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NBA Wars: Nike vs. Adidas Ep. 1 | Sognare in grande

NBA Wars è la nuova rubrica che racconterà nel dettaglio le guerre fra colossi imprenditoriali che ruotano attorno alla NBA. Ad inaugurarla è la sfida fra Nike e Adidas, iniziata negli anni ’70 e piuttosto accesa ancora oggi

(credits to Park Tyson)

 

L’NBA è teatro di epiche battaglie, sin dalla sua fondazione. Guerre sportive più o meno dichiarate tra singoli giocatori e franchigie hanno dato vita a rivalità dalle lunghe radici: Boston Celtics contro Los Angeles Lakers, Michael Jordan contro Isiah Thomas, Kobe Bryant “contro” Shaquille O’Neal. Persino l’NBA stessa, un tempo, era in guerra con altre leghe rivali, contendendosi giocatori e spettatori. Proprio questo tipo di competizione ha fatto sì che fra tifosi si creasse una narrazione unica, quasi epica, dei momenti più salienti della pallacanestro americana, che alimentano ricordi specifici in ognuno di noi. Dietro a questi scontri più o meno noti, però, ce ne sono stati altri che sono passati sottotraccia, ma che hanno ugualmente cambiato il corso degli eventi in NBA: pensate a tutte quelle aziende che ruotano intorno alla lega, spesso multinazionali come Nike, State Farm o Gatorade. Ecco, senza il loro desiderio di entrare in rotta di collisione con aziende che già dominavano i rispettivi mercati e che vantavano ricchi accordi di sponsorizzazione in NBA, vedremmo una pallacanestro con altri marchi e con un tipo di cultura completamente diverso.

NBA Wars è la nuova rubrica di NbaReligion che vi terrà compagnia ogni martedì a partire da oggi, fino al termine dell’estate. Si occuperà proprio di questo: raccontare nel dettaglio quelle guerre che hanno forgiato passato, presente e futuro dello sport che amiamo, nel bene o nel male. Per ognuna di questi scontri, riporteremo aneddoti e retroscena in una serie di diversi episodi.

Dunque, da quale rivalità cominciare se non quella fra Nike ed Adidas? Le due case produttrici di scarpe si dichiararono guerra negli anni ’70, per poi proseguire nelle decadi successive, fino ad arrivare al 2020, fra successi, passi falsi e provocazioni. Nel primo episodio vedremo gli albori di questo scontro, mentre in quello conclusivo vedremo come la sfida si è spostata sul piano dell’abbigliamento e delle divise da gioco negli anni più recenti. Per capire come, e quale sia l’azienda vincitrice, bisogna però procedere con ordine, raccontando ogni singola tappa percorsa dalle due rivali, partendo da scarpe che apparentemente non hanno nulla a che fare con Nike e Adidas: le Converse All-Star.

 

Episodio 1 | Sognare in grande

Chuck Taylor guarda dritto negli occhi ognuno degli studenti della North Carolina State University accorsi in palestra per assistere al suo basketball clinic. Siamo nel 1922, e Chuck ha ventun anni: la stessa età di molti degli spettatori presenti. Li scruta attentamente mentre mostra alcuni esercizi specifici, per capire se qualcuno di loro è effettivamente interessato a migliorarsi. Guarda le loro scarpe, non adatte a giocare a pallacanestro: sono rigide, poco flessibili, pesanti. Chuck indossa invece un paio di Converse All-Star, sulle quali lui stesso ha messo mano, suggerendo alcune modifiche solamente l’anno precedente. Prima di allora, Converse, come molte altre case produttrici, non riusciva a trovare l’approvazione dei giocatori semi-professionisti degli interi Stati Uniti. Proprio Taylor, giocatore semi-professionista a sua volta, con quelle modifiche avrebbe rivoluzionato quella scarpa e la pallacanestro per gli anni a venire.

