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Riconoscere la grandezza di Scottie Pippen

Il ruolo di Scottie Pippen all’interno dei Chicago Bulls e della storia NBA è molto più complesso di quello che in molti credono.

Scottie Pippen in maglia Bulls
"File:Lipofsky Pippen.jpg" by Copyright by Steve Lipofsky Basketballphoto.com is licensed under CC BY-SA 3.0. To view a copy of this license, visit https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/?

Scottie Pippen è uno dei giocatori dal più complesso inquadramento nella storia dell’intera NBA. Nel corso della sua intera carriera e anche negli anni che hanno fatto seguito al suo addio al basket, la sua immagine è sembrata assumere sempre contorni differenti a seconda della prospettiva dalla quale la si guarda.

Pensateci: che idea avete voi di Scottie Pippen?

Il palmarès parla per lui, incoronandolo tra i giocatori più forti e vincenti nella storia del gioco. Siamo dinnanzi a un 6 volte campione NBA, 7 volte All-Star, a un MVP dell’All-Star Game (nel 1994), a un 7 volte All-NBA (ben 3 volte nel All-NBA First Team), a un 10 volte All-Defensive Team (8 volte filate nel First Team All-Defense), a un due volte medaglia d’oro olimpica, a uno di quei giocatori inseriti nel 1997 nella lista degli NBA Best Players of All Times. Insomma, un’autentica leggenda.

In genere, però, il suo è il primo nome che viene speso quando si parla del  perfetto secondo violino, del Robin ideale. Un giocatore che, per emergere al massimo livello, aveva necessariamente bisogno di giocare attorno a un accentratore inarrivabile come Michael Jordan. Accanto al nome di Scottie Pippen c’è, dunque, sempre un piccolo asterisco, che fotografa la parziale incapacità di una certa fetta di opinione pubblica NBA nel riconoscere Pippen come un’autentica stella di prima grandezza.

Tale situazione sembra risultare perfettamente speculare a quella che Pippen ha vissuto per certe fasi della sua carriera: l’idea che fosse un grande campione, sì, ma non una stella di primissima grandezza.

Negli ultimi giorni, infatti, a seguito del rilascio delle prime due puntate di The Last Dance sulla piattaforma Netflix, ha destato non poco scalpore la notizia che Pippen, all’inizio della stagione 1997-1998, fosse titolare del 122esimo contratto NBA per valore (appena 2,775,000 dollari) e che fosse solo il sesto giocatore più pagato dei Bulls.

Fa impressione la sproporzione tra le due superstar di quei Bulls. Credits to Basketball Reference

Quel contratto, frutto di un accordo di ben sette anni da circa 18 milioni totali – ai tempi era possibile conferire contratti dalla durata ultraquinquennale – raggiunto nel 1991 dallo stesso Pippen con l’allora GM dei Bulls Jerry Krause rappresenta, però, più un bug nel sistema di distribuzione nella ricchezza NBA che un autentico esempio del tipo di riconoscimento di cui Pippen godeva nella lega.

L’ala dei Bulls, infatti, fu portata a siglare tale contratto per assicurare un guadagno sicuro alla sua famiglia, specialmente per poter permettere a suo padre e a uno dei suoi 10 fratelli di ricevere cure, ma al momento della firma era già un giocatore fondamentale per i Bulls: era già stato votato per l’All-Star Game e per il secondo quintetto All-Defensive della lega, aveva già vinto un anello da protagonista ed era considerato dai più una stella in rampa di lancio.

L’aver siglato un contratto così poco remunerativo, peraltro contro i consigli dei suoi agenti, ben prima dell’importante innalzamento del salary cap NBA avvenuto a metà anni ’90 ha contribuito ad inspessire la coltre di “ambiguità” attorno all’idea collettiva di un giocatore che, in realtà – come vedremo – già ben prima del suo debutto nella NBA aveva dato la chiara idea di ciò che avrebbe potuto rappresentare nella storia dei Chicago Bulls.

 

1987: l’anno del cambiamento

I Bulls hanno sempre avuto le idee chiare su Scottie Pippen, sin dalla notte del Draft 1987, quello in cui il prodotto di Central Arkansas ha fatto il suo ingresso nella NBA.

