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Editoriali NBA

Isaiah, il profeta della sregolatezza

La locuzione latina “nomen omen” sta a denotare una persona che abbia un “destino/presagio nel nome”, in genere frutto di circostanze casuali. Ci sono alcuni esempi, tuttavia, che potrebbero rappresentare una categoria inversamente proporzionale o capovolta all’espressione appena citata. Il soggetto di cui ci apprestiamo a descriverne la turbolenta storia ben si presta a tale tipo di riflessione. Un giocatore che è stato l’emblema della miscela esplosiva di genio (tanto) e sregolatezza (ancor di più), che si è riversata come il napalm sulle sorti personali, tanto sul parquet che fuori dal campo. Più arresti che stagioni nella Lega, seppur contrassegnate da un talento cristallino. Signore e signori, Isaiah Rider.

La vita e le gesta di Rider potrebbero essere un perfetto termine di paragone, di quelli ovviamente da non prendere mai come modello di virtù a cui ispirarsi. Nato il 12 Marzo 1971, in quella fervida fucina di talenti della West Coast che risponde al nome di Oakland, il giovane Isaiah fece subito parlare di sé. In primo luogo per un atletismo ed un’esplosività davvero impressionanti, che non potevano che agevolarlo su di un campo da basket. In secondo luogo, per comportamenti quantomeno bizzarri, che non facevano presagire, già allora, buoni risvolti nel medio-lungo periodo. Alto circa 1,95 metri, Rider fu una stella alla Encinal High School, battagliando contro altri futuri fuoriclasse californiani, gente come Jason Kidd per intenderci.

Nonostante il suo nome fosse stato annotato in molti taccuini degli scout, la strada verso la gloria si fece impervia. Isaiah, infatti, fu costretto a rifugiarsi negli junior college, dato che di avere buoni voti a scuola proprio non se ne parlava. Per due anni girovagò, vestendo le non proprio rinomate casacche dell’Allen County Community College, nel Kansas, prima e dell’Antelope Valley College nella natia California dopo. Ad allacciata di scarpe, i punti erano obbligatoriamente almeno 30, tale era l’evidente disparità di classe ed arsenale tra il ragazzo ed i coetanei. Quelle prestazioni non potevano passare inosservate al piano di sopra. Ad accoglierlo fu University of Nevada Las Vegas che, riallacciandoci al nostro prologo, ha come nickname un curioso Runnin’ Rebels, alquanto consono alle imprese del giovane Rider.

UNLV già da alcuni anni si era costruita una “discreta” reputazione di rifugio di atleti non proprio modello, sotto la solida guida di coach Jerry Tarkanian. Isaiah corrispondeva perfettamente a tale identikit, andandosi ad inserire in una formazione che aveva sì vinto il titolo NCAA 1990, ma che era già stata punita per la violazione delle norme, venendo ostracizzata dalle televisioni nazionali. La guardia californiana divenne in breve una macchina da highlights, grazie a poderose schiacciate da vera antologia, da vedere e rivedere all’infinito. Al suo secondo ed ultimo anno fece lievitare tanto la produzione offensiva quanto i guai al di fuori del terreno di gioco. Dapprima venne arrestato per aver picchiato un commesso di un fast food, solo per aver sbagliato a servirlo. In seguito, venne fuori che Rider aveva imbrogliato nel suo biennio accademico, trovando chi facesse i compiti al posto suo. Il giocatore venne sospeso alla vigilia del torneo NIT, con tanto di “Non si fa, non si fa!”da far inorgoglire anche Valerio Staffelli e tutta la redazione di Striscia la Notizia.

Nonostante gli evidenti problemi disciplinari, la classe di Isaiah (o JR, come talvolta viene chiamato) non poteva non trovare estimatori anche nella NBA. Nel Draft 1993, che vide Chris Webber come primissima scelta, Rider venne selezionato alla posizione numero 5 dai Minnesota Timberwolves. La franchigia era di recente costituzione, non propriamente vincente e le cui principali stelle erano Christian Laettner e Doug West. Di palloni per il nuovo arrivato ce ne sarebbero stati a sufficienza.

L’annata da matricola di Isaiah Rider fu assolutamente spettacolare. Anche al livello massimo della pallacanestro americana quell’atletismo e quella potenza avevano lasciato il segno. All’All Star Game, tenutosi tra l’altro proprio a Minneapolis, vinse la gara delle schiacciate con la “East Bay Funk Dunk”, facendosi passare la palla in mezzo alle gambe in aria prima di affondare violentemente la sfera nel canestro. A fine stagione, chiusa a 16,6 punti di media, arrivò l’ovvia inclusione nel primo quintetto dei rookie. Un album rap, pubblicato pochi mesi dopo, sembrava aver sancito l’inclusione di Rider nel mezzo di quella cerchia di giocatori che spostavano gli equilibri e diventavano volti riconoscibili al grande pubblico.

Di annate in maglia T-Wolves ne sarebbero giunte altre 2. Da sophomore fece registrare 20,4 punti ad incontro, cifra mai più toccata in seguito, ma erano i comportamenti non proprio irreprensibili a tenere il banco nello spogliatoio. Litigò per quasi tutto l’anno con l’allenatore, incappando nella inevitabile sospensione. Riuscì però a migliorarsi l’anno seguente, picchiando una donna che era manager di uno sport bar, locale caratteristico negli USA. Dopo l’ennesima discussione con il front-office, il destino di JR in città era segnato, anche per non compromettere la crescita di un rookie di nome Kevin Garnett: nel luglio del 1996 Rider venne ceduto ai Portland Trail Blazers in cambio dell’equivalente di un fico secco.