Chuck Taylor con ai piedi la versione rinnovata delle originali Converse All-Stars, prodotte per la prima volta nel 1917. (credits to Heddels.com)

In quel basketball clinic mentre Taylor mostra i suoi esercizi illustra anche le caratteristiche di queste scarpe. Non sono come le altre: la suola è fatta di gomma, mentre la parte superiore è di tessuto e arriva a ricoprire anche la caviglia. È proprio questo rivestimento più morbido a permettere una maggiore libertà di movimento ai piedi, e dunque a rendere così speciali le All-Star: più movimento, più leggerezza, maggiore velocità ed agilità. Gli spettatori rimangono estasiati dai movimenti e dalle scarpe di Taylor. Quello che forse non hanno capito immediatamente è che in sostanza Taylor sta facendo due cose: promuovere la pallacanestro, sport ancora ampiamente sconosciuto nel primo dopoguerra, e avere un ritorno personale, dal momento che dal 1921 è diventato un vero e proprio rappresentante commerciale di Converse, poiché il solo giocare a basket non garantiva introiti ragionevoli. Insomma, sta associando uno sport in crescita a un marchio altrettanto emergente. La cosa funziona: dopo quella prima dimostrazione fa tappa alla University of Michigan, poi in Columbia, infine a Pittsbrugh, raccogliendo grande successo intorno al basket e alle sue scarpe. In quello stesso anno, Chuck scrive addirittura un libro intitolato Converse Basketball Yearbook, in cui raccoglie i migliori giocatori, allenatori e squadre di pallacanestro del momento, accostandoli al marchio All-Star.

La voce si sparge, e i consensi non tardano ad arrivare. Taylor promuoverà quelle scarpe in decine di scuole, college, e nelle YMCA. In pochi anni, ogni giocatore di basket che si rispetti indossa un paio di Converse All-Star, che nel 1932 vengono rinominate Converse Chuck Taylor All-Star, a sottolineare l’impatto di Taylor. Nel 1936 la pallacanestro diventa per la prima volta sport olimpico, e le Chuck Taylor vengono selezionate come scarpe ufficiali della nazionale americana. Lo saranno fino al 1968. Non solo: le Converse vanno oltre i confini della pallacanestro, diventando scarpe ufficiali per l’allenamento delle reclute dell’esercito statunitense durante la Seconda Guerra Mondiale.

Terminato il conflitto mondiale, viene lanciato il nuovo modello di colore bianco, in concomitanza con la fondazione della NBA. Per cementare ulteriormente la sua posizione, Converse comincia a produrre anche il modello Oxford, ovvero quello più basso, che non arriva ad avvolgere le caviglie dei giocatori. Negli anni ’50 le All-Star diventano lo standard fra i giocatori di high school, college ed NBA; la popolarità dello sport continua a crescere a dismisura raggiungendo il suo apice, anche grazie a star come Wilt Chamberlain, Bill Russell, Jerry West (tutti giocatori che indossano Chuck Taylor), e nella decade successiva il 90% dei giocatori di basket calza Converse.

 

Wilt Chamberlain e Bill Russell in una partita NBA del 1959: il primo indossa All-Star bianche nella versione alta, mentre il secondo All-Star nere nella versione più bassa. (credits to Heddels.com)

 

Adidas e i nuovi orizzonti della NBA

Nello sport, però, nessuno può essere considerato un eterno vincitore. Taylor muore nel 1961, e con lui l’innovazione tecnologica di Converse. Perché giocatori, Converse stessa e altre aziende produttrici di scarpe se ne rendano conto servirà però qualche anno. Dopotutto, l’NBA viene vista come un monopolio: dopo tale successo c’è spazio solamente per le All-Star, e guadagnare consenso in uno scenario del genere risulta piuttosto difficile per un’impresa concorrente. Eppure, l’azienda non è riuscita a risolvere un problema piuttosto serio: la frequenza degli infortuni. Con l’introduzione del cronometro dei 24 secondi il gioco diventa più veloce, e scarpe fatte di tessuto non sono lo strumento più adatto per prevenire infortuni a piedi e caviglie. Converse, però, non introduce alcuna innovazione nel corso degli anni ’60: con un totale controllo del mercato, perché preoccuparsi?

Alcuni rivenditori americani sono coscienti di questo problema, soprattutto chi ha rapporti con aziende produttrici di scarpe sportive in Europa. Chris Severn, insieme al fratello maggiore Clifford, è uno di loro e, come se non bastasse, ha anche giocato a pallacanestro alla high school. Rapportandosi con l’azienda tedesca Adidas, sa che il mercato può offrire di meglio. Se solo riuscisse a convincere Adidas a investire nella pallacanestro americana.