Come chiaramente emerso proprio dalle prime puntate di The Last Dance, i Chicago Bulls avevano la piena intenzione di liberarsi di alcuni elementi “tossici” dello sciagurato ciclo precedente all’era-Jordan e, per farlo, avevano bisogno di costruire un nuovo core, giovane e funzionale alle potenzialità sconfinate della propria stella.

Tale compito fu affidato a Jerry Krause, tornato ai Bulls nel 1985 e autore, nella notte del Draft di due anni dopo, di una duplice mossa che avrebbe cambiato per sempre la storia della franchigia. Alla vigilia del Draft ’87, infatti, la franchigia dell’Illinois disponeva di due scelte tra le prime dieci: la numero 8 e la numero 10.

L’obiettivo dichiarato era, com’è facile intuire, portarsi a casa Scottie Pippen ma le projections parlavano del prospetto da Central Arkansas come di un papabilissimo top 5. Krause, allora, effettuò una delle trade più importanti della storia della franchigia: scambiò la sua ottava scelta, divenuta Olden Polynice, assieme a due future seconde scelte (1988 e 1989) e alla possibilità di un trade swap al primo giro del 1990 con i Seattle Supersonics per assumere il controllo sulla quinta scelta assoluta, che portò proprio a Scottie Pippen.

Per completare l’opera, poi, Krause, spese la decima pick assoluta in Horace Grant, un altro assoluto pilastro del primo three-peat di Chicago.

Questa potrebbe tranquillamente essere una delle foto più importanti nella storia dei Chicago Bulls. Immaginate cosa avrebbe potuto essere la NBA con Pippen ai Sonics.

Come potete vedere, dunque, la dirigenza di Chicago ha sempre puntato forte su Pippen e, anzi, a Krause non dev’essere sembrata vera la possibilità, quattro anni dopo quel Draft, di rinnovare un Pippen fresco di primo anello NBA per una cifra così bassa.

A dirla tutta, però, il 1987 non fu un anno fondamentale nella storia dei Bulls solo per l’arrivo di Pippen e Grant. Nella medesima stagione entrò nel coaching staff dell’allora allenatore dei Bulls, Doug Collins, un tale Philip Douglas Jackson, noto ai più come “Phil”,  reduce dall’esperienza sulla panchina degli Albany Patroons in CBA.

Ma non è finita qui: proprio nel corso di quella stagione i rookie diedero a Krause le risposte che cercava e, nell’estate 1988 il GM attuò l’ennesima mossa decisiva verso la costruzione della prima dinastia vincente nella storia di Chicago. Scambiò un giocatore apparentemente imprescindibile di quei Bulls come Charles Oakley per Bill Cartwright, un altro fondamentale pezzo dei primi Bulls vincenti, liberando definitivamente lo spazio per l’esplosione di Grant.

Insomma, se è vero che Michael Jordan era già il leader della squadra dal 1984, non è scorretto dire che i Bulls che hanno dominato in lungo e in largo gli anni ’90 sono nati proprio la notte del 22 giugno 1987, quella del Draft NBA che portò Pippen nella lega.

A certificare questa idea è giunto, infatti, nel 2010, alla vigilia dell’introduzione di Pippen nella Hall of Fame, il commento di Jerry Reinsdorf, storico proprietario dei Bulls che dichiarò senza mezzi termini:

“Avevamo bisogno di Scottie per raggiungere il nostro massimo livello”

 

Una finestra sul futuro

Sarebbe, però, scorretto inquadrare Scottie Pippen soltanto nell’ottica del perfetto team player, del secondo violino, del pezzo mancante di un puzzle. Scottie Pippen è stato anche uno dei giocatori più rivoluzionari nella storia della NBA, uno di quei talenti in grado di far progredire la pallacanestro in maniera perdurante.

Nel 2015 lo stesso Pippen ha dichiarato:

“Io sono stato LeBron James prima di LeBron James.”

Una dichiarazione che ha fatto discutere ma, in effetti, non così lontana dal vero.