Il buongiorno non si vedeva certamente dal mattino, dato che nelle settimane contemporanee al trasferimento verso l’Oregon il ragazzo incappò in altri guai con la Legge, in un caso per possesso di marijuana. Nei tre anni in maglia Blazers, la classe pura di Isaiah trovò nuovo lustro, con due escursioni oltre quota 19 ed un arsenale offensivo da primo della classe, anche in una Lega del genere. Purtroppo, però, era diventato del tutto incontrollabile. Fu forse grazie a lui che nacque la non illustre epopea dei Jail Blazers, che per quasi un decennio si fece segnalare più per fatti di cronaca nera che per imprese sportive. Gli arresti per Rider con l’accusa di possesso di sostanze proibite si fecero più frequenti, sul parquet non era raro vederlo perdere il lume della ragione. In un’occasione fu sospeso per alcune gare per aver sputato addosso ad uno spettatore durante una gara. A nulla valsero le ottime prestazioni con la palla in mano, era tempo di fare le valigie nuovamente. Nell’Agosto del 1999 fu scambiato per Steve Smith agli Atlanta Hawks. Portland, senza di lui, giunse immediatamente sino ad uno svenimento collettivo dalle NBA Finals 2000, complice l’ultimo quarto di gara-7 contro i Lakers. Gli Hawks, presenza fissa nella postseason sino ad allora, iniziarono una parabola discendente che avrebbe comportato un’assenza di 9 anni dai Playoffs.

Isaiah fu ancora una volta top scorer di squadra, sempre sfiorando i 20 di media, ma la situazione era diventata ingestibile. Decine e decine di allenamenti saltati o arrivando in ritardo con il primo gruppo degli inseguitori, uso costante di marijuana, liti con giocatori e dirigenti e tante altre beghe non di poco conto. Il “top” lo raggiunse quando minacciò di far fuori Dikembe Mutombo, compagno di squadra, reo a suo dire di aver spifferato alla Lega la vicenda-marijuana. Dopo esser stato sospeso per essere arrivato tardi ad una gara, Rider venne rilasciato in Marzo da Atlanta. Troppe le multe accumulate, anche, se non soprattutto, per mano della NBA stessa, desiderosa di porre un freno alle peripezie di un artista dei guai, lo stesso che, in un’altra occasione, non presenziò ad un incontro col sindaco di Oakland, durante il quale doveva essere inaugurata una palestra in città col suo nome.

Nell’estate del 2000 i Los Angeles Lakers, freschi vincitori del titolo, decisero di scommettere forte su JR, nel tentativo di rafforzare la propria panchina in vista della stagione successiva. Rider capì che non poteva più essere la prima bocca da fuoco della squadra ed accettò di buon grado un ruolo da comprimario, partendo dalla panchina. Sembrava essersi messo la testa a posto, se non che, ad un mese dai Playoffs, fu sospeso per 5 gare per aver violato il programma anti-droga della Lega. Complice anche un calo nel rendimento, coach Phil Jackson decise di escluderlo dal roster della postseason. I Lakers vinsero quasi sbadigliando il back-to back e, nonostante la non inclusione nelle ultime partite, decisero lo stesso di dare un anello di campione NBA ad Isaiah. Non poteva però avere lo stesso sapore che avrebbe avuto con una partecipazione attiva.

Non rinnovato da Los Angeles, l’ultima tappa nella Lega per Rider furono i Denver Nuggets. Durò solo 10 partite, prima di venire tagliato per ricorrenti ritardi e violazioni del codice interno della squadra. Era ancora fresco trentenne, eppure non avrebbe più calcato parquet professionistici, nonostante negli anni seguenti abbia sempre paventato le ipotesi di un ritorno, mantenendosi pure in una discreta forma fisica. L’unica eccezione fu una singola partita, nel 2009, con i North Texas Fresh della ABA. Era ormai fuori dal giro, con fin troppo tempo libero a disposizione.

Come è facile prevedere, il nome di Rider è spuntato diverse volte tra i trafiletti di cronaca nera dei giornali. Nel 2007 passò alcuni mesi in prigione per possesso di cocaina, perdendo anche tante amicizie e ritrovandosi nell’isolamento più assoluto. Non poté più rivedere l’amata madre, la stessa che, durante una delle varie espulsioni dal campo, era arrivata vicino al parquet a calmare il figlio e scortarlo verso l’uscita. Una malattia se la portò via proprio in quel periodo. Uscito, disse che voleva dare una svolta alla propria vita, eppure, negli anni seguenti, fece registrare 5 arresti per motivi variegati, a testimoniare che quella testa non voleva proprio saperne di raddrizzarsi.

Di recente il nome di Isaiah Rider non è stato avvistato nella parte meno lieta dei quotidiani. Di lui si è parlato per ricordare il ventennale da quella schiacciata mai vista prima e non, fortunatamente, per fatti non molto edificanti. Ha ammesso di avere rimpianti per come è andata la propria carriera, sentimento condiviso da tanti addetti ai lavori e tifosi. Rider è stato l’esempio lampante di come riuscire a distruggere, con le proprie mani, un futuro brillante e sicuro, bruciando i doni ricevuti da Madre Natura sin dall’infanzia. L’importante, ora che l’attività agonistica è stata messa alle spalle, è che lo si recuperi come uomo, impresa difficile ma, si spera, con ancora delle possibilità di riuscita. Ha detto di aver dato una svolta grazie all’attuale compagna e ad un riavvicinamento a Dio. E magari proprio la Fede potrebbe salvare uno che si chiama Isaiah, che non è stato decisamente profeta nella propria patria. Nomen-omen, proprio come dicevamo all’inizio, no?

Alessandro Scuto

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