 “Mi trovavo a mio agio nel camminare”, dichiarerà lo stesso Severn anni dopo in un’intervista con Matt Walters di Gameplan, “ma quando cominciavo a correre intensamente, a fermarmi e ripartire all’improvviso e ad atterrare dai salti, l’interno della scarpa si rovinava creando attrito con il piede, creando terribili vesciche sui talloni. Ho semplicemente cominciato a pensare che ci doveva essere una scarpa migliore che avrebbe creato meno lesioni.”

Fondata da Adi Dassler (da qui l’origine del nome dell’impresa), negli anni precedenti Adidas ha riscosso un enorme successo come produttrice di scarpe da atletica e da calcio. Adi ha un figlio di nome Horst, che nel 1959, a ventitré anni, diventa il responsabile della divisione francese della compagnia. È molto giovane, ma anche molto sveglio: parla fluentemente tre lingue (inglese, francese e tedesco), viaggia molto. È proprio Horst a intrattenere rapporti commerciali con Chris Severn a partire dal 1960, fornendo agli atleti americani scarpe da atletica chiodate in vista delle Olimpiadi di Roma. In quell’occasione, però, Chris si spinge oltre, proponendo a Dassler di cominciare a produrre scarpe innovative per la pallacanestro. Horst non lo sta nemmeno ad ascoltare: c’è già Converse per il mercato americano, e poi il basket è uno sport minore, non profittevole. Eppure, proprio in uno dei suoi viaggi, il giovane Dassler ha occasione di fare tappa alle Olimpiadi di quell’anno.

 

Adidas

Horst Dassler (a destra) con Chris Severn (al centro) e Clifford Severn (a sinistra) nel 1965, in un negozio Adidas. (Credits to The Adidas Archives, adidas.com).

 

“Horst non era particolarmente entusiasta dell’idea di una scarpa da basket fino a quando non vide le Olimpiadi di Roma”, dirà sempre Severn a Gameplan. “Penso che per la prima volta vide la pallacanestro con occhi diversi. La squadra che rappresentava gli Stati Uniti era composta dai giocatori migliori di quella manifestazione.”

“Si innamorò del gioco e dopo la partita si rimise in contatto con me. Mi chiamò: ‘penso che sia davvero una buona idea provare a creare una scarpa da basket’. Andò dai suoi genitori, che però sostenevano di non avere né tempo né risorse da sprecare sul basket. È uno sport minore, non preoccuparti nemmeno. Ma Horst si era innamorato. Allora mi disse: ‘faremo una scarpa da basket, ma non dovrai dire nulla ai miei genitori’. Non era perché fosse irrispettoso verso di loro, ma era come se i suoi genitori non avessero la sua stessa visione.”

I due cominciano a lavorare a una scarpa nella divisione francese di Adidas, con i genitori (e chiunque altro all’interno dell’azienda) all’oscuro di tutto. Partendo dal disegno di una scarpa da corsa in cuoio, Chris aggiunge le caratteristiche che ritiene necessarie, sulla base della sua esperienza con All-Star. Per prima cosa, un rivestimento ulteriore nella zona del tallone, così da diminuire il rischio di storte alle caviglie con il piede che poggia su una base più solida. Poi una linguetta posizionata sotto i lacci delle scarpe per evitare che la circolazione del sangue rallentasse qualora i lacci venissero stretti troppo (come accadeva con Converse), infine un ulteriore rivestimento sotto la suola per rendere gli atterraggi più morbidi. Si arriva al 1965, e dopo anni di errori, tentativi e test, la prima vera scarpa da basket di Adidas è pronta. Chris e Horst la chiamano Supergrip. Qualche mese più tardi viene terminata anche la Pro Model, ovvero la versione più alta delle Supergrip, che protegge le caviglie con il suo rivestimento di cuoio.

 

I primissimi modelli di Pro Model (a sinistra) e Supergrip (a destra) nel 1965. Adidas avrebbe poi sostituito la base marrone delle Supergrip con una più uniforme parte di gomma bianca qualche mese più tardi. (Credits to The Adidas Archives, adidas.com).