Contestualizzare i talenti di Pippen al suo anno di approdo in NBA risulta fondamentale per comprendere le sue affermazioni: nel 1987 non si era praticamente mai vista un’ala piccola di 203 cm, un’apertura alare e un fisico così scultoreo in grado di giocare al massimo livello in attacco e difesa, andare forte a rimbalzo, passare educatamente la palla e, quando necessario, fungere pure da point-forward. Pippen è stato, di fatto, la prima ala piccola moderna e all-around della storia del gioco: è sulla sua scia che si sono inseriti tutti i massimi esponenti odierni del ruolo, da Paul George a Kawhi Leonard, passando appunto, per LeBron James. Per quanto sia evidente che LeBron sia stato in grado di sublimare al massimo livello il concetto, rivoluzionando ulteriormente la storia della NBA

Pippen ha potuto modellare ciascuno dei suoi talenti ben prima di raggiungere la NBA, complice uno sviluppo tardivo che, mai come nel suo caso, si è rivelato provvidenziale.

Alla Hamburg High School della nativa Hamburg, Pippen ha sempre giocato come point-guard sotto la guida di coach Donald Wayne, figura fondamentale per il suo sviluppo: fino all’anno del suo diploma “Pip” a stento raggiungeva i 190 cm ma la sua applicazione e il suo talento naturale, comunque, gli hanno permesso di sviluppare un ball-handling sopra la media e un passing game educato, caratteristiche che torneranno decisamente utili nel corso della sua carriera NBA. Vi basta immaginare che in media Pippen ha fatto registrare 5.2 assist di media nel corso di tutta la sua vita cestistica, raggiungendo picchi straordinari come i 7 assist di media fatti registrare nel 1991-92.

Di certo la Triple-Post Offense giocata dai Bulls in quegli anni lo ha aiutato nel raffinare le sue scelte ma, al contempo, Pippen è stato la leva perfetta per sollevare il sistema di Phil Jackson e portarlo a un livello più alto.

La leggendaria gara da 14 assist di Pippen nella magica stagione del 72-10: tante letture nel triangolo e tanta qualità nel ruolo di point-forward.

Che dire, poi, della dimensione fisica del gioco di Pippen?

Robin è stato un rimbalzista feroce per tutta la sua carriera, in grado di andare a rimbalzo con efficacia -nel 1993-94 fece registrare addirittura 8.7 rimbalzi di media a fronte di una carriera da 6.4 rimbalzi medi- e di spingere la palla in transizione direttamente da rimbalzo difensivo. Inoltre, era un difensore straordinario sia sulla palla che lontano dalla stessa: aveva mani rapidissime e piedi veloci in grado di scivolare contro qualsiasi avversario, una solidità fisica che gli permetteva di non andare sotto contro nessun avversario e una wingspan immensa che gli consentiva di occupare ampissime porzioni di campo in orizzontale e sporcare le linee di passaggio: una dote fenomenale in una NBA che, di certo, non vedeva gli attacchi disporsi con le attuali ampissime spaziature. Non si viene di certo eletti per otto anni consecutivi nel primo team difensivo della NBA per caso, ma Pippen ha decisamente cambiato le prerogative ricercate nelle forward, risultando davvero un’autentica pietra miliare del gioco.

Una clip imperdibile se volete comprendere a fondo la modernità di Scottie Pippen.

Un altro aspetto a volte troppo sottovalutato di questa leggenda è, infine, la sua capacità di risultare un applicatissimo studente del gioco. Ogni anno, da quando entrato in NBA, ha sempre aggiunto delle caratteristiche nuove al suo gioco, modellando un talento che, come accennato in precedenza, è sempre stato spiccato, con una dedizione al lavoro a quei tempi non così diffusa. Se ai giorni nostri sembra automatico veder implementare nuovi dettagli nel DNA di  giocatori come LeBron James e Giannis Antetkounmpo, ai tempi non era così comune veder aggiungere nuove frecce all’arco di un giocatore così affermato.

