nessuno lo è realmente(nel febbraio 2015 l’intero quintetto è “Player of the month”), Thabo non può che trovare la dimensione a lui più consona e appropriata. Gioca venti minuti di media, durante i quali dà spesso il cambio al buon Kyle quando la squadra necessità di maggior sostanza nella propria metà campo, incollandosi di volta in volta ai pantaloncini del Durant, del Thompson o del Leonard di turno, e sempre con ottimi risultati. Gli Hawks volano e mai come in quella stagione ad Atlanta sembra davvero che il cielo sia l’unico limite pronosticabile. Non sarà così, non per Thabo, il cui margine sarà segnato da nient’altro che una divisa e una manganellata ben assestata in una notte di ordinaria follia a New York City.
Succede tutte a cavallo tra l’8 e il 9 aprile 2015. Thabo e Pero Antic, atterrati nella Big Apple in vista della partita del giorno seguente contro i Nets, sono in una discoteca in un distretto di Manhattan, dove tra un bicchiere e quattro salti in pista stanno festeggiando la vittoria di qualche ora prima contro Phoenix. La serata scorre in maniera piacevole finché, da un momento all’altro, non arriva una notizia a dir poco sconcertante: fuori dal locale, proprio in quegli istanti, l’esterno degli Indiana Pacers Chris Copeland è stato accoltellato. In un attimo è il putiferio. Pochi minuti dopo, i due compagni di squadra sono fuori dal locale per prendere coscienza della gravità della situazione. E’ in quel momento che un agente della polizia di New York si avvicina a Thabo con fare tutt’altro che professionale, per rivolgergli un pacato e flemmatico “get the fuck off my street”, l’american version di un sobrio “fuori dai coglioni!”. Sefolosha non ha nessuna intenzione di disattendere gli ordini, eppure – comprensibilmente – non riesce a nascondere il fastidio suscitato in lui da quel presuntuoso gendarme: “Calma amico, ce ne stiamo andando. Avere un distintivo non ti rende necessariamente il più forte del mondo”. Una risposta serena in fin dei conti, quantomai contenuta, alla quale la divisa, rinvigorita dall’arrivo in grande stile di altri sei o sette infervorati colleghi, risponde con un altrettanto flemmatico “with or without a badge I can fuck you up”. Sì, tutto facilmente traducibile e interpretabile anche dagli anglofoni meno esperti.
Thabo capisce che non è aria, che i guai sono dietro l’angolo anche per lui. Ferma al volo un taxi e decide di tornare a casa. E’ ormai in procinto di salire sulla vettura gialla quando un senzatetto lo ferma per chiedergli dei soldi. Lo svizzero allora mette le mani in tasca per prendere 20 dollari, e prima ancora che possa rendersene conto cinque poliziotti sono su di lui e l’hanno scaraventato a terra per ammanettarlo, nonostante i vivaci inviti dei presenti a mantenere la calma in quanto “he didn’t do anything”. E sarebbe già abbastanza così, si potrebbe pensare. Ma non per uno degli agenti che, con Sefolosha già immobilizzato a terra, decide di tirare fuori il manganello e di rifilarglielo sulla gamba, per una motivazione davvero difficile da cogliere anche a seguito di intensi ragionamenti e di astruse ed improbabili ipotesi.
Dopodiché dodici ore in cella insieme ad un compagno di squadra si sopportano facilmente(in tutto questo era stato arrestato anche Antic). Si sopporta anche il peso di dover inizialmente chiedere scusa per qualcosa che non si ha commesso, per salvaguardare l’immagine della franchigia. Ciò che non si sopporta, però, è la diagnosi di un medico che, proprio ad un passo dall’inizio di una delle post season più importanti della tua carriera, ti dice che la tua tibia destra è fratturata, che ti devi operare e che, conseguentemente, la tua stagione è finita.
Poco più di un mese dopo gli Hawks verranno eliminati in finale di Conference da Cleveland, guidata da un irreale LeBron da 30 punti, 11 rimbalzi e 9 assist. Sì, LeBron James, proprio l’uomo che verosimilmente Sefolosha avrebbe dovuto faticosamente tentare di limitare, l’uomo che già qualche anno prima aveva infranto le speranze e i sogni di gloria del ragazzo di Vevey. Già, chissà, magari sarebbe andata davvero in modo diverso. Sarebbe bello non doversi porre la domanda.
La giustizia nel frattempo fa il suo percorso. A Thabo verranno offerti accordi, tentativi di mediazione per evitare il processo. Si rifiuterà sempre, continuando convintamente ad affermare la propria innocenza nonostante i suggerimenti di tutti i familiari che non vedevano di buon occhio la prospettiva di uno scontro con poteri molto più grandi e influenti rispetto a quelli di un giovane giocatore di NBA venuto dall’Europa. Alla fine l’avrà vinta lui, e nell’udienza dell’8 ottobre 2015, proprio pochi giorni prima del suo rientro in campo, verrà definitivamente assolto da tutte le accuse, con una sentenza che avrebbe lasciato dietro di sé solo qualche incubo notturno(“I had nightmares. I would wake up sweating in the middle of the night”) e tanti, tantissimi rimpianti.
A distanza di due anni da quella notte, Thabo è di nuovo in campo, sempre ad Atlanta, sempre a regalare spettacolo con una squadra che anche questa stagione sembra poter aspirare a posizioni da altissima classifica nonostante la mini rivoluzione estiva. Eppure, guardando indietro, il rammarico rispetto a quello che sarebbe potuto essere è ancora enorme. Perché in fondo è stata un’ingiustizia, un abuso, una di quelle situazioni che già da sole suscitano rabbia e disappunto, figuriamoci quando si interpongono come cesure (semi)definitive tra un ragazzo e il sogno di una vita. E forse, anche a due anni di distanza, interrogarsi su che cosa abbia spinto quel braccio a scagliarsi sul corpo immobilizzato di chi non aveva commesso alcun reato, è azione tanto giustificabile quanto doverosa, anche al netto delle conclusioni spiacevoli alle quali si rischia di giungere. Perché alla fine il rischio – nel caso specifico esprimibile solo ipoteticamente e molto sommessamente, ma decisamente non escludibile – è che si ritorni sempre lì. Ad una consapevolezza che non si vorrebbe accettare, che si vorrebbe respingere tanto è ripugnante. Quella che ci dice, giorno dopo giorno, episodio dopo episodio, da Ferguson al Minnesota, che su quell’immenso “pianoforte” che sono gli Stati Uniti d’America, anche nell’epoca dei diritti civili universali e dei presidenti neri, vivere in quanto “tasti color ebano” è ancora tremendamente difficile, e che l’armonia perfetta, che Stevie e Paul avevano trovato poco più di 30 anni fa, rimane ancora solamente un lontano e bellissimo miraggio.