 

Il problema di queste nuove scarpe è che sono così diverse dalle All-Stars che nessuno sa nemmeno cosa siano. I rivenditori non sono interessati a vendere un prodotto del genere, e a Chris spetta l’ingrato compito di convincere uno ad uno i giocatori NBA, almeno a provarle.

“Cosa sono?”

“Sono scarpe da corsa, non da basket.”

Queste sono le frasi che Severn si sente pronunciare per tutta risposta. C’è solamente un giocatore che si convince a provarle in una partita inaugurale della stagione 1967-68, dopo ben due anni dalla loro ultimazione. Il suo nome è John Block, e fa parte dei neonati San Diego Rockets (poi Houston Rockets). John trova le nuove Supergrip perfette, perché soffre di problemi ai piedi, gli stessi che aveva Chris prima di lui quando giocava con le All-Star alla high school. Il giocatore diventa il suo personale ambasciatore, introducendo Chris agli allenatori dei Rockets, che gli danno il permesso di parlare al resto della squadra. Un paio di mesi più tardi, in occasione della prima partita della stagione, l’intero roster dei Rockets ha un paio di Adidas Supergrip o Pro Model ai piedi. La squadra concluderà la prima stagione in NBA in modo disastroso, con un orrendo 15-67, ma è il segno inequivocabile: Chris Severn, Horst Dassler, ma soprattutto l’azienda tedesca ce l’hanno fatta. Sono entrati in NBA. Si tratta dell’inizio dell’epoca Adidas, e il lento tramonto di quella Converse, che comunque resisterà in NBA fino agli anni ’90.

“Per tutti gli altri giocatori nella lega, quella era la prima volta in cui vedevano questo nuovissimo tipo di scarpe, questo nuovo concetto” dirà Chris Severn. “Ogni volta che una squadra veniva a San Diego per giocare contro i Rockets, io incontravo quelle squadre e i loro giocatori. Prendevo loro il numero di scarpe, le ordinavo, poi gliele avrei messe ai piedi.”

Da quelle prime Supergrip e Super Model, Adidas concepisce un nuovo modello solamente la stagione successiva: sul finire del 1969 escono infatti le Superstar, che presentano piccole migliorie rispetto alle precedenti.  D’altro canto, Converse risponderà proponendosi di pagare una specifica somma annuale ai giocatori qualora avessero indossato All-Star, inventando così il concetto di endorsement in NBA, dando di fatto vita a un business che raggiungerà i milioni di dollari nelle decadi successive. Ingolositi dai soldi, alcuni di loro torneranno sui propri passi, e Severn suggerirà a Dassler di fare lo stesso con il promettente Lewis Alcindor (poi Kareem-Abdul Jabbar), giocatore al primo anno ma fresco vincitore di 3 titoli NCAA, proponendogli un contratto da 25.000 dollari l’anno per vestire le Superstar. Alcindor accetta immediatamente, diventando così il primo giocatore NBA a essere direttamente sponsorizzato da Adidas. Ne seguiranno molti altri in quella stessa stagione, fra i quali spicca Jerry West, vera e propria Star della lega. È lo scacco matto per la compagnia tedesca, perché spinge Converse alla mossa della disperazione, lanciando le One Star. Anch’esse fatte di cuoio, apposta per convincere il sempre più crescente numero di giocatori che stava abbandonando il marchio, si riveleranno un totale fallimento, venendo percepite come una copia di Adidas. È troppo tardi. Sull’onda del successo delle Supergrip, le nuove Superstar hanno un impatto immediato, tanto che, secondo lo stesso Severn, il 75% dei giocatori arriverà a indossare Adidas nel corso della prima metà degli anni ’70. L’impensabile si verifica nel giro di pochissimi anni: da monopolio Converse, l’NBA è diventata un monopolio Adidas. La differenza sta nel fatto che Converse ha avuto quarant’anni per apportare modifiche e innovazioni che Adidas ha invece portato nel giro di cinque anni.