Nel corso della sua carriera, invece, Pippen ha anche mostrato dei terrificanti sprazzi di modernità sotto l’aspetto del costante lavoro sul proprio gioco. Vi basti pensare che dagli 0.3 tentativi da 3 punti a gara (convertiti con il 17%) della sua rookie season passato a un modernissimo volume di 5.2 tentativi convertiti con una notevole percentuale del 37.4% della stagione 1994-95, la migliore statisticamente della sua carriera. O ancora, vi basti notare il terrificante incremento delle sue percentuali ai liberi, passate dal 57.6% della rookie season a un 70.4% di media nel corso dell’intera carriera, con il picco dell’81.8% totalizzato a una sola stagione dal ritiro. Pippen non si è mai fermato e, dopo il suo arrivo, l’approccio al ruolo di forward nella NBA è cambiato per sempre.

 

L’altro Scottie

Veniamo ora a quell’aspetto del gioco di Pippen che, sin troppo spesso, viene scelto per rafforzare quel piccolo asterisco di fianco al suo nome. Pippen non ha mai vinto un anello senza Jordan ma, come al solito, sarebbe necessario entrare nel merito dell’affermazione.

Nel 1994, Pippen è stato l’indiscussa stella dei Bulls e ha condotto la squadra, priva di Jordan, fino alle semifinali di Conference ma la strutturazione della squadra non risultava assolutamente competitiva quanto quella del triennio precedente: alle sue spalle il miglior realizzatore della squadra era Horace Grant e il carico realizzativo che un tempo gravava sulle spalle di Jordan era stato ridistribuito sulle spalle di onesti mestieranti del gioco come BJ Armstrong che, però, com’era ovvio che fosse, non avevano alcuna possibilità di poter in qualche modo tamponare l’assenza dello straripante dominio di MJ. Quanto è giusto, dunque, un impietoso confronto con i Bulls del triennio precedente?

Allo stesso modo, sarebbe davvero poco corretto addossare a Pippen l’impossibilità di vincere delle sue squadre nell’annata successiva al primo ritiro di Jordan. Nel 1999, la trade che lo ha portato agli Houston Rockets ha rappresentato per lui la chance di rifarsi dei sopra citati scarsi guadagni derivanti dai suoi contratti precedenti e per i Rockets la possibilità di giocarsi un ultima volta l’anello NBA. La squadra, però, era stata assemblata fuori tempo massimo: lo stesso Pippen era reduce da un anno in cui i problemi alla schiena lo avevano torturato, mentre Olajuwon e Barkley erano alla quattordicesima stagione NBA, proprio sulla soglia del momento calante delle rispettive carriere. L’eliminazione sonante subita al primo turno subita dai Lakers è la perfetta fotografia di una scelta sbagliata da più parti che, infatti, l’estate dopo portò Pippen a giocarsi le sue chance ai Portland Trail Blazers.

E a dirla tutta quelle chances se le giocò alla grande: la corsa di quella squadra si è fermata, infatti, solo in gara 7 delle Conference Finals del 2000, proprio all’alba della grande dinastia dei Lakers di Phil Jackson, Shaquille O’Neal e Kobe Bryant. Il suo apporto in quella stagione, a 35 anni, fu ancora di livello assoluto: giocò 82 partite su 82 in regolari season e lasciò addirittura il suo marchio indelebile su una gara di playoff, neanche a farlo apposta, contro gli Utah Jazz.

Da quel momento in poi, però, non ha più avuto una singola chance di risultare competitivo. La sua carriera si è chiusa con due stagioni ai Bulls, la 2002-03 e l 2003-04, in cui ha guadagnato 10 milioni di dollari complessivi, un contratto che ai più è sembrato davvero il calumet della pace offerto dalla dirigenza dei Bulls alla loro grande stella.

Una conclusione romantica di una carriera che è risultata gigantesca anche senza la necessità di vincere senza il suo fido Batman. Una conclusione pienamente coerente con l’immagine di uno dei giocatori più importanti nella storia dei Chicago Bulls e dell’intera lega. Una storia di cui, sicuramente, riusciremo a cogliere nuove sfaccettature grazie alle prossime puntate di The Last Dance.

 

Pubblicato la prima volta il 27 aprile 2020

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