 

La “famiglia” Adidas per la pallacanestro, in un poster dei primi anni ’70. Da sinistra a destra: Greenstar, Supergrip, Pro Model, Official, Shooting Star. (Credits to sneakerlab.com)

 

Con le Superstar, di fatto Adidas spiana la strada anche ad altre aziende produttrici di scarpe appositamente per l’NBA: ha dimostrato come l’innovazione sia la chiave per avere successo in un mercato che non può più essere considerato impenetrabile. A partire dagli anni ’70, infatti altre multinazionali bussano alla porta di numerosi giocatori della lega, come Puma, che nel 1973 introduce il concetto di signature shoes, ovvero scarpe appositamente disegnate per uno specifico giocatore, con le Puma Clyde di Walt Frazier.

Nike, la rivale in ascesa

Ad accarezzare l’idea di un ingresso in NBA è anche la giovane Nike, fondata nel 1964 da Phil Knight con il nome di Blue Ribbon Sports e rinominata appunto Nike solamente nel 1971. Knight e la sua azienda sono in cerca di visibilità, essendo piuttosto piccoli, con un fatturato di appena 29 milioni di dollari nel 1973, proveniente prevalentemente dalla produzione di scarpe da corsa. La rivoluzione Adidas di qualche anno prima, però, cambia le carte in tavola e Knight sembra deciso a portare a termine un primo tentativo di ingresso nella lega: bisogna cavalcare l’onda, allargare i propri orizzonti. Sognare in grande. Partendo dalle solide basi delle scarpe da corsa, Nike lancia le Blazer nel 1973, prima scarpa da basket della sua giovanissima storia. Come può però un’azienda da nemmeno 30 milioni di dollari di fatturato competere contro un colosso come Adidas, soprattutto in quello che ormai è diventato il suo territorio? Dopo il primo lancio, Knight e il suo team trascorrono diversi mesi nel mettere a punto una strategia che possa migliorare la loro nuova scarpa e la loro visibilità, decidendo di puntare tutto su un solo fattore: la comunicazione.

Le Nike Blazer sono di fatto scarpe molto simili alle Superstar, essendo fatte di cuoio, con una suola in gomma. Con la contemporanea crescita di Puma, dunque, per emergere da questo contesto Nike deve fare un lavoro di marketing e comunicazione ben specifico per guadagnarsi una buona fetta di giocatori disposti a indossare il suo prodotto. Riuscirà nel suo intento con tre mosse ben specifiche. La prima: enfatizzare il nome Blazer e il fatto che siano state così chiamate in onore dei Portland Trail Blazers. La seconda: mettere ben in vista il logo dell’azienda sulle scarpe. La terza: cercare un giocatore a basso costo, magari pronto a esplodere, che faccia buona pubblicità alle scarpe. Nike si affida allora a un giovane George Gervin, soprannominato “The Iceman” per il suo modo di giocare e il suo atteggiamento sicuro di sé, catturando in questo modo l’attenzione dei tifosi. È il contatto perfetto per un’azienda che sta cercando di lanciarsi.

 “Nike era molto innovativa”, dirà Gervin in un’intervista del 2013. “Negli anni ’70 pensava fuori dagli schemi. Quando cominciai a giocare in NBA indossavo Adidas, poi Nike venne da me, dicendomi che mi avrebbe dato molti più soldi per indossare le sue scarpe, e io allo stesso tempo pensavo che avessero una qualità migliore. Così finii con l’indossare Nike per il resto della mia carriera”.

La partnership con Gervin è una questione di mera brand awareness per Nike. Essendo appena entrata nell’industria delle scarpe da basket, la compagnia pensa bene di apporre sulle Blazer il suo logo nero su una scarpa interamente bianca, lo “Swoosh”, in modo tale da renderlo ben visibile. Con Gervin ad attirare l’attenzione di telecamere e fotocamere, il gioco è fatto: ogni volta che viene inquadrato, vengono inquadrate anche le scarpe, associando le sue giocate a quelle scarpe così esteticamente diverse da Adidas.

 

Pubblicità di Nike del 1985 con Darrell Griffith (sinistra) e George Gervin (destra). Entrambi indossano un paio di Nike Blazer, lanciate nel 1973. (Credits to freshnessmag.com)

 

L’anno della svolta: il 1977

Passa qualche anno, e arriviamo al 1977, che si rivelerà fondamentale per le sorti di Nike e, seppur indirettamente, di Adidas. Lo Swoosh sta guadagnando sempre più consensi fra giocatori, minando il primato di Adidas come principale scarpa da basket della NBA, grazie alle sue campagne di comunicazione innovative e accattivanti. Phil Knight capisce che con uno sforzo in più può addirittura raggiungere il primato di Adidas nel giro di pochi anni. Chiama allora al telefono Rob Strasser, fidato manager di Nike fin dalla sua fondazione, tanto da poterlo considerare il suo braccio destro. I due discutono a lungo sulla possibilità di assumere nuovo personale, soprattutto per quanto riguarda ruoli chiave quali la creazione di nuove tecnologie e nuovi design per le future scarpe dell’azienda dell’Oregon. Nelle settimane seguenti Strasser si mette dunque alla ricerca di nuove risorse. La prima persona che assume è il designer Peter Moore, un nome che dovrete tenere bene a mente per il ruolo che svolgerà negli anni ’90. Il secondo nome che dovrete ricordare è invece Sonny Vaccaro.

A dire il vero, non è Nike a contattare direttamente Vaccaro, quanto il contrario. Sonny è una persona particolare, fuori dagli schemi e molto creativa. Nel 1964, quando era ancora al college, aveva fondato con il compagno di stanza Pat DiCesare il Dapper Dan Roundball Classic, ovvero uno dei primi tornei di basket scolastico d’America. Nei successivi dieci anni, la popolarità dell’evento crebbe a dismisura, con università giunte da ogni dove per osservare da vicino i giovani talenti delle principali high school. In quel contesto, Vaccaro conobbe numerosi allenatori di basket, alcuni dei quali anche molto importanti come John Wooden, che formò giocatori del calibro di Kareem Abdul-Jabbar e Bill Walton. Ecco, in questo contesto, nel 1977 Sonny conosce anche alcuni ragazzi, che gli chiedono se sia possibile fare qualcosa per migliorare le scarpe da tennis che indossano per giocare al torneo. Vaccaro non sa nulla di scarpe, e l’unica persona che conosce a potersene occupare è il calzolaio del suo paese, Bobby DiRinaldo, di origini italiane come il suo vecchio compagno di stanza all’università. Prende dunque alcune scarpe e le porta da DiRinaldo, chiedendogli di provare a fare qualcosa per migliorarle, renderle più resistenti e performanti.

“Tornai da lui dopo un mese, e lui mi mostrò alcuni design in cui usò pezzi di cuoio bianco per rivestire le scarpe”, dichiarerà Sonny a VICE nel 2017. “Io e Bobby non saremmo finiti a lavorare insieme. In realtà non avevo la minima idea di cosa stessi facendo, ma avevo alcuni amici avvocati che rappresentavano una manciata di giocatori NBA e mi dissero che se lo volevo avrebbero mandato una lettera di presentazione a una nuova azienda di scarpe chiamata Nike. Pensavo che la pronuncia fosse ‘Nicky’, così la chiamai ‘Nicky’ per circa un anno.”

Con suo stupore, pochi giorni dopo si vede recapitare una chiamata direttamente da Rob Strasser, che lo invita a Portland per un incontro. In realtà, il manager non è minimamente interessato alle scarpe di Vaccaro, quanto piuttosto alle sue numerose conoscenze fra college ed high school. Quando poco tempo dopo i due si incontrano, Strasser va dritto al punto, chiedendogli cosa abbia da consigliare all’azienda per portare il marchio fra i giocatori del college. Quello che Rob ha in mente è qualcosa di tanto semplice quanto efficace: abituare i giovani giocatori a indossare lo Swoosh già prima di entrare in NBA, così da renderli fedeli al marchio sin dai loro primi passi nel basket. Vaccaro ha ben presente il quadro della situazione. Prima del 1977, infatti, i giocatori pagavano di proprie tasche le scarpe che usavano per giocare e molti di loro non avevano nemmeno una tuta da usare durante il riscaldamento. La proposta di Vaccaro, dunque, è la seguente: pagare gli allenatori dei college perché i giocatori indossino scarpe Nike, gratuitamente fornite dall’azienda.

Sembra qualcosa di contro intuitivo, ma Sonny ha già tutto chiaro. Avrebbe ottenuto un budget specifico da Nike ogni stagione per pagare allenatori e università per far indossare Nike ai giocatori: un investimento che avrebbe visto i suoi ritorni in pubblicità, passaparola e, soprattutto, fidelizzazione dei giocatori. Tutte cose che si sarebbero tramutate in profitti con il giusto tempo. Vaccaro comincia da Jerry Tarkanian della University of Nevada, per poi passare a numerosi altri college americani. Da quel momento, molti giocatori della NCAA sarebbero passati a vestire Nike: questione di tempo perché lo stesso potesse accadere in NBA.

 

Casus belli, ovvero l’innovazione tecnologica

Con il nuovo triumvirato composto da Rob Strasser, Peter Moore e Sonny Vaccaro, Nike ha tutte le risorse necessarie per lanciare nuove scarpe da basket. Nello stesso anno, a questo trio si aggiunge anche Marion Franklin Rudy, ingegnere aerospaziale per la NASA. Con il lavoro che svolge per l’agenzia aerospaziale, Rudy comincia a pensare che l’aria possa essere usata anche nella vita di tutti i giorni. Nei suoi esperimenti, infatti, riesce a catturare gas in membrane di gomma, creando così una vera e propria sacca. Uno dei suoi test comprende anche l’inserire queste sacche d’aria nelle suole delle scarpe. È proprio Rudy a contattare Nike, mostrando i suoi risultati al team di Knight, che trova la scoperta eccezionale: queste sacche ridurrebbero di molto l’impatto che un singolo passo ha sull’intero corpo, soprattutto per quanto riguarda gli atleti professionisti. Dopo un anno di test, nel 1978 Nike lancia le Tailwind, ovvero le prime scarpe da corsa a incorporare aria nelle suole, con la tecnologia chiamata AIR.

 

Marion Franklin Rudy

Marion Franklin Rudy mostra i primi esperimenti con la AIR Technology di Nike, fra il 1977 e il 1978. (Credits to snakehistory.com)

 

È la mossa che accende la guerra fra Nike e Adidas, che da quell’anno diventa una battaglia lunga decadi, tanto da perdurare ancora oggi. Sul finire degli anni ’70, la compagnia tedesca ha ancora un discreto margine di vantaggio sulla concorrenza, ma sta perdendo terreno a scapito di Nike, giovane e innovativa come poche altre, che dai 29 milioni di fatturato del 1973 passerà agli 850 milioni del 1983. Mentre Nike sale alla ribalta, Adidas mantiene sì la sua posizione di leader, ma si trova a fronteggiare problemi interni all’organizzazione piuttosto complessi . Nel 1978 muore Adi Dassler, padre di Horst e fondatore della stessa azienda. A prendere in mano le redini della compagnia saranno la moglie Kathe e le sue quattro sorelle, insieme allo stesso Horst, ognuno a gestire specifiche divisioni, spesso non condividendo gli stessi obiettivi e la stessa direzione: gli effetti (negativi) di questa difficile gestione si vedranno solamente qualche anno più tardi. Nel frattempo, nel 1982 Nike lancia per l’NBA le Nike Air Force 1, con la tecnologia AIR integrata nelle suole. Non si può ancora dire che Nike abbia raggiunto Adidas a livello di sponsorizzazioni e contratti con i giocatori della lega, ma è sicuro che sia un passo avanti per quanto riguarda l’innovazione tecnologica. Per sperare di superare la rivale, però, serve ancora qualcosa in più. Quel qualcosa avrà un nome e un cognome ben definito: Michael Jordan.

 

Nel prossimo episodio

Abbiamo visto come a volte il successo di un’azienda, di una franchigia o di un giocatore è questione di determinazione. A volte di semplice intuito, mentre altre ancora qualcosa di più vicino al concetto di fortuna. Essere nel posto giusto al momento giusto, conoscere la persona giusta. Nel prossimo episodio esploreremo ancora più nel dettaglio questi elementi: passeremo agli anni ’80, e la puntata verterà principalmente sul ruolo che Michael Jordan ha avuto nella guerra fra Nike e Adidas. Subito dopo il Draft del 1984, infatti, MJ voleva solo indossare Adidas; ma qualcosa andò storto e Jordan finì con il firmare con Nike, cambiando per sempre le sorti delle due aziende e dell’intera NBA. Per scoprire il come e il perché, vi diamo appuntamento a martedì prossimo, con la seconda puntata di NBA Wars: Nike vs Adidas